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domanda di cura, una porta che può rimanere chiusa: problemi e contraddizioni

del prof. Ivan Cavicchi, docente di Sociologia dell’Organizzazione sanitaria di Filosofia della Medicina dell’Università di Tor Vergata

Una porta che può aprirsi o rimanere chiusa. In sanità vi sono fattori che condizionano la possibilità e la capacità di accedere alle cure delle persone. Come ad esempio se un cittadino non sa o sa di certe possibilità; o se un cittadino si può o non si può permettere certe prestazioni; o se vi è una lista di attesa più o meno lunga; o se per curarsi il cittadino deve andare in altre regioni o all’estero; ed infine gli orari di funzionamento dei servizi con i quali il cittadino deve fare i conti.
Queste normalmente sono ordinarie condizioni che influenzano notevolmente il diritto alle cure, il che vuol dire che il diritto non è mai una cosa automatica ma dipende da tante cose soggettive, organizzative, geografiche, finanziarie. Cioè dalle reali possibilità offerte al cittadino e dalle reali capacità del cittadino di organizzarsi in una domanda. Oggi il grande problema che abbiamo è che mentre aumentano in tutti i sensi le capacità del cittadino, soprattutto quelle informative, diminuiscono in tutti i sensi le possibilità per lui di accedere realmente ai servizi.
Il divario tra capacità e possibilità diventa particolarmente drammatico nel caso di certi tipi di malattie in genere gravi, croniche, poco curabili, rare e che nei malati sviluppano, per necessità, forti capacità personali per esempio conoscitive, ma che beffardamente sono contraddette più di ogni altra malattia da quelle restrizioni finanziarie che, applicate al sistema sanitario, incidono sulle tutele, sulle tecnologie, sul grado di innovazione, sull’esistenza o meno dei servizi. Cura e restrizioni, come si può intuire, non vanno d’accordo. Voglio fare un esempio concreto: la spending review impone un taglio lineare a «beni e servizi» del 5 per cento e quindi tetti di spesa, prezzi di riferimento all’uso di dispositivi sanitari e di farmaci. L’effetto di queste misure è duplice, economico ed etico perché esse sono sbarramenti che alla fine hanno l’effetto di risparmiare, pensate un po’, sull’innovazione, cioè sulle nuove possibilità di cura, quindi su quelle possibilità da cui dipende la vita di migliaia e migliaia di malati.
Risparmiare sull’innovazione significa chiudere l’accesso o limitare l’accesso a certe possibilità di cura e quindi danneggiare prima di ogni altra cosa i malati più gravi cioè quelli che hanno bisogno, per essere curati, di nuovi farmaci e nuovi dispositivi sanitari. Un malato di fibrosi cistica, ad esempio, oggi ha possibilità terapeutiche che prima non aveva. Vi è un farmaco, già approvato dalla Ema e già disponibile in Germania, il Bronchitol (mannitolo), che può sostituire le vecchie terapie meno efficaci e con pessime compliance. Ma mancando le risorse non si può accedere a tali possibilità. Sempre per questa patologia vi sono farmaci, in parte già in commercio, in parte in via di sviluppo, con un’efficacia terapeutica di gran lunga superiore a quelli precedenti ma molto cari (quello già approvato in Usa ed Ue, il Kalydeco, è un farmaco che in Usa costa 294 mila dollari l’anno, e in Inghilterra 182 mila).
Sono farmaci che cambierebbero radicalmente la vita a tanti malati ma che in Italia non sono accessibili. Un altro sbarramento all’accessibilità della cura, sempre nel caso della fibrosi cistica, è costituito da quei farmaci che, a causa dei tempi della sperimentazione, saranno sul mercato, se tutto va bene, entro il 2016-17. Non c’è dubbio che nel frattempo molti malati moriranno, altri avranno accumulato danni irreversibili e seri agli organi interni, ma per questi farmaci, una volta sul mercato, oggi come oggi nessuno è in grado di dare delle garanzie di accessibilità.
Per i malati il tempo della loro malattia non è mai giustificabile, specie se dipende da fattori esterni alla malattia stessa. Ci si può rassegnare all’incurabilità biologica ma non a quella organizzativa, finanziaria, sanitaria, procedurale. Molti di loro ad esempio, pur di avere delle nuove terapie, sarebbero disposti a firmare il consenso informato per accorciare i lunghi tempi della sperimentazione.
«Da malato» mi ha scritto tempo fa Francesco Longo a cui devo le informazioni sulla fibrosi cistica: «Dico che questa società mi sta uccidendo, beffandosi di me e nel silenzio più totale». La sua non è un’esagerazione e meno che mai è una drammatizzazione retorica, egli ci dice di una possibile catastrofe personale che può accadergli a causa di tante piccole catastrofi tutte in qualche modo attinenti, per un motivo o per un altro, all’accessibilità delle cure.
Insomma per lui e per tanti milioni di malati, oltre la catastrofe della malattia vi è quella forse più drammatica dell’inaccessibilità alla cura. Come dire che, se le cure sono costose, il diritto è sospeso o, peggio, negato, perché ci si deve accontentare di quello che passa il convento. Più andremo avanti con il tempo e più acuta si farà la contraddizione tra innovazione, cura e restrizioni.
Presumibilmente, se dovessero continuare i tagli alla sanità, l’innovazione crescerà almeno tanto quanto cresceranno le restrizioni penalizzando paradossalmente proprio i malati più bisognosi. La sfida del futuro è come riuscire a rendere possibile la convivenza tra innovazione, cura e restrizioni finanziarie. Questa sfida non si vince senza mettere le mani seriamente proprio sui problemi dell’accessibilità e della domanda. Cioè senza creare fin dalla domanda le condizioni favorevoli per l’accesso alla innovazione stessa. La cosa che non posso accettare è che, mentre il signor Longo non riesce ad accedere a certe cure per lui esiziali perché costose, vi sono milioni di persone che viceversa accedono troppo, accedono in modo improprio, accedono inutilmente sperperando il denaro pubblico. Per far si che l’innovazione abbia spazio è necessario fargli spazio.

