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cambio di stagione climatico e politico lento e contraddittorio

di ENRICO SANTORO  professore, avvocato

Il «cambio di stagione» di solito è l’occasione per fare ordine. Quest’anno, in Italia, quello climatico ha coinciso con quello politico. Ambedue lenti, contraddittori. A fine giugno sono arrivati i provvedimenti del Governo delle larghe intese volti, guarda caso, a rimettere a posto le situazioni, svecchiare, buttar via ciò che non serve più, ritrovare e rilanciare progetti rimasti nei cassetti. E da Palazzo Chigi, fuor di metafora, sembra persino ripartita, per fortuna, la lotta alla burocrazia.
Non era mai scomparsa la necessità di porla in atto. L’obiettivo ultimo resta svincolare il prima possibile l’economia nazionale dalle pastoie rappresentate dalla cattiva organizzazione dell’apparato amministrativo, dalla proliferazione delle leggi e delle norme che regolano con effetti frenanti il fare impresa, da un sistema di tassazione divenuto nel tempo capace di soffocare qualsiasi speranza di vita per le aziende. Ebbene il «decreto del fare» in tal senso autorizza qualche esile speranza.
Molti provvedimenti tra quelli varati a valanga dal Governo in coincidenza con il Solstizio d’Estate, meritano attenzione, rispetto, fiducia. Salvo smentite in fase d’applicazione o di traduzione in legge. Altri però lasciano francamente perplessi, primo fra tutti il definanziamento di alcune grandi opere come il tratto ad alta velocità Torino-Lione, il terzo valico Milano Genova e il ponte sullo Stretto di Messina.
Le novità contenute nel decreto sulla semplificazione sono oggettivamente da applaudire perché rendono meno fastidiosa la vita di chi crea lavoro. Ad esempio quando esimono l’imprenditore dal produrre certificati medici inutili o gli consentono di acquisire telematicamente il documento unico di regolarità contributiva, o ancora se riducono all’essenziale gli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro per le attività a basso rischio e per la prevenzione di incendi. Un cenno d’assenso meritano anche altre misure che complessivamente determinano un miglioramento del clima sociale: si va dall’ammorbidimento fiscale sul fronte delle rateizzazioni dei debiti, con l’aumento da 72 a 120 rate possibili che equivale ad un allungamento del 67 per cento delle scadenze e la possibilità di saltare fino a 7 versamenti senza perdere l’opzione di rateizzazione, all’impignorabilità della prima casa per debiti tributari inferiori ai 120 mila euro.
Ma torniamo alle dinamiche riguardanti l’impresa, decisive per un sistema che per uscire dalla crisi debitoria in cui versa deve affidarsi ad una ripresa produttiva degna di questo nome: occorre salvaguardare le esigenze di chi crea prospettive di crescita. In proposito paiono importanti due decisioni: il bonus da 5 miliardi che consente di acquistare a condizioni migliori i macchinari industriali e il rifinanziamento del fondo di garanzia. Una boccata d’ossigeno di cui non si poteva fare a meno. Basti infatti pensare che: 1) per l’Eurostat il prodotto interno procapite in Italia è sotto la media europea e siamo 12esimi su 27 Paesi; 2) per Standard & Poor’s il nostro prodotto è destinato a calare dell’1,9 per cento; 3) per Confindustria questo dato è giusto; 4) se n’è parlato il giorno in cui è stato quantificato in 700 mila il numero di posti di lavoro persi in Italia con la crisi e in 114 mila quello dei posti destinati a sparire nel 2014 con la crescita del tasso di disoccupazione al 12,6 per cento.
Se cala il prodotto interno l’obiettivo sottoscritto con l’Unione Europea del rapporto col deficit al 3 per cento diventa più ostico, se non irraggiungibile. All’aumento del prodotto interno deve corrispondere la diminuzione della cifra «rossa» dei conti pubblici che non è più avvicinabile con altre forme di tassazione, visto che la pressione fiscale ufficiale ha toccato il 44,6 per cento del prodotto interno e quella effettiva, ottenuta stimando il sommerso, il 53 per cento. Quale ricetta, allora?
Finanziare nuova produzione e ridurre gli sprechi. Dal vicolo - tanto stretto da sembrare quasi cieco - si può uscire soltanto allargando gli orizzonti. I provvedimenti messi all’ordine del giorno dal Governo vanno affiancati da una politica economica di diverso, più ampio respiro e, sul piano interno, da mosse coraggiose. Seguendo l’esempio americano in quanto ad iniezioni di liquidità, ma accompagnandolo con relazioni di partnership «atlantica» capaci di ridimensionare lo strapotere dei Brics e della Cina.
