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PERCHÉ NON TORNANO MOLTI GIOVANI CHE VANNO A STUDIARE ALL’ESTERO

di LUCIANO CAGLIOTI professore emerito dell’università sapienza di roma

In questo periodo di intensa globalizzazione l’Italia appare in piena evoluzione: in poco più di un secolo siamo passati da un popolo di emigranti a un Paese punto di attrazione per chi cerca, oltremare, di scappare verso un destino migliore. Circa un secolo fa, soprattutto dalle zone colpite dal terremoto del 1908, è stato un susseguirsi di emigrazione ma non esclusivamente verso quelle che venivano chiamate le Americhe. Persone coraggiose che affrontavano, senza preparazione alcuna, difficoltà immani, spesso preda di organizzazioni malavitose che fornivano un minimo aiuto all’inserimento ma sfruttavano senza riguardi il materiale umano in arrivo da Est con flusso ininterrotto.
Poi le cose sono cambiate, ed è emerso un fenomeno che riguarda il livello culturale dei protagonisti e che sta creando un’internazionalizzazione del mondo giovanile, soprattutto con riferimento ai settori della fascia scientifico-tecnologica ma non solamente a questa. Si stanno creando poli di progresso tecnico scientifico collegati con le applicazioni industriali. Lo sanno benissimo i politici più illuminati che si rendono conto di quanto la competitività, nel mondo moderno, derivi soprattutto, anche se non esclusivamente, dal progresso della scienza e della tecnologia.
Anni orsono i nostri telegiornali proiettarono le immagini di una conferenza congiunta di Clinton e Blair sui progressi della scienza e incoraggiavano i giovani a percorrere la via della sperimentazione biologica. Il succo del discorso era un invito, a quanti volessero intraprendere una carriera scientifica con dovizia di mezzi e ambientazione idonea, ad andare a lavorare in un contesto anglosassone. Un autorevole incoraggiamento alla fuga dei talenti dai Paesi di origine verso l’Eldorado. Ed entrambi dichiaravano di considerare la ricerca scientifica il punto di forza dello sviluppo dell’economia moderna. Parole magiche in un mondo nel quale da Prometeo in poi la scienza trova spesso forti opposizioni.
Concetti che vennero in seguito ripresi e presentati ufficialmente nel discorso di insediamento del presidente Obama. Emigrare non è facile, soprattutto per chi, come nella stragrande maggioranza dei casi, non ha denaro. Ma non è solo un fatto di denaro, si devono lasciare abitudini, affetti, luoghi cari, parenti, amici, fidanzati. Anche se la situazione non è paragonabile a quella degli emigranti del primo ‘900 che venivano messi in quarantena per evidenziare l’incubazione di eventuali malattie, certamente sono necessarie forza d’animo e tenacia.
Doti, queste ultime, fondamentali per fronteggiare periodi di ambientamento. Vale la pena di esaminare taluni aspetti del fenomeno chiarendo subito un punto: siamo solo noi italiani ad espatriare? No, il fenomeno riguarda tutti i Paesi della zona Ocse ed è in forte crescita nei due sensi in Paesi come Cina, India, Corea ecc. In Paesi come l’Italia, tuttavia, la situazione è più marcata per la relativa minore quantità e qualità dell’offerta in Patria. Vediamo. Un neolaureato va all’estero per uno dei due motivi: il primo vede un giovane recarsi all’estero per perfezionare le proprie conoscenze; dopo una permanenza da uno a tre anni si suppone che il sistema industriale del Paese di origine assuma in qualche forma il giovane ricevendone un supporto culturale derivante dal perfezionamento acquisito. Il secondo modello è costituito da ricercatori che vanno all’estero e, trascorso un tempo sufficiente, cercano una sistemazione adeguata in Patria; non trovandola decidono di rimanere nella nuova patria. Contrariamente alla maggior parte dei Paesi a noi fisicamente e culturalmente vicini, il nostro non utilizza questi esperti formatisi da noi, sui quali abbiamo investito soldi, strutture, conoscenza.
 L’anomalia non è che gli scienziati italiani fuggano in cerca di una sistemazione altrove, in Paesi che li rispettano in quanto hanno capito lo straordinario ruolo che scienza e tecnologia hanno sulla prosperità dei popoli. È anomalo semmai che il sistema Italia non faccia di tutto per riprenderseli. Leggiamo su Le Courier International: «In 10 anni il numero di giovani che vanno a fare gli studi superiori in un Paese diverso dal loro è raddoppiato: sono più di 4 milioni nel mondo secondo le ultime stime dell’Oced. Perché lo fanno? Per formarsi una cultura diversa, imparare una lingua e aumentare le possibilità di trovare al ritorno un impiego stabile e ben pagato».
Si arriva anche ad incoraggiare la formazione all’estero quando si pensa che occorra. È il caso della Germania nei confronti dell’India. Riporta il settimanale francese: «Un numero sempre maggiore di scuole economico-commerciali tedesche propongono moduli sull’India e mandano i loro giovani a specializzarsi in quel Paese». Non solo, ma sempre Le Courier International scrive: «Addio Roma, buongiorno Berlino» indicando il crescente flusso di italiani verso la Germania. Per converso, ai giovani che vorrebbero tornare il nostro Paese offre infrastrutture e finanziamenti scarsissimi, erogati tra vincoli burocratici, normative cartacee, formaliste e sospettose, prospettive occupazionali problematiche.
L’assurdo è che il nostro sistema fa poca ricerca, non è competitivo, non fornisce ai giovani che vorrebbero tornare una sponda occupazionale cui appoggiarsi, finisce per formare esperti a caro prezzo per regalarli ai Paesi concorrenti. Negli ultimi 20-30 anni i maggiori progressi nello sviluppo di biologia, informatica, medicina, elettronica, in altri termini dei punti di forza dell’economia moderna, hanno visto in prima linea scienziati italiani emigrati altrove.   

Tags: Luglio Agosto 2013 Luciano Caglioti

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