Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

  • Home
  • Articoli
  • Articoli
  • PICCOLE E MEDIE IMPRESE: 36 GIORNI DI LAVORO L’ANNO SPRECATI PER LA BUROCRAZIA

PICCOLE E MEDIE IMPRESE: 36 GIORNI DI LAVORO L’ANNO SPRECATI PER LA BUROCRAZIA

Con il vocabolo burocrazia secondo Wikipedia si intende l’organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità. È bene ricordarlo perché la realtà, almeno in Italia, induce a dare definizioni che si discostano da quel che leggiamo qui sopra e si avvicinano a vocaboli decisamente più amari e pessimisti, non solo, ma tanto più amari e pessimisti quanto più ci si avvicina al mondo operativo. Può valere la pena di dare una occhiata a quel che ne pensa una grande e importante associazione industriale, la Federchimica, che raccoglie il fiore dell’industria chimica.
Nell’assemblea del 1995 il presidente dichiarò: «Abbiamo partecipato, per anni, a dibattiti sui temi dell’efficienza della pubblica amministrazione e della semplificazione delle procedure: molte lamentele e critiche, poche proposte concrete di soluzione. Ci siamo convinti che la complessità e farraginosità delle normative e delle procedure, insieme alla conseguente scarsa efficienza della pubblica amministrazione, sono tra i vincoli di natura strutturale che ostacolano lo sviluppo dell’industria chimica italiana, quelli che più penalizzano il sistema Paese nei confronti della competitività internazionale. Si tratta di un insieme di atti così complesso e ingovernabile da scoraggiare in maniera pesante le disponibilità al nuovo delle imprese sia nel caso di impianti sia per i prodotti».
E, più in là, si legge che sono necessarie 15 procedure prima della realizzazione dell’impianto e 13 prima della sua attivazione. Ognuna delle 15 procedure è di competenza di dieci diverse autorità, mentre le altre 13 sono prescrizioni di varia natura, non autorizzatorie, che vanno dalle semplici comunicazioni alle più complesse notifiche o richieste di sopralluogo o collaudo. Per ben che vada, almeno 163 pratiche, e pare che in alcuni casi si arrivi ad oltre 250 diversi fascicoli.
Pure dalla Federchimica, ma sette anni più tardi, ecco come il presidente Giorgio Squinzi commenta la situazione (Corriere della Sera, 11 aprile 2002): «Ipertrofia normativa e burocratica che non permette di programmare investimenti e di portarli a funzionamento in tempi ragionevoli. È questo il collo di bottiglia. Faccio un solo esempio: per l’autorizzazione a un ampliamento nello stabilimento di Mediglia, ho aspettato 9 anni. Nel frattempo abbiamo costruito 12 stabilimenti dal Canada alla Germania».
Questo drammatico appello di chi opera per creare ricchezza in Italia non è, come detto, di ieri, ma risale a qualche lustro, ed è necessario notare che in tutto questo tempo non si è fatto nulla di serio per migliorare il panorama. Il che porta inevitabilmente a una considerazione: l’Italia è capace di individuare i problemi da cui è afflitta, di stendere una diagnosi, ma non è assolutamente in grado di porre mano a qualche sia pure minimo barlume di soluzione. E che quello della chimica non sia un fatto isolato è confermato da quanto si legge in un documento firmato da Sabino Cassese nel contesto di uno degli infiniti tentativi di riforma del sistema a proposito del settore farmaceutico: «La disciplina legislativa relativa all’impresa farmaceutica ha prodotto un elevato grado di incertezza negli operatori a causa della molteplicità e della sovrapposizione delle norme». In altri termini, uno dei settori più importanti in un’economia di trasformazione è in balia delle scorribande normative dei legislatori.
In questo la situazione attuale non è molto diversa da qualche secolo ad oggi, come risulta da qualche scritto di Carlo Cipolla. In particolare da «Il burocrate e il marinaio», Il Mulino, 1992. Ecco come il capitano di una nave inglese, John Stoakes, in una lettera ai superiori in Inghilterra (1658) commenta i propri rapporti con le autorità del porto di Livorno: «Le impertinenze del Granduca e dei suoi ministri in questo affare che essi chiamano pratica sono impossibili da descrivere per lettera. Le precedenti esperienze che io ebbi nel trattare con loro fecero sì che io mi muovessi con inimmaginabile cautela e tuttavia, come ricompensa, non ricevetti altro che villanie. Vostro Onore deve sapere che i miei marinai non furono mai ammessi a pratica il che significa che ogni volta che necessitavano di acqua dovevano prelevare una guardia alla «bocca» che li doveva accompagnare ed essere pagata per il suo incomodo, ed essendo proibito loro di entrare in città, dovevano seguire la guardia nel retroterra al pozzo di un privato. Con il loro insopportabile comportamento mi causarono un ritardo di 19 giorni senza scopo veruno».
Ma torniamo ad oggi, con qualche numero. Per quanto riguarda le piccole-medie imprese si calcola che ogni anno vadano persi tempi di lavoro equivalenti a 36 giorni lavorativi. Mentre, per quanto riguarda la creazione di start-up, il Corriere della Sera parla di «incubo» a causa di «norme complicate e burocrazia lumaca», che ci hanno fatto scivolare indietro nelle classifiche mondiali addirittura dopo Ruanda, Zambia, Ghana e Namibia. Mentre, per rimanere nel contesto europeo, in Italia il debutto nel mondo dell’imprenditoria costa 2.673 euro rispetto a una media europea di 399 euro. Ma non è solo una questione di costi.
