PEGGIO CHE ALL’IPPODROMO LA CORSA AD OSTACOLI DEL GOVERNO MONTI
Dopo mesi di iperattivismo legislativo, giustificato dalla necessità di riportare in carreggiata il nostro Paese agli occhi dei mercati finanziari e della comunità internazionale, anche il Governo Monti si scontra ora con una nostra malattia atavica: i ritardi nell’attuazione delle leggi. Secondo un’analisi del Sole 24 Ore, che ha fatto notizia a fine agosto, i regolamenti e gli altri atti di esecuzione previsti dalle principali norme legislative più recenti (da ultimo il decreto legge sulla «spending review») sono 393. Al 30 di agosto ne risultavano emanati solo 53. I termini sono già scaduti, per esempio, per l’autorizzazione unica ambientale per le piccole e medie imprese, per il bando di gara per l’assegnazione delle frequenze per le tv libere, per i criteri e le procedure relative al trasferimento di varie categorie di personale docente.
L’immagine sembrerebbe quella di un motore legislativo a pieni giri, che alimenta però ingranaggi complicati che si inceppano facilmente. Intanto, molte norme contenute nei vari decreti legge «Salva-Italia», «Cresci-Italia», «Semplificazione», «Sviluppo» ecc. hanno in realtà carattere autoesecutivo, cioè producono effetti immediati tangibili. Tra queste, basta ricordare la modifica alle aliquote fiscali, l’imposizione di riduzioni o di tetti massimi ai compensi dei dirigenti e dipendenti pubblici, la soppressione o riduzione di contributi, la liberalizzazione di certe attività, l’eliminazione di autorizzazioni e altri passaggi burocratici. Anche le nuove regole sui licenziamenti per ridare flessibilità al mercato del lavoro non richiedono atti attuativi.
In generale, le norme autoesecutive sono usate in tutti i casi in cui si debba conseguire un risultato immediato, soprattutto ai fini di riequilibrio della finanza pubblica. All’inizio degli anni Novanta, quando l’Italia era già stata sull’orlo del baratro, molti ricordano ancora il blitz operato con il prelievo forzato sui depositi bancari. Un difetto di queste norme è che possono creare discriminazioni. Per esempio, i tagli lineari alla spesa delle pubbliche amministrazioni finiscono per premiare quelle meno virtuose e per penalizzare quelle che magari avevano già attuato spontaneamente risparmi consistenti.
Molte disposizioni legislative dei decreti Monti che avviano riforme strutturali prevedono invece, necessariamente, fasi esecutive più o meno articolate. Del resto sarebbe impensabile che le leggi possano contenere sempre tutte le norme di dettaglio. Ciò porterebbe a un allungamento dei tempi della loro approvazione e una «ossificazione» di un sistema normativo già irrigidito: ogni modifica anche di una norma più minuta richiederebbe un passaggio in Parlamento. Se mai il nostro sistema necessiterebbe di una delegificazione molto più spinta.
La tecnica legislativa usuale, prevista dalla Costituzione per quasi tutte le riforme strutturali, è quella della legge di delegazione, che si limita a stabilire i principi e i criteri direttivi della riforma e che rinvia ai decreti legislativi del Governo da emanarsi entro termini predefiniti. Anche qui la prassi si è complicata su due punti essenziali. Il primo è che il Parlamento vara leggi di delega a maglie così larghe da riservarsi poi il potere di esaminare in sede di commissione gli schemi dei decreti legislativi e di esprimere un parere. Inoltre, la stessa legge di delega consente al Governo di emanare decreti legislativi correttivi. Questo comporta che l’assetto finale della riforma resta «ballerino» per tempi molto lunghi.
Le riforme del Governo Monti, più che con questa tecnica, data anche l’urgenza sono state varate con decreti legge che, a maggior ragione, richiedono una molteplicità di atti attuativi di ogni genere e tipo: regolamenti attuativi o di delegificazione, piani e programmi, criteri e standard tecnici rimessi a commissioni di esperti ecc. Molti di questi atti sono di competenza di un singolo ministro, ma nel procedimento intervengono tutte le amministrazioni preposte alla tutela di interessi coinvolti anche solo indirettamente. E anche questo costituisce un freno, perché acquisire un parere, un «concerto», un’intesa o un altro atto di assenso richiede tempi che di fatto non sono mai brevi.
È vero che, in caso di ritardo nell’acquisizione di questi atti, il Ministero che li richiede potrebbe, in base alla legge generale sul procedimento amministrativo, prescinderne e decidere ugualmente, ma questo non accade quasi mai, anche perché costituirebbe uno sgarbo istituzionale. Per gli atti normativi di tipo regolamentare è richiesto poi il parere del Consiglio di Stato, e molti atti, prima di entrare in vigore, passano al controllo della Corte dei conti per il visto di regolarità. Nella migliore delle ipotesi, anche quando i termini stabiliti dalla legge sono ridotti al minimo, sono necessari vari mesi. Il paradosso è che l’iter delle leggi, specie quelle di conversione dei decreti legge entro 60 giorni, diventa più veloce di molti suoi atti attuativi.
La produzione normativa è una sorta di fontana a cascata che poi si disperde in mille rivoli anche per un’altra ragione. Soprattutto dopo la riforma costituzionale del 2011, che ha ampliato la competenza legislativa delle Regioni, il legislatore nazionale deve rispettare le prerogative di queste ultime e degli enti locali. Da qui il rinvio a provvedimenti normativi da approvare in sede locale o comunque il coinvolgimento degli enti territoriali nell’emanazione dei decreti attuativi ministeriali.
Si pensi soltanto all’accorpamento delle Province, un livello di governo che la Costituzione prevede come necessario, accanto ai Comuni, alle Regioni e alle Città metropolitane (art. 114). Il procedimento previsto dalla legge sulla «spending review» è così complesso che non potrà rispettare i termini strettissimi previsti per i singoli passaggi. Esso prevede che il Consiglio delle autonomie locali di ogni Regione formuli un’ipotesi di riordino da sottoporre alla Regione, che trasmette al Governo la proposta definitiva. Inoltre ogni Comune può formulare proposte volte a modificare le attuali circoscrizioni provinciali. Il Governo deve poi trarre le fila di tutto in un disegno di legge di riordino approvato dal Parlamento con le modalità ordinarie (art. 17 del decreto legge n. 95/2012).
Alcune scorciatoie procedurali imboccate dal legislatore nazionale vengono talvolta censurate dalla Corte costituzionale. Da ultimo, per esempio, la Consulta ha annullato una norma di accelerazione della cosiddetta conferenza dei servizi, una sede nella quale tutte le amministrazioni che hanno voce in capitolo in una determinata decisione discutono ed esprimono il loro assenso definitivo. La norma prevedeva che nei casi in cui una Regione deve esprimere un’intesa nei confronti di un atto statale, se questa non viene raggiunta entro 30 giorni, il Consiglio dei ministri, con la partecipazione allargata al presidente della Regione interessata, può prendere una decisione vincolante (sentenza n. 172 del 2012).
Un altro fattore che condiziona i tempi di attuazione dei decreti Monti è l’effetto di accumulo. Viene richiesto infatti un impegno straordinario dei dirigenti e funzionari pubblici che si aggiunge al lavoro ordinario di uffici talora già gravati da carichi di lavoro consistenti. L’attuazione delle riforme passa attraverso l’istituzione di «task force» interne alle singole amministrazioni, rilevazioni di dati che coinvolgono tutti gli uffici, la predisposizione di documenti e studi preparatori, tavoli di confronto con le altre amministrazioni, il coinvolgimento di esperti talora anche esterni. Questa mobilitazione eccezionale rischia di rallentare anche il lavoro quotidiano.
Qualcuno ha criticato il programma del Governo Monti per essere così a vasto raggio da non poter aspirare ragionevolmente a esaurirsi nei pochi mesi che ci separano dalla fine della legislatura. E quando l’arco temporale è breve, interviene spesso un altro fattore: il boicottaggio strisciante nella speranza che il nuovo Governo faccia marcia indietro. Le esperienze passate dimostrano che gli interessi costituiti colpiti dalle riforme, primi fra tutti quelli delle Amministrazioni, hanno mille modi diretti e indiretti per rallentare le fasi attuative. Pochi mesi sono poco più che un battito d’ali. Basti pensare al profluvio di ricorsi alla Corte costituzionale da parte delle Regioni, o ai ricorsi al giudice amministrativo. Il riassetto delle Province vede sul piede di guerra quelle che rischiano di essere cancellate. La soppressione dei «tribunalini» trova un’opposizione fortissima in sede locale.
Né si può pensare che ai ritardi sistematici delle singole amministrazioni, centrali o periferiche, nella predisposizione di atti attuativi complessi si possa porre rimedio con il potere sostitutivo attribuito da molte leggi ad apparati o a organi sovraordinati. La stessa Costituzione attribuisce al Governo il potere di sostituirsi alle Regioni e agli enti locali in caso di inadempienze più gravi. Ma un siffatto potere si presta a essere usato solo pochissime volte, quasi a scopo dimostrativo, e non può essere una soluzione a regime. Ancor meno efficace è la minaccia di sanzioni o di responsabilità per danni a carico di funzionari e dirigenti. Questi ultimi sono in grado quasi sempre di difendersi con giustificazioni di ogni genere e tipo, e a praticare il gioco dello «scarica barile».
Non vi sono dunque scorciatoie, se non quella di mettere in cantiere una riforma incisiva della pubblica amministrazione alla quale anche il Governo Monti sta mettendo mano. Molte misure, infatti, mirano a iniettare dosi di efficienza, di manageriali e di valorizzazione del merito all’interno delle Amministrazioni. Ma qui emerge un altro paradosso: il successo di questo tipo di riforme dipende in gran parte dagli sforzi in sede esecutiva della stessa Amministrazione inefficiente che si vorrebbe invece rendere efficiente. In ogni caso, a regime, fintanto che non si ricostituirà una dirigenza pubblica forte e motivata, non asservita al potere politico, non sarà possibile far funzionare il meccanismo dei premi e delle sanzioni che già la «riforma Brunetta» di inizio della legislatura aveva cercato di valorizzare.
È senz’altro un buon segno che il Governo Monti abbia consapevolezza del problema e si stia dotando di meccanismi interni di verifica sotto forma di «cronoprogrammi», commissioni tecniche, sedi per valutare i risultati intermedi ecc. Lo sforzo è titanico. Del resto neppure Michael Schumacher nei tempi migliori, al volante di una utilitaria, avrebbe potuto vincere un gran premio.
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