Il 2013 era stato preconizzato come anno del sorpasso della Cina sugli Usa. Il confronto è aspro. C’è un asse potenziale tra Cina e India capace di mettere in discussione l’egemonia occidentale. E noi siamo nel mezzo della sfida. Ci occorre allora una specie di nuovo Piano Marshall «a due vie»: con una visione internazionale unita ad una consapevolezza nazionale, a sua volta costruita su provvedimenti mirati e funzionali al rilancio della produttività. Il confronto a livello globale coinvolge l’Europa e l’Italia perché l’impegno statunitense, la «capacità di fuoco» degli Stati Uniti può lievitare e trasformarsi in progettualità solo se si affianca alla cultura del Vecchio Continente, l’unica in grado di fare da contrappeso alla storia ed alla millenaria tradizione di Cina ed India che oggi aggiungono al loro ricco passato un presente di forza produttiva capace di propiziare per loro un futuro egemone. Orbene, la Federal Reserve ha annunciato che dopo quattro anni il «quantitative easing», cioè l’eccezionale immissione di liquidità sui mercati, è finito. Anche perché la cura ha funzionato. Noi dovremmo seguirne l’esempio, come ha fatto il Giappone. In questo senso il provvedimento di Palazzo Chigi che dirotta oltre 50 miliardi verso le imprese minori merita consenso: servirà a ridurre in modo consistente l’atteggiamento di chiusura delle banche.
Il provvedimento consentirà la copertura dell’80 per cento dei nuovi finanziamenti bancari verso le imprese intenzionate a rilanciarsi e ad innovare in una prospettiva di medio termine, cioè oltre i 36 mesi. Restituirà fiducia a imprese che vantano crediti non riscossi verso le pubbliche amministrazioni. Favorirà l’acquisto di macchinari, ridarà fiato a 20 grandi progetti. Sperabilmente rilancerà l’occupazione, generando reddito, alimentando consumi, restituendo speranza ad un’economia mortificata.
 Al sesto anno abbondante di crisi recessiva però sarebbe necessario agire anche su altri fronti. Tra i provvedimenti di carattere interno che possono rappresentare un’utile sponda alla progettualità atlantica cui si è fatto cenno, va ascritto a buon titolo il rilancio dello strumento del «project financing» che consente di valorizzare al massimo il contributo pubblico al rilancio dell’economia, secondo criteri rigorosi e progressivi.
Il recente annuncio dato dal ministro per lo Sviluppo Economico Flavio Zanonato dell’abbassamento della soglia da 500 a 50 milioni di euro per far scattare il credito d’imposta a opere finanziate da privati che non riescano a raggiungere l’equilibrio economico finanziario al riguardo va però valutato con molta attenzione. Ha indubbiamente dei pregi, ma desta anche qualche perplessità in particolare legata alla frammentazione dell’intervento pubblico.
La norma quintuplica la fila delle opere in partnership tra pubblico e privato che possono adottare questo strumento, restituendo fiato al settore. L’Osservatorio sul project financing curato dal Cresme segnala che i bandi relativi a concessioni di lavori pubblici erano saliti tra il 2002 e il 2011 da 1.233 a 9.301 milioni per flettere clamorosamente del 40 per cento nell’ultimo anno passando a 5.181 milioni, con una serie di contraccolpi ben immaginabili sull’occupazione.
All’apice della crescita del trend, nel 2011 c’erano solo 3 opere di importo superiore a 500 milioni e insieme arrivavano a quota 6.531 milioni, contro 14 opere di valore superiore a 50 milioni che assommate valevano 8.343 milioni. Nel 2012 ancora 3 opere over 500 ma per un totale di 3.384 milioni. Nell’intero periodo monitorato si contano 20 opere over 500 per 26,7 miliardi e 104 over 50 per 38,1 miliardi complessivi. Il project financing esiste ma sembra sgretolato.
C’è perciò da chiedersi se l’allargamento dei cordoni della borsa non rischia di tradursi in una specie di finanziamento a pioggia che moltiplica gli interventi, polverizza i controlli, complica la gestione, le procedure d’appalto, in una parola disperde l’energia e l’incisività che il rilancio del project financing può avere come strumento di una politica economica che attraverso l’impulso pubblico persegue il fine del recupero di produttività. La filosofia del no al Ponte di Messina appare insomma discutibile.
