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TUNNEL SULLO STRETTO DI GIBILTERRA E INFRASTRUTTURE EUROPEE

«El puente mas alto de Europa» è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Nei giorni scorsi El Pais, primo quotidiano spagnolo, con questo titolo ha raccontato al Paese e al mondo la nuova prodezza infrastrutturale iberica. Spiega con orgoglio che non solo sarà «il ponte più alto», ma anche «il più largo e il più lungo». Costruito a Cadice, unirà al sud della Spagna, a Puerto Real, la città circondata dal mare. Verrà completato nel 2010 dal gruppo Acs attraverso la filiale Dragados, con un costo di 272,5 milioni di euro. Come è giusto che sia, questa bella notizia è stata ripresa dai nostri organi di informazione che tout court hanno titolato: «Spagna, il ponte più alto d’Europa».

Ora spiego perché questo annuncio ha colmato la misura. Negli ultimi tempi la stampa straniera ci ha informato sulla meraviglia delle grandi opere che si fanno nei suoi Paesi, innaffiando gli articoli con retoriche echeggianti il ritornello «Noi siamo i migliori». L’assurdità non sta tanto in ciò, ma nel fatto che questa retorica è assorbita incondizionatamente anche dalla stampa italiana, affatto tenera quando si tratta di raccontare le opere di casa nostra. Ripercorriamo solo i principali annunci.

Tunnel di Gibilterra. Giustamente strombazzato dalla stampa spagnola, viene accolto da uno dei primi quotidiani italiani con un fondo in prima pagina a firma di uno scrittore di fama mondiale che così ne parla: «Costruire un tunnel o un ponte è la miglior prova da opporre a chi crede allo scontro delle civiltà, dimenticando che culture e civiltà non sono blocchi di calcestruzzo ma valori spirituali che circolano, fluidi, attraverso il mondo senza chiedere il parere dei politici. Un ponte è una mano tesa, una volontà di lavorare insieme, di parlare insieme, di vincere pregiudizi e ignoranze». Parole sacrosante.

Alta velocità europea. I due principali quotidiani italiani titolano, l’uno, «Parigi-Strasburgo, linea da record, ora il Tgv corre come un aereo»; l’altro, «Da Londra a Parigi in 2 ore e 15, il record del treno che sfida l’aereo», e giù a raccontare le meraviglie dell’alta velocità.

Ponte sul Baltico (Germania e Danimarca). Sempre uno dei più importanti quotidiani italiani titola: «È il ponte dei record, unirà le rive del Baltico».

Nuovo Canale di Suez. Tutti i giornali nostrani hanno salutato molto positivamente l’evento e in alcuni casi sono riusciti a parlar bene anche del Canale concorrente in Nicaragua.

Viadotto di Millau (Francia). Ricordate? «Il viadotto più alto del mondo». Inaugurato dal presidente Jacques Chirac, ha raccolto dalla stampa francese un consenso più che unanime. La nostra stampa gli è andata dietro parlando di «Opera dell’ingegno umano».

Linea ferroviaria veloce Madrid-Barcellona. «In Spagna il treno batterà l’aereo», spiegano con entusiasmo i nostri media. Questi sono solo i più recenti esempi del plauso offerto alle grandi opere degli altri. In un solo caso non c’è stata una retorica eco internazionale, e dunque esso è stato sostanzialmente ignorato anche dai nostri giornali: il ponte greco tra Rion e Antirion, opera che, a onor del vero, non aveva nulla da invidiare ai grandi progetti visti. Ma allora dov’è il trucco? Perché alcune opere sono raccontate come il prodotto dell’ingegno umano e sono simboli di pace, mentre altre sono ignorate o, peggio, demonizzate?

Dietro la grancassa giornalistica che fa eco alla produzione di infrastrutture c’è la capacità di questo o quell’altro Paese di fare quadrato intorno alle proprie decisioni, e guai a chi si mette di traverso. A questo si accompagnano, naturalmente, il «peso» specifico di ciascun Paese, la sua credibilità all’interno e al di fuori dei propri confini, il senso dei suoi cittadini di orgogliosa appartenenza allo Stato. Se manca anche una sola di queste variabili, che sono le reali fondamenta della prima pietra, salta tutto. Consenso, tempi, costi.

All’Italia, purtroppo, mancano alcune di queste variabili. L’argomento è di tale ampiezza, spessore e con radici lontane, che conviene limitarci a rilevarne semplicemente il suo riflesso sulla stampa e sulla percezione complessiva che il Paese ha delle proprie grandi opere. Esempi? Tav Torino-Lione: «Inutile, costosa, devasta l’ambiente, c’è l’uranio nelle montagne». Mose: «Non serve, devasta l’ambiente, i veneziani non lo vogliono». Ponte sullo Stretto: apriti cielo, chi più ne ha, più ne metta. Rigassificatori, inceneritori, centrali elettriche: «Non servono; e se proprio vanno fatte, fatele più in là». Strade e stradine. C’è sempre un comitato contrario che va sulle prime pagine.

Insomma, è difficile trovare un grande o piccolo progetto infrastrutturale italiano che non sia stato bombardato su tutti i fronti; le eccezioni ovviamente confermano la regola. Qui scatta il meccanismo mediatico internazionale al contrario. Infatti l’eco della nostra retorica negativa si riflette su tutti i giornali del mondo, perché è così che funziona e, purtroppo per noi, non solo per le opere infrastrutturali.

Alcuni esempi. Il ponte sullo Stretto salutato dai nostri media come l’opera più sciagurata del mondo è stato trattato, dagli stessi giornali stranieri che hanno osannato il viadotto di Millau o il tunnel di Gibilterra, come un regalo alla mafia, un cataclisma ambientale, una follia pura e semplice. Dimenticando che, se c’è un’opera dell’ingegno umano, è proprio questa, e che proprio il ponte di Messina «è una mano tesa, una volontà di lavorare insieme, di parlare insieme, di vincere pregiudizi e ignoranze».

Se un Paese si è condannato a non essere profeta né in casa propria né all’estero, un rimedio potrebbe essere quello di imparare a fare quadrato sulle proprie decisioni. Imparare ad esprimersi con maggiore serietà, criticando costruttivamente, senza insulti o demonizzazioni prive di un reale riscontro. Insomma, imparare a vedere più verde la nostra erba e non sempre e solo quella del vicino.

Tags: trasporti infrastrutture reti Febbraio 2007 FLORIO CALENZAI

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