L’Italia si distingue in negativo per la lunghezza dei tempi per ottenere licenze per costruire, per ottenere credito, per i regolamenti contorti e pasticciati, per un fisco esoso. Ne consegue che, sempre riferendoci ad un confronto riportato dal Corriere, fra i giovani europei sono disponibili a rischiare in proprio il 32 per cento degli italiani , il 48 per cento dei francesi, il 56 per cento degli spagnoli. Ne consegue che la frazione più vivace e coraggiosa dei giovani italiani si sta allontanando dalle imprese più moderne, ad elevato contenuto tecnologico, che producono ricchezza. E non a caso chi entra in un negozio di elettronica si rende conto che le marche italiane sono sostanzialmente assenti. E vale la pena di rifarsi ad un esempio illuminante di quanto e come poco accorta sia la politica scientifico-tecnologica italiana in materia di competitività e modernità, riferendo come l’Italia perse il treno dei semiconduttori elettronici.
Un contributo determinante allo sviluppo dell’elettronica è stato dato da Federico Faggin, creatore degli straordinari progressi nei semiconduttori che portarono al chip. Egli si è trasferito negli Usa dopo aver ricevuto un netto rifiuto da un’importantissima quanto miope ditta italiana. Sentiamo quanto l’atteggiamento generale italiano ha influito sulla fuga dall’Italia di Faggin: «Era il mio primo viaggio transatlantico.
In California, oltre ad imparare tecnologie sugli ossidi metallici semiconduttori, ebbi la chiara rivelazione di come la gente lavorava nelle industrie intorno alla baia di San Francisco. Ne fui immediatamente conquistato: qui le persone più importanti sembravano essere ingegneri, scienziati ed imprenditori, non politici o pedanti professori umanistici come in Italia. Questo era il posto per me. Non sapevo come avrei fatto a tornarci, ma sapevo che sarei tornato» (dalla conferenza tenuta nella New York University il 18 ottobre 1997, nell’ambito di un incontro fra scienziati italiani e scienziati emigrati negli Usa).
Faggin ha messo in piedi nel settore dell’elettronica un’impresa che parte dalla ricerca svolta negli Usa, mentre la produzione e l’utilizzazione avvengono in diversi Paesi asiatici. Un vero e proprio impero tecnologico «globale», a portata di mano e sostanzialmente rifiutato. Come del resto era stato rifiutato il primo computer portatile del mondo concepito nel contesto del progetto Elea di Adriano Olivetti. Ma questo non fu certamente l’unico esempio di progetto tecnologico rovinato dal sistema burocratico italiano. Un caso clamoroso fu quello del prof. Domenico Marotta. Marotta era stato il principale attore della costruzione e dello sviluppo dell’Istituto Superiore di Sanità, Istituto di ricerca di primo ordine, nel quale lavoravano studiosi di alto livello, fra i quali alcuni premi Nobel: Ernst Boris Chain, uno degli scopritori della penicillina, Daniele Bovet, Rita Levi Montalcini.
Marotta gestiva l’Istituto con una regola: non mettersi una lira in tasca. Per il resto riteneva gli adempimenti burocratico-amministrativi come un’inutile formalità e un dannoso impedimento, avendo fatta salva quella che riteneva un presupposto fondamentale: l’onestà personale. Un errore, ovviamente, ed anche serio. E così una sera il quasi ottantenne prof. Marotta finì in carcere. Al processo che ne seguì si capì che, per semplificare le procedure di acquisto di un centralino telefonico, aveva diviso in due fatture l’importo dell’acquisto. Questo portò ad un inasprimento delle normative e della burocrazia: in buona sostanza, nessuno firmava più nulla se non c’erano mille passaggi burocratici.
Sempre nello stesso periodo il prof. Felice Ippolito, fra i pionieri dell’energia nucleare in Italia, finì in prigione a causa dell’utilizzazione di una camionetta del Cnen, l’ente nucleare italiano, del quale Ippolito era segretario generale, per fare su e giù fra il luogo in cui Ippolito era in villeggiatura e Roma. Ovviamente, le due istituzioni di riferimento, l’Istituto di Sanità e il Cnen, entrarono in una crisi paralizzante che danneggiò fortemente lo sviluppo delle ricerche in due settori vitali per l’economia, il comparto biomedico e quello dell’energia nucleare. Nel contrasto fra efficienza e vincoli burocratico amministrativi hanno torto e ragione un po’ tutti. È chiaro che non si possono saltare le regole, ma bisognerebbe anche evitare situazioni normative quali quelle descritte dall’appello della Federchimica sopra riportato.
Il momento attuale richiede velocità e competitività nei confronti sia del resto di Europa sia dei Paesi emergenti. Soprattutto questi ultimi considerano il tempo come una variabile importante e non, come talvolta sembra che noi riteniamo, come qualcosa di irrilevante nei processi produttivi.   

Tags: Maggio 2013 Luciano Caglioti

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa