I MERCATI FINANZIARI VOGLIONO STUPIRCI ANCORA - SOTTRARRE I PAESI ALLA SCHIAVITù DELLA FINANZA
I mercati finanziari evidentemente vogliono stupire ancora. Abbiamo atteso per tutto agosto che dessero il colpo di grazia al nostro Continente, facendo precipitare in bancarotta i Paesi più a rischio, tra cui il nostro e invece no. L’innesco di pratiche virtuose, l’apparente coesione realizzata, forse per necessità, immediatamente dopo l’elezione di Hollande tra Francia, Germania e Italia, con ripetute esternazioni su una comune strategia per combattere la speculazione, la mossa del numero uno della Banca Centrale Europea Mario Draghi di garantire acquisto illimitato di bond ai Paesi in difficoltà, hanno fatto il miracolo.
Ai primi di settembre il governatore della Banca d’Italia, sulla base di un calcolo effettuato dai suoi economisti, ha sottolineato come i dati fondamentali delle due economie italiana e tedesca, messi a confronto, non giustificavano uno spread elevato come quello che eravamo abituati a registrare prima dell’estate; quasi a suffragare con i fatti le sue affermazioni, il livello dello spread tra bund tedeschi e titoli di Stato italiani è sceso addirittura a 370 punti. Tutto questo non significa però che dobbiamo farci illusioni, anche se il presidente del Consiglio Mario Monti formula espressioni di incoraggiamento a procedere nella strada virtuosa da lui indicata.
Passi avanti, obiettivamente per quanto faticosamente, sono stati compiuti. Vengono riconosciuti persino dalle agenzie di rating, in particolare da Moody’s. Ma ancora una volta, non illudiamoci. Già l’Ocse ha ritoccato le previsioni: la nostra economia a fine anno cederà non l’1,7 per cento ma il 2,4 per cento, mentre è sotto gli occhi di tutti, anche grazie ai dati diffusi dall’Istat, che il nostro Paese rischia di soccombere sotto il peso della disoccupazione crescente, con 141 tavoli anticrisi aperti nel Ministero per lo Sviluppo per quasi 170 mila posti di lavoro a rischio in autunno, e del precariato giovanile che riguarda milioni di ragazzi.
Chiudono i negozi, segnala la Confesercenti. Mai visti cali così poderosi nell’acquisto di auto in Italia, dice il capo della Fiat Sergio Marchionne; crescono le insolvenze e i crediti inesigibili presso le banche, documenta la Banca d’Italia. L’ultimo rapporto della Coop conferma che una famiglia su quattro si indebita per arrivare a fine mese e solo una su tre ci arriva con serenità. Per gli agricoltori la Cia conferma che tre famiglie su dieci comprano meno cibo. Ma allora - se consideriamo che il tasso di felicità in Italia è il 6,1 per cento minore di quello di Francia e Germania ma anche di Spagna -, dove sono i motivi di ottimismo che vengono abbozzati a più riprese?
È importante in questo momento il massimo della trasparenza. È fondamentale che, se ripresa deve esserci, sia fondata su dati certi. Invece nel documento «Italian spread» diffuso in estate l’Eurispes ipotizza che finora sono state evitate esplosioni di dissenso solo perché in Italia c’è un’economia «non osservata», un sistema economico parallelo a quello ufficiale, che nel 2012 avrebbe generato 530 miliardi di euro, somma pari al prodotto interno di Finlandia, Portogallo, Romania e Ungheria messi insieme, e al 35 per cento di quello italiano che è di 1.540 miliardi. Cui vanno aggiunti i 200 miliardi fatturati dall’economia criminale, che si riciclano nell’economia legale.
Ci si chiede - è recente l’inchiesta di un grande quotidiano su un fenomeno che riguarderebbe ampiamente le forze di polizia - se l’Italia «tiene» con il doppio lavoro. Al quale l’Eurispes assegna una fetta di produttività pari a 90 miliardi. Gli immigrati, dal canto loro, producono per 12 miliardi. I pensionati attivi, per 43,5. Le casalinghe, occupate come baby sitter e badanti, per 24. I finti disoccupati in realtà svolgono lavori non registrati per 12,6 miliardi. Gli indipendenti - intrattenitori per feste, chiropratici, idraulici, istruttori di danza, di tennis, giardinieri, muratori, e così via - producono per 87 miliardi di euro.
Dunque la risposta è sì: l’Italia «tiene» grazie al sommerso. Il che vuol dire che, se è proprio vero che l’emergenza è superata - caro Governo tecnico -, è ora di ridisegnare completamente l’intero sistema Paese, non di fare aggiustamenti, per quanto validi, pensati per non esasperare le lobbies o le clientele dei grandi partiti. Occorrono riforme di ampio respiro, capaci di leggere la realtà determinatasi subito dopo il boom degli anni 60 a causa di scelte governative compiute per convenienza che per lungimiranza. Da politici apparentemente sotto scacco, più che da statisti degni di tale nome. Riuscirà il Governo tecnico a impostare tali riforme?
L’interrogativo è d’obbligo perché non basta saper guidare se il motore della macchina in cui ci si siede è vecchio; se per un provvedimento sugli esodati non si riesce a stimare la quantità esatta di persone interessate; se, stabilendo l’obbligo di usare il bancomat o di inviare delle ricette mediche per posta elettronica per combattere il sommerso, non si pensa a quanti anziani soli diverranno ostaggio di conoscenti più abili con le tecnologie. E soprattutto non bisogna dimenticare che i provvedimenti dell’Esecutivo devono essere approvati da una maggioranza parlamentare. Che ora, per quanto ampia, è sempre più a rischio.
L’uscita dal tunnel dunque, se avverrà, potrà avvenire solo se, grazie al suo Governo, l’Italia sarà riuscita ad agganciare all’ultimo momento il treno di un’Europa finalmente decisa a reimpostare, su base federale e con larghe convergenze sul piano economico, bancario, fiscale da potersi definire realmente un’entità coesa, un «contraltare» accreditato di fronte alle nuove potenze emergenti Brasile, Russia, India, Cina. La crisi ha messo in luce come il progetto europeo sia fragile senza vera integrazione e cessioni di sovranità su alcune materie. Ma, tranne al momento il capo dei banchieri tedeschi, questo spirito unitario appare emergere.
Se avrà questo traino l’Italia potrà accompagnare gli sforzi di oggi con una prospettiva per il domani. Sull’agenda però dovranno inevitabilmente scrivere, senza neanche una pagina bianca, le cose da fare per risistemare sanità, giustizia, scuola, formazione e soprattutto fisco. Solo così avrà speranza di uscire dal tunnel. E comunque non sarà una passeggiata, visto che si parla e non da ieri di Europa a due velocità, di Stati virtuosi perché improntati all’etica protestante e Stati-zavorra perché ispirati al lassismo cattolico, con fazioni schierate per l’europeismo opposte a strenui difensori della sovranità nazionale.
La partita si gioca tutta qui. Anche i mercati che prima dell’estate facevano paura si sono arresi, almeno per il momento, quando hanno visto la determinazione di Draghi e di tutti i capi di Stato europei nel difendere quanto era stato costruito finora, superando divisioni e influenza dei «falchi» di turno. Anche per paura che le divisioni e la crisi dell’euro possa ricreare scenari catastrofici. Ma attenzione, attenzione davvero: i rappresentanti dei 300 milioni di cittadini europei non devono dimenticare che una parte consistente dei problemi sul tappeto deriva dall’immenso debito contratto, da una vita vissuta da tutti oltremisura.
Ripensare il sistema di sviluppo è il passo essenziale in questo quadro nel quale la massa delle attività finanziarie è 14 volte superiore al prodotto dell’intero pianeta e quindi in qualsiasi momento può spostarsi con un semplice clic destabilizzando equilibri, economie, democrazie; nel quale le scommesse speculative oggi sono pari a due dozzine di volte il debito sovrano europeo complessivo; e nel quale alcuni rimedi, pensati per arginare questa preponderanza dei mercati, sono capaci di mettere in discussione da un momento all’altro l’ordine pubblico dei Paesi coinvolti nella crisi.
È vero, infatti, che si possono studiare ricette tecniche per diminuire i rischi di insolvenza sovrana dei singoli Stati. Ne abbiamo prospettato uno recentemente, derivante da una proposta curata da un gruppo di studio coordinato dal prof. Paolo Savona, incentrato su strumenti finanziari capaci di agevolare la dismissione del patrimonio pubblico immobiliare. Ne è stato, recentemente, studiato un altro a cura del prof. Giuliano Amato di concerto con il presidente della Cassa depositi e prestiti Franco Bassanini, fondato sulla logica del rientro dei capitali e dell’allungamento delle scadenze di rimborso dei buoni del Tesoro poliennali. Ma non possono bastare.
Almeno, non possono bastare se non sono accompagnati da un cambio di marcia complessivo. La svolta vera risiede nel rendere il nostro sistema di sviluppo - nazionale, europeo, occidentale - autonomo dalle possibili tempeste finanziarie regolamentando gli scambi con l’introduzione di maggiori controlli, di una vigilanza bancaria europea, nonché di strette limitazioni ai contratti maggiormente simili a scommesse clandestine. Ma soprattutto impostando nuove relazioni tra sistemi economici e finanziari attraverso una separazione netta tra i giochi speculativi diretti alla ricerca di profitti potenzialmente stratosferici e le vite di tutti noi.
La finanza non può e non deve inquinare una sana economia di mercato e di conseguenza la democrazia. Tenerla a bada significa, non foss’altro che come argomento di discussione e di confronto, anche immaginare che sia possibile una «prosperità senza crescita», per evitare di continuare a correre sull’autostrada di una vita al di sopra dei nostri mezzi che alimenta la spirale del debito. L’idea è di Tim Jackson e l’ha recentemente richiamata la rivista dell’Eurisko. Il suo ideatore la definisce un’economia per il pianeta reale. In qualche modo confortato da un altro grande pensatore come Edgar Morin, autore de «La via».
Undici i passi da compiere per emancipare l’Occidente dalla schiavitù dei mercati finanziari. I più importanti tra essi sono: fissare dei tetti massimi per l’uso delle risorse e per le emissioni prodotte, analizzando i limiti ecologici. Una riforma fiscale che sappia tassare gli inquinatori e incentivare una macro economia ecologica. Bisogna poi regolamentare i mercati tassando i trasferimenti speculativi e favorendo quelli utili allo sviluppo dei Paesi emergenti. Si tratta inoltre di costruire nuovi indicatori di benessere capaci di affiancare e sostenere il prodotto interno: in Italia ci sta provando l’Istat, c’è già riuscito il WWF.
Non è facile accettare ipotesi così lontane dal modello in cui viviamo, anche se la Cgia ci rivela che l’inflazione sale del 24 per cento e le bollette dell’acqua del 69,8. Né si possono condividere i Tim Jackson’s projects su orario di lavoro, distribuzione dei redditi, misurazione del benessere, rafforzamento della coesione sociale, con alternative realistiche e desiderabili allo stile di vita consumistico. Ma non sarebbe neanche facile - va detto per onestà - accettare di tirare ancora la corda della crisi del debito, conservando i vizi che l’hanno propiziata, rischiando di trovarci a dover ridimensionare, non per scelta ma obtorto collo, il nostro modello di vita.
In definitiva si tratta di frenare prima del burrone, di rallentare per poter impostare con più calma le regole del cambiamento necessario. Per avere il tempo di smascherare e sanzionare chi sulla crisi specula, la politica rapace, le tante assurdità della realtà in cui viviamo. Due, per tutte, lette sui giornali di agosto: negli Usa le remunerazioni degli amministratori delegati superano l’ammontare delle tasse versate al Governo; nella Regione Lazio si versano ai Gruppi consiliari somme quattro volte superiori a quelle erogate ai partiti presenti alla Camera dei Deputati. Qualcosa dovrà pur cambiare per ripartire nel modo migliore.