Ma passiamo ad altro esempio. Sempre il Cresme, nel 19esimo rapporto congiunturale segnala che il meccanismo delle detrazioni del 55 per cento ha rappresentato l’incentivo fiscale più virtuoso in tema di sostenibilità ambientale, ha sostenuto il mercato dell’edilizia, la qualità e il risparmio di emissioni di CO2. Pur essendo a carico dello Stato l’operazione si è rifinanziata grazie alla capacità di far emergere indirettamente una quota significativa di imponibile altrimenti non intercettata dall’erario.
La valutazione dei costi rappresentati dall’investimento e dei benefici dell’operazione degli interventi effettuati tra il 2007 e il 2011 individua 16,9 miliardi di euro di investimenti di cui 7,3 in detrazione. L’incremento del gettito e i flussi negativi derivanti al Bilancio dello Stato dalle detrazioni e dal minore gettito fiscale sui consumi energetici, pari a 1.336,9 milioni sono stati compensati dal risparmio ottenuto attraverso il decremento di approvvigionamenti di fonti energetiche dall’estero. Gli strumenti di intervento per il rilancio economico dunque esistono, dobbiamo rilanciare la produttività in una logica di cooperazione con gli altri Stati UE. Ma dobbiamo soprattutto trovare la forza di diventare efficienti, soprattutto nel settore pubblico, risparmiando risorse senza perdere di qualità.
Coniugare risparmio ed efficienza è dunque la sfida, soprattutto per il settore pubblico che negli anni ha accumulato paurosi ritardi in tal senso. Secondo gli analisti della Banca Mondiale in Italia per adempiere gli obblighi fiscali si impegnano in media 239 ore l’anno, il che ci colloca al 131esimo posto nella graduatoria internazionale; per avere una licenza di costruzione occorrono in media 234 giorni e 11 procedure, per cui siamo al posto 103 nel mondo.
Si tratta di individuare di volta in volta le strade per creare produttività nei servizi pubblici che a loro volta creano il tessuto entro cui i privati possono investire senza problemi per creare nuovi posti di lavoro. Iniettando massicce dosi di professionalità nel pubblico impiego, scegliendo i dirigenti per merito e competenza, non per appartenenza politica, e retribuendoli con il metro dei risultati. Ma anche liberalizzando le attività dove appropriato. La gestione dell’istruzione, ad esempio, può essere in parte localizzata con benefici economici e qualitativi. Così come è accaduto in Lombardia nel sistema sanitario grazie a una feconda collaborazione tra pubblico e privato che ha determinato costi inferiori e qualità migliore che in altre Regioni. L’Italia spende 110 miliardi l’anno per la salute ma vede crescere inefficienze, sprechi, tempi d’attesa per le prestazioni. E pensare che che con la ricetta e il fascicolo sanitario elettronici si recupererebbero 600 miliardi di euro.
Ma non c’è solo la sanita digitale, che per Confindustria garantirebbe 9 miliardi di ulteriori risparmi: l’assistenza domiciliare agli anziani sarebbe più efficiente se affidata a giovani in cooperativa anziché a enti pubblici con presidenti e impiegati diciamo «esauriti». Ma si può andare oltre: una società di servizi di consulenza alle imprese composta da giovani con master universitario sarà più efficace di pubblici e dispendiosi carrozzoni. Semplificare e professionalizzare, liberalizzare e riorganizzare: ecco le ricette valide nell’attuale congiuntura. Un «mantra» che vale su molti fronti, dalle prigioni ai trasporti, alla cultura. In Australia molti detenuti sono affidati a imprese che vengono rifinanziate anche sulla base dei comportamenti degli ex detenuti: se questi ultimi, rieducati e formati ad un mestiere, lavoreranno e si reinseriranno nella società, le società che li hanno ospitati avranno maggiori risorse.
In Italia mancano managerialità e intelligenza. Turismo, energia, rifiuti, arte, Poste, trasporti. Ecco, per entrare in una logica euroatlantica bisogna cancellare le cifre che contraddistinguono i settori, spread che davvero non possiamo più permetterci, se non vogliamo passare dal G8 al terzo Mondo.   

Tags: Settembre 2013 Enrico Santoro

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