Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

IL RAPPORTO CARITAS INDAGA LE CAUSE DELLA POVERTÀ

Tutti abbiamo letto le tragiche cifre sulla povertà assoluta in Italia del XXI rapporto Caritas: 5.571.000 persone, pari al 9.4% della popolazione, sono in povertà assoluta.

Ci indignano, ci fanno chiedere interventi di sostegno, ci invitano a pensare ai problemi dell’Italia, ci spingono, se possibile, ad aiutare queste persone: per farlo, però, è necessario affrontare le cause che hanno provocato la rapida crescita della povertà in Italia.

Ci sono problematiche alte che hanno provocato questa ulteriore pandemia, tre crisi (economica, pandemica e bellico-energetica) in meno di quindici anni, leggi inadeguate se non sbagliate, un sistema welfare che chiamare insufficiente suona tanto di eufemismo, un debito pubblico enorme che non consente di destinare risorse sufficienti a tante necessità del Paese, un sistema scolastico arretrato che non forma a nuovi lavori, i ritardi dello Stato in questo settore che ha lasciato alla Chiesa e al volontariato larga parte dell’assistenza ai poveri. Un lista a cui potrebbero sommarsi altre “deficienze” che meritano un approfondimento molto più ampio e dei migliori esperti, in questa sede vorremmo affrontarne solo alcune anche se l’intreccio tra i vari argomenti è spesso indissolubile.

Causa di povertà è certamente la mancanza di lavoro e i bassi salari. Certamente, ma quali sono le cause profonde?

La scuola è una delle cause principali: ci sono milioni di ragazzi che non lavorano e non studiano (cd. neet), magari perché non sono portati per le materie “qualificanti” ma forse portati più a lavori materiali che, però, nessuno insegna loro perché non ci sono più le scuole professionali (importante la scelta di rilanciare gli ITS); e cosa si fa perché, prima le famiglie e poi le istituzioni, si attivino per superare questa grave carenza sociale, cosa si fa per togliere i ragazzi dalla strada e dalle lusinghe dei soldi facili della malavita?

In maniera larga nella scuola rientra anche la formazione professionale sia per chi già lavora per migliorarsi sia per chi lavoro non lo ha a causa della sua scarsa professionalità.

Ancora, la difficoltà stessa di cercare un lavoro, perché se è vero che ci sono troppi furbi che non hanno firmato alcun “patto per il lavoro”, previsto dal reddito di cittadinanza, è altrettanto vero che i centri per l’impiego non funzionano, che le agenzie private non sono coinvolte, che i navigator sono stati solo uno spot propagandistico.

I salari sono un ulteriore problema e non solo perché bassi, questo è evidente. La mancanza di un salario dignitoso e la conseguente non accettazione è umanamente comprensibile anche se non dovrebbe avvenire; accettare lavoro lontano dalla propria residenza può avere un costo superiore al RdC; lavorare in nero per non perdere il RdC è sbagliato ma non si può dare la colpa solo al lavoratore perché non è raro il caso di imprenditori che ricercano lavoratori in nero o sotto-pagati: i controlli dello Stato dove sono?

Ultimo l’errore di affidare alla legge sul RdC alcune politiche attive del lavoro, compito istituzionale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Ulteriore argomento sono le leggi inadeguate e in questo momento storico non può essere che quella sul reddito di cittadinanza.

Tre dati: solo il 44% dei poveri riceve il RdC, 23 miliardi spesi in quattro anni, dove è stata acquisita nuova occupazione per circa il 70% è solo temporanea.

Non si può essere accusati di non voler aiutare le persone in difficoltà se si afferma che la legge sul RdC ha funzionato male, come sostegno economico e sostanzialmente nulla come politica attiva del lavoro, forse anche per pochi motivi di base.

È stato accentrato a livello nazionale (INPS) il tanto bistrattato reddito di inclusione (REI), tralasciando che non era stato finanziato a dovere, aveva fatto una scelta fondamentale -quella della prossimità-, aveva coinvolto i segretariati sociali dei singoli comuni, le istituzioni che meglio di altre possono conoscere le situazioni di deprivazione delle persone. Ancora a livello nazionale è stato stabilito il suo ammontare, senza tenere in alcun conto che i costi della vita al nord sono più alti e che al sud è più facile la presenza della casa di famiglia di proprietà, solo per citare due dei tanti aspetti che non sono stati presi in considerazione.

È stato assunto come elemento derimente per il riconoscimento l’ISEE: un indicatore importante ma fuorviante, tanto che si è riscontrato un “vantaggio” (termine sbagliatissimo) per i mono nuclei familiari rispetto a quelli più numerosi.

Infine, la mancanza dei controlli ex ante. Le banche dati pubbliche ormai sono collegate, perché non usarle per il riconoscimento del RdC ed evitare la vergogna di riconoscerlo a criminali o l’errore di assegnarlo a chi non ne ha diritto?

Ultimo argomento, fra i tanti che potrebbero essere citati, è il welfare. Qualsiasi aspetto del welfare è deficitario, quello sanitario, quello pensionistico, quello assistenziale. Per l’aspetto sanitario poter usufruire di servizi pubblici significa attendere mesi, per cui anche chi non può si rivolge al privato, finanziandosi in maniera non sempre ortodossa. Per l’aspetto pensionistico il livello delle pensioni è basso particolarmente per chi non ha avuto modo o il privilegio di godere di sistemi integrativi o complementari. Per l’aspetto assistenziale c’è solo da ringraziare il volontariato, laico e cattolico, che non solo integra ma spesso sostituisce uno Stato assente, e la generosità dei singoli cittadini.

In questa situazione va anche evidenziato che, per quanto possibile visto lo stato delle finanze pubbliche, gli interventi effettuati hanno consentito, nel periodo pandemico, nella crisi energetica dovuta alla guerra e con l’inflazione in atto, di non far peggiorare catastroficamente l’economia nazionale.

Su questi argomenti, come su quelli non affrontati, non può esserci mai una conclusione ma solo un lavoro in progress; un dato non può essere taciuto se si vuole realmente giungere a una normativa idonea a combattere la povertà: il RdC medio è di 580 euro, per un single, una pensione sociale è di 460,28 euro, un assegno di invalidità è di 287,09 euro, la soglia di povertà assoluta è di 629,29 euro, non servono commenti.

Probabilmente non è neppure questione di volontà ma di mancanza di mezzi, di soldi per parlare chiaro, non comprendendo che il welfare sanitario, pensionistico, assistenziale è il “biglietto da visita” di una comunità e che i “soldi” vanno trovati; i modi devono essere trovati in un Paese con una spesa pubblica che ha superato i mille miliardi di euro l’anno, con un’evasione fiscale intorno ai 100 miliardi annui, con contributi e agevolazioni a pioggia, troppo spesso a singoli gruppi di pressione: un Paese civile, l’ottava potenza economica al mondo, non può avere una famiglia su dieci in povertà assoluta e una su quattro a rischio di povertà.

Correggiamo gli errori delle leggi, affidiamo ad ognuno i propri compiti specifici e non altri, colpiamo chi si approfitta o truffa lo Stato e soprattutto i veri poveri, facciamo funzionare quanto non funziona solo così sarà possibile dare una vita, pur ai limiti più bassi, dignitosa a troppi nostri concittadini.

Tags: Fabio Picciolini Ottobre 2022

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa