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eni, punta di diamante della politica energetica italiana

Il palazzo dell’Eni sul laghetto  dell’EUR, a Roma

a cura di
UBALDO PACELLA

 

L'energia, le fonti di approvvigionamento, il sistema della produzione e distribuzione con i costi relativi costituiscono il cuore di un sistema industriale avanzato. Una cruciale importanza strategica, ancor più rilevante per un’economia di trasformazione come quella italiana che, seppur malandata e frustata dalla più grave crisi economica di sistema, poggia sull’impresa manifatturiera, come non manca quotidianamente di ricordare il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Fonti energetiche, politica estera, capacità tecnologiche, accordi internazionali, penetrazione sui nuovi mercati hanno rappresentato il patrimonio migliore sul quale l’Eni, sin dai tempi gloriosi seppur controversi di Enrico Mattei, ha costruito le basi del proprio successo, imponendosi con un mix di alta professionalità e capacità di interpretare i mutamenti di scenario, pazientemente costruito in uno dei mercati più competitivi e, d’altro canto, più chiusi dell’economia mondiale.
La necessità di contare su fonti energetiche stabili, magari ad elevati costi, ha fatto sì che il nostro Paese rovesciasse la tradizionale visione, trasformando il tallone d’Achille della propria economia nel fiore all’occhiello dell’impresa italiana. Ciò ha permesso negli anni all’Eni di imporsi come uno dei primi gruppi energetici e di ricerca al mondo. Tant’è che molti autorevoli studiosi e commentatori ritengono che, prima l’Eni e, più recentemente, l’Enel svolgano di fatto quella funzione di attori della politica energetica che il Governo e le istituzioni hanno colpevolmente trascurato. Un dibattito di cui si è dato conto su queste stesse colonne quando si è parlato della Sen (Strategia energetica nazionale), coraggiosamente abbozzata dall’esecutivo di Mario Monti dopo oltre un ventennio di silenzio, ma già tramontata almeno in parte, se non relegata in un fondaco del Ministero di via Veneto.
I temi energetici, con i riflessi fondamentali che esercitano sulla competitività del sistema Paese, restano tuttavia cruciali. Mantengono un rilievo di gran lunga superiore al clima polemico, sovente rozzo e caratterizzato da una disinformazione diffusa che non manca di puntare il dito sulle scelte della multinazionale italiana, vuoi per un ambientalismo barricadiero e antagonista, vuoi per alimentare richieste economiche improprie o lontane dal mercato, quanto per il vezzo politico e sociale di considerare come controparte un’industria di eccellenza a carattere internazionale, senza misurare in modo sereno e scientifico costi e ricavi dell’energia in termini ambientali, ma anche industriali. Ci si dimentica, nello sbandierare vessilli di facile richiamo, che nessuna scelta è a costo zero e questo vale ancor più in ambito energetico.
La dipendenza dell’Italia dall’estero in tema di energia supera di gran lunga l’80 per cento tuttavia non sentiamo l’esigenza, almeno nel dibattito pubblico, di sapere se e quante fonti primarie sono disponibili nel sottosuolo o nei nostri mari, come potrebbero eventualmente essere utilizzate, quale ne sia il bilanciamento in termini di costi benefici per l’ambiente, il tessuto sociale, il sistema industriale. Questo fa sì che forse l’unica punta di lancia di cui disponiamo in ambito internazionale sia costretta ad operare, con indubbi successi, lontano dal nostro Paese. Siamo in presenza di una ambiguità che ci condanna al declino, peggiora gli effetti socioeconomici della crisi, paralizza ogni attività di valore strategico.
L’Italia appare prigioniera dell’incapacità cronica di decidere, sia per le infrastrutture dell’Alta velocità ferroviaria, nonostante i clamorosi successi raggiunti di cui milioni di cittadini usufruiscono, sia per i rigassificatori, per le centrali elettriche, per le reti del gas, come delle telecomunicazioni, per gli impianti eolici o i pozzi di trivellazione a terra o in mare. Siamo una società avanzata o meglio pensiamo di esserlo che dovrebbe sostenersi sulle spalle di altri. Un ceto politico incerto quanto impaurito, vittima della propria fragilità e dell’endemica incapacità di costruire una solida classe dirigente, fugge di fronte al primo contrasto, basta uno stormir di fronde per compromettere ogni grande iniziativa economica. È un prezzo insostenibile che proprio gruppi come l’Eni finiscono per pagare, aggiungendo ulteriori ostacoli alle loro complesse iniziative, soprattutto in uno scenario denso di cambiamenti, alle prese con mutamenti geopolitici di ragguardevole rilievo.
Sono indicative alcune cifre per comprendere in sintesi quale ruolo eserciti il «cane a sei zampe» nato 60 anni or sono, con un brand tra quelli di maggior successo in epoca contemporanea. Occupa 78.000 persone in 90 Paesi, produce nel 2012 1.701 milioni di boe (barili equivalenti) al giorno, ha venduto lo scorso anno 95 miliardi di metri cubi di gas in tutto il pianeta. L’Ebitda (il margine operativo lordo) del Gruppo arriva a 1.314 miliardi di euro, gli investimenti tecnici ammontavano lo scorso anno a 12,8 miliardi di euro, l’utile netto è stato di 7.788 milioni di euro, di fronte a ricavi della gestione per 127.220 milioni di euro e a un cash flow pari a 12,36 miliardi di euro.
Questa descrizione economica, tuttavia, non rende ragione dell’importanza strategica del gruppo italiano se non si mettono a fuoco gli obiettivi di breve e medio periodo che ne fanno un protagonista di rango nel contesto petrolifero energetico internazionale. Sono previsti investimenti nei prossimi 4 anni per 47 miliardi di euro con lo scopo di veder crescere la produzione di almeno il 4 per cento medio l’anno così da raggiungere i 2,5 milioni di boe al giorno. L’esplorazione e la produzione di fonti energetiche costituiscono del resto la focalizzazione preponderante di attività, in particolar modo da quando è stata resa operativa la dismissione delle quote azionarie in Snam e Galp. Tecnici di primordine, sofisticati sistemi di ricerca, adozione di tecnologie innovative hanno costellato la storia di successi dell’Eni nello scoprire e rendere operativi nuovi campi di estrazione; queste opportunità si vanno incrementando in un’architettura delle fonti energetiche sempre più complessa. Spiccano così i successi esplorativi ottenuti negli ultimi anni, primo tra tutti quello della scoperta del gas in Mozambico, ritenuta dagli esperti la più grande nella storia del Gruppo e una delle maggiori in quella dell’industria petrolifera mondiale, tale da farla ritenere una vera chiave di volta per la penetrazione verso i mercati asiatici dell’India, della Corea del Sud e del Giappone.
L’Africa, d’altro canto, può considerarsi una sorta di terra di elezione per l’Eni, nella quale è presente da sempre, con una politica molto attenta al settore sociale, uno sviluppo capace di coinvolgere il territorio e le popolazioni, entro i fragili equilibri di aree molto instabili e di complessa gestione.
Quanto il Gruppo italiano si impegni in nuove scoperte come pure in tecniche innovative di sfruttamento è testimoniato dal fatto che negli ultimi 5 anni abbia scoperto giacimenti per oltre 7,5 miliardi di boe in nuove riserve, oltre il doppio della produzione cumulata nello stesso periodo che è arrivata a 3,2 miliardi di boe. Risultati record raggiunti negli ultimi 4 anni in termini di prospezioni esplorative, nell’ordine di almeno 1 miliardo di barili in media all’anno raggiunti in diverse aree del pianeta dal Mare di Barents al Congo, dall’Angola al Ghana, cui si aggiungono ora le riserve del Mozambico. Queste attività rappresentano il cuore pulsante dell’Eni, un gigante italiano che, pur nella difficilissima congiuntura attuale, opera in ogni zona del mondo con la stessa attenzione alla gestione, alla sicurezza delle persone e dell’ambiente, allo sviluppo delle società locali. Gli obiettivi fissati per il 2016 prevedono una crescita della produzione superiore al 4 per cento annuo, in virtù degli impianti in Kashagan o all’avvio di altri progetti in Norvegia, in Venezuela o come ricordavamo in Angola.
La scelta dell’Eni è di concentrarsi su interventi di grandi dimensioni, capaci di aumentare la redditività, di mettere a frutto le rilevanti capacità tecnico scientifiche, di rafforzare la presenza sui mercati emergenti. Tant’è che da questo settore si prevede l’aumento dell’80 per cento di nuova produzione, mentre più contenuto sarà l’apporto di nuovi elementi di sviluppo degli impianti già operativi. Vale la pena di sottolineare, a questo riguardo, come la maggior parte dei progetti Eni interessino le aree dove più forte è il suo radicamento industriale, la conoscenza geologica dei terreni, le economie di scala, la penetrazione operativa e i rapporti con l’ambiente sociale e politico. Il Gruppo si prefigge entro il decennio di assumere una completa responsabilità di operatore diremmo globale, in altri termini di guidare circa l’80 per cento della propria produzione complessiva attraverso joint venture dedicate all’attività sui singoli impianti.
Sono oltre 26 i progetti che l’Eni prevede di sfruttare nel prossimo triennio, con una crescita produttiva stimata in circa 600 mila barili al giorno in diversi continenti dall’Africa agli Stati Uniti, dall’Europa alla Russia al Kazakistan.
I successi nelle esplorazioni sembrano, d’altro canto, rappresentare il fulcro delle attività e dei successi di mercato nel campo petrolifero, poiché secondo gli analisti internazionali il prezzo di questi prodotti è destinato nel futuro a scendere, cosicché mantenere elevati profitti richiederà forti capacità di diversificare. Questo è uno dei motivi per i quali l’Eni punta molto sulle attività estrattive in Mozambico dove è presente da alcuni anni, proseguendo quella geopolitica che guarda con crescente attenzione al continente africano. I grandi giacimenti di gas della zona fanno pensare a potenzialità maggiori di quelle previste. Il complesso di Mamba e di Coral, tanto per dare un significato concreto sono stimati per oltre 2600 miliardi di metri cubi di gas, con un aumento del potenziale di circa 280 miliardi di metri cubi, un quantitativo sufficiente a far fronte al consumo di gas in Italia per più di tre anni.
L’avvio dello sfruttamento dei giacimenti in Mozambico previsto prima della fine di questo decennio consentirà all’Eni di ampliare la propria penetrazione strategica verso il sempre più importante mercato asiatico, i cui consumi sono in costante crescita per lo sviluppo produttivo di tutta l’area dall’India al Vietnam, dalla Corea del Sud al Giappone senza trascurare il gigante asiatico per antonomasia: la Cina.
L’Africa resta il mercato strategico e storico dell’Eni la cui penetrazione nei decenni è stata molto attenta agli equilibri sociali e politici di nazioni sempre alle prese con fenomeni di accentuata instabilità. Dobbiamo ricordare, a questo proposito, come il gruppo italiano abbia sempre onorato i propri impegni. È rimasto, ad esempio, presente in Libia durante la guerra civile, di contro a quanto fatto da altre compagnie, pur fermando gli impianti in ossequio alle decisioni internazionali.
Proprio l’Eni si è fatta interprete di un negoziato per consentire una deroga al fermo degli impianti relativa esclusivamente ad uso umanitario e civile poiché il gas prodotto dai suoi impianti consentiva la fornitura di elettricità al 60 per cento della popolazione libica, indispensabile tra l’altro per la conservazione degli alimenti. Questa costante nelle relazioni internazionali garantisce ottimi rapporti, facilita gli investimenti, favorisce lo sviluppo dei Paesi e delle popolazioni, in un clima di spiccata collaborazione e di cooperazione futura con l’Italia.
La mobilità accentuata delle risorse energetiche all’inizio del millennio, d’altro canto, ha causato scossoni profondi agli assetti del settore come ha evidenziato in più occasioni Leonardo Maugeri, presidente di Ironbank investiments, attento analista del comparto. Le grandi compagnie petrolifere, a suo giudizio, negli ultimi anni hanno speso moltissimo con modesti risultati, poiché hanno scoperto molto gas, ma poco petrolio e il primo in termini economici vale assai meno sia per nuove tecnologie di estrazione, si pensi allo shale gas, sia per una espansione delle fonti rinnovabili che richiede in ogni Paese nuove scelte combinate. Le condizioni contrattuali, per altro, appaiono sempre più onerose, come se ciò non bastasse numerose scelte sono state discutibili o peggio inutili, come quella di investire per esportare gas negli Stati Uniti, per accorgersi ora che quel territorio non solo non ne ha bisogno, bensì conserva capacità estrattive in grado di cambiare drasticamente gli scenari energetici internazionali.
L’Eni per nostra fortuna è stato ben lontano da compiere simili scelte sbagliate rafforzandosi nelle aree di produzione, come in quelle di consumo, con un sapiente bilanciamento delle fonti e l’applicazione di tecnologie e conoscenze scientifiche che in questo campo ne fanno uno dei leader assoluti. E infatti quelli del gruppo italiano sono considerati i migliori geologi del mondo. L’Eni non si è fatta prendere in contropiede dallo sviluppo, dovuto a nuove tecnologie estrattive, dello shale gas nel nord America, dove è presente con sue società di punta. Proprio questo settore è quello destinato a incidere maggiormente nelle geo strategie economiche.
Di cosa si tratta: l’estrazione di gas di scisto ricavato dalla frantumazione della roccia madre a migliaia di metri nel sottosuolo mediante il pompaggio di acqua, sabbia e sostanze chimiche.
Queste nuove tecniche porteranno la produzione americana ad aumentare del 40 per cento in trenta anni, ma soprattutto determineranno una repentina caduta dei prezzi. Il dipartimento dell’energia degli Stati Uniti stima il costo dello shale gas in circa 4 dollari al Mmbtu (unità di misura convenzionale) rispetto ai 12 dollari dell’Europa e ai 15 dell’Asia, con la possibilità del Nord America di esportazioni massicce, sempre molto convenienti nonostante il costo del trasporto e della distribuzione con l’obiettivo duplice di assicurare agli Stati Uniti la sempre inseguita autosufficienza energetica, di pari passo con il contenimento dell’attuale monopolio russo, soprattutto verso l’occidente europeo, senza considerare che questo ne rafforzerebbe il primato strategico verso i Paesi partner dell’America nella politica estera e in economia.
Le tecniche estrattive e l’uso di imponenti quantità di acqua, che viene successivamente recuperata e riciclata anche per uso agricolo, sembra rendere estremamente complesso lo sfruttamento dello shale gas in Europa, un continente con una rilevantissima antropizzazione, sebbene giacimenti siano stimati in Polonia e Norvegia. Altri più facilmente usabili si trovano sulla sponda meridionale del Mediterraneo in Libia e Algeria.
La crescita complessiva della produzione di greggio in Nord America segnala un livello di 4,6 milioni di barili al giorno nel 2011, che arriveranno a 7,3 milioni al giorno nel 2013 e a 14,5 milioni nel prossimo anno. Uno scenario, a ben vedere, in forte mutamento che implica la realizzazione di nuovi impianti per l’immagazzinamento, il trasporto e lo stoccaggio del gas naturale. È il futuro del settore con la costruzione di rigassificatori, proprio quelli che in Italia sono ovunque osteggiati, che consentirebbero di calmierare il costo dell’energia, di superare gli oneri dei gasdotti che oggi attraversano decine di migliaia di chilometri e Stati con complicazioni evidenti in politica estera come in affidabilità delle forniture.
Una sola nave gasiera di trasporto è in grado di coprire il fabbisogno annuo di una città di 100 mila abitanti. Molte di queste navi sono in cantiere, basti ricordare che nel 2005 ne incrociavano sui mari appena 200, oggi sono oltre 350 e saranno, secondo stime accreditate, poco meno di mille entro il 2030. I rigassificatori diverranno sempre più necessari e importanti; in Spagna ne sono già attivi 7, in Italia se ne parla ma quasi nulla si realizza, anche questo penalizzerà oltremodo l’approvvigionamento energetico e la competitività del sistema nazionale.
Una opposizione spesso pregiudiziale ad un uso equo sostenibile dell’energia e degli impianti che grava su tutti gli italiani, che sembrano sempre troppo distratti per capire quanto costa il «no» di enti locali e istituzioni, piegati sempre più a interessi rumorosi di minoranze ideologiche, incapaci di assicurare quel ruolo di terzietà e di indirizzo politico che compete loro, alla mercé di ondate di populismo cui legano effimeri successi elettorali o le sorti di partiti incapaci di assumersi la responsabilità di scelte di lungo periodo, che incidono per decenni sulla vita e la prosperità del Paese prima ancora che delle comunità locali.
Le difficoltà dell’Eni in Italia la dicono tutta sulle resistenze presenti nel nostro Paese, è sempre più difficile ad esempio sfruttare le risorse del territorio, basti pensare alla crescente ostilità per le piattaforme che dovrebbero sorgere intorno alle nostre coste, in alcuni casi a 5 chilometri dalla riva, come in Adriatico nel comprensorio di Chieti dove questo impianto garantirebbe un reddito di un miliardo di euro tra investimenti e fiscalità. Il tutto in un contesto di grandi garanzie se consideriamo che l’Italia è l’unico Paese nel mondo che ha trasformato la moratoria nei confronti del petrolio e del gas in una legge nazionale.
Altri come la Regione Sicilia hanno aumentato le royalties per il territorio dal 10 per cento al 20 per cento, cosa che altera i programmi industriali e potrebbe, alla fine, mettere in dubbio la redditività degli impianti. Il piano degli investimenti del gruppo, per altro, prevede interventi sul nostro suolo per circa due miliardi di euro l’anno. L’incremento della produzione di idrocarburi nazionali è sollecitato, del resto, dal Cnel, il quale dedica particolare attenzione allo scenario energetico, quale elemento fondamentale della ripresa produttiva per ridurre sensibilmente la dipendenza dall’estero e riparametrare la bolletta energetica. Gli iter autorizzativi rendono troppo complesso e fragile l’utilizzo delle risorse nazionali, alle quali va data grande attenzione, nel più elevato rispetto per la sostenibilità sociale ed ambientale, aumentando da un lato la sicurezza dei sistemi, ma dall’altro favorendo un nuovo impulso dei poli tecnologici esistenti.
 Le cifre, in questo ambito, dimostrano con tutta la loro asciutta evidenza quanto vi è da fare. L’Italia è il Paese della UE dove più elevato risulta il costo dell’energia e della bolletta elettrica. L’Eurostat certifica che per il secondo semestre del 2012 il costo dell’energia elettrica nei 17 Paesi dell’euro è aumentato del 6,1 per cento rispetto al 6,6 per cento dell’intera UE, ma in Italia esso è cresciuto di ben l’11,2 per cento; questo per una serie di oneri aggiuntivi, di distorsioni dovute ai macroscopici incentivi assicurati alle fonti rinnovabili, in particolare al fotovoltaico, al livello delle accise, al calcolo dell’Iva.
Quanto al prezzo del gas metano esso è cresciuto nello stesso periodo del 10,3 per cento nella media UE, e del 10,6 per cento in Italia. Il bilancio elettrico italiano, stando ai dati 2011 del GSE, stima la richiesta di energia elettrica sulla rete nel nostro Paese di 334,6 Twh (terawattora), il 24,3 per cento della quale prodotta con rinnovabili, il 62 per cento con termica tradizionale e pompaggio (di cui il 41,5 per cento da gas naturale), il 12 per cento da carbone, il 7,9 per cento da altri combustibili), mentre l’importazione dall’estero è stata del 13,7 per cento. Il consumo reale di elettricità arriva a 313,8 Twh il 44,6 per cento dovuto a impieghi industriali, il 31,1 per cento al terziario, il 22,4 per cento ad usi domestici e l’1,9 per cento all’agricoltura.
Il riequilibrio dei costi impone all’Eni una rinegoziazione dei vecchi contratti, così detti «take or pay», cosa che il Gruppo ha iniziato a fare con successo con gli algerini di Sonatrach concordando la revisione di alcune condizioni contrattuali per il 2013 e il 2014. Questi accordi di vecchio tipo prevedevano la garanzia di approvvigionamento di lungo termine con un prezzo agganciato alle quotazioni del petrolio e obbligano l’acquirente a corrispondere interamente o in modo parziale il prezzo di una quantità minima di gas anche qualora questa non venga consumata, pur prevedendo una compensazione nel breve periodo.
La scelta obbligata sul mercato attuale dell’energia messa a punto dall’Eni prevede di proseguire nella modifica dei contratti, per subire meno oneri finanziari, anche con i russi di Gazprom, la libica Noc, gli olandesi di GasTerra e la norvegese Statoil. Tutto ciò in una congiuntura caratterizzata da una flessione accentuata e continua dei consumi energetici. La strategia è quella di realizzare una contrazione dei prezzi e dei volumi contrattuali, rendendo in contempo molto più flessibili i prelievi, in modo da equilibrare la bilancia dei pagamenti che fissa il take or pay in 18,4 miliardi di euro per questo segmento.
La storia del cane a sei zampe si arricchisce di nuovi capitoli, si modifica interpretando le esigenze di cambiamento del nostro Paese, di pari passo con le trasformazioni delle economie e dei mercati, resta tuttavia solidamente ancorata alla filosofia del fondatore, come di quei gruppi dirigenti che nei decenni ne hanno garantito le fortune economiche, il peso strategico, la continuità di una politica energetica affidabile su cui l’economia e la società italiana potessero contare in ogni mutevole scenario, di pari passo con una costante attenzione ai fattori umani, alla responsabilità etica d’impresa che ne impreziosisce il palmares, tra competitor pronti a tutto, pur di realizzare profitti o di accaparrarsi nuove acquisizioni o campi di sfruttamento.
L’Eni è un marchio italiano, uno dei pochissimi elementi di valore mondiale rimasti appannaggio del nostro sistema industriale, dobbiamo saperlo custodire e favorirne lo sviluppo. Senza energia materiale e soprattutto morale non si costruisce una società moderna, né si esce da questa anabasi che segna il discrimine storico per l’Italia tra rilancio o declino. Vogliamo correre verso un futuro più equo per tutti, in primis per i giovani, e per farlo servono davvero sei gambe.    

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