Domanda impropria
I medici ci raccontano che nei loro ambulatori si riversano le richieste più strane e più disparate, accanto naturalmente a necessità molto serie. Ci raccontano anche che il giorno dopo certe trasmissioni televisive sulla medicina, i loro malati accusano tutti i sintomi delle malattie trattate in quelle trasmissioni, chiedendo di esserne curati. Se a questo aggiungiamo la pressione esercitata sulle persone sane da un gigantesco fenomeno di medicalizzazione sociale che spinge attraverso i media milioni di persone a loro volta a farsi medicalizzare per niente, e l’estendersi smisurato di quell’area definita di «automedicazione» cioè di gente che attraverso internet si cura da sola, abbiamo un’idea di quanta domanda inutile e impropria viene rivolta alla medicina.
La domanda impropria in un regime di scarsità di risorse ha implicazioni paradossali: diventa una forma di eccesso di domanda, che a sua volta diventa una forma di inaccessibilità alle cure, arrivando fino a razionare l’offerta assistenziale, a negare la cura di certe malattie perché costose e in genere ad escludere dalle possibilità terapeutiche i prodotti dell’innovazione scientifica.
Quando la domanda di cure è squalificata chi ci rimette davvero sono i malati più gravi. L’eccesso di domanda in questo caso è quello peculiare di falsi bisogni che chiedono l’estensione della copertura a delle improprietà arrivando a danneggiare involontariamente quelli veri gravi. Per risolvere questo problema in passato si è tentato la strada dei «ticket moderateur». L’idea era quella classica: mettere un prezzo sulla prestazione sanitaria per raggiungere la sua fornitura. Chi non può pagare questo prezzo esce dall’area della domanda con l’effetto di ridurre la domanda complessiva in quanto tale. Alla fine si colpiscono non solo bisogni impropri ma anche bisogni propri. Ma a noi serve qualificare l’accesso alle cure, non semplicemente sbarrarlo.
In futuro non potremo avere un vero diritto alla salute per tutti senza qualificare la domanda di salute. Ma come fare? Selezionare tout court i bisogni è una operazione di grande delicatezza. L’idea che circola da anni, di non poter più «dare tutto a tutti» ha dietro una logica selettiva e discriminatoria molto pericolosa. E i malati quelli gravi già ne pagano il prezzo perché rischiano in queste logiche di essere esclusi dalle cure. In realtà bisognerebbe dire che «tutto ciò che è proprio riconosciuto come tale va dato a tutti i bisogni propri riconosciuti come tali». Cioè per dare tutto a tutti è necessario liberare la domanda dalle improprietà.
Ma chi decide ciò che è proprio e ciò che è improprio? Viene fuori la grande differenza tra coloro che non credono alla responsabilizzazione dei soggetti e che quindi propongono di amministrarli con i ticket, le tasse, la privatizzazione, la selezione dei bisogni in rapporto alle aspettative di vita, e coloro che invece credono alla loro responsabilizzazione. Non si può escludere di mischiare le due scuole di pensiero, quindi un po’ di ticket moderateur con un vero processo di responsabilizzazione rivolto a medici e a malati. Escluderei i criteri suggeriti dall’Hasting Center sulla selezione dei malati in rapporto alle loro reali aspettative di vita. Non curare chi ha poche possibilità di sopravvivenza non mi pare uno scherzo. Quindi resta il nodo della responsabilizzazione della domanda:
- oltre al diritto alla salute deve essere definito un dovere alla salute, quindi una deontologia sociale orientata a combattere attraverso un cittadino consapevole ogni tipo di domanda impropria per permettere a quella propria l’accesso alle cure;
- il dovere alla salute implica la ridefinizione di quello slogan del «prendersi cura» dai più largamente frainteso, il cui vero significato non è quello di un malato che è curato meglio e di più dai servizi sanitari, ma di un malato che cura se stesso attraverso i servizi sanitari; in questo caso il malato è un soggetto attivo che usa in modo consapevole la medicina come possibilità ma che con altrettanta consapevolezza non la spreca;
- l’incontro tra doveri e diritti deve avvenire dentro una nuova relazione sociale tra medicina e società in cui l’autonomia consapevole del medico alla fine decide le proprietà e le improprietà ma dentro una corresponsabilizzazione del cittadino. Sappiamo bene di malati che cambiano il medico solo perché il medico non li asseconda nei loro bisogni impropri. Ma anche di malati i cui bisogni non sono assecondati perché il medico ha le mani legate.
In sostanza, il nodo strategico riguarda l’accesso alle cure nel quale le capacità del malato si alleano responsabilmente con le possibilità a lui offerte. Si tratta quindi di fare spazio all’innovazione superando la contrapposizione che oggi penalizza milioni di malati tra capacità e possibilità. In ragione di queste convinzioni sono rimasto colpito da una notizia di qualche mese fa che è passata quasi sotto silenzio. La Regione Lombardia decise di informare ex post, cioè dopo i trattamenti sanitari, i propri malati sui costi delle cure loro fornite, con un intento evidente di responsabilizzazione.
Il ministro alla Salute del tempo probabilmente dubbioso interrogò il comitato nazionale di bioetica sulla opportunità di tale decisione, e il Comitato nazionale di bioetica rispose che non è eticamente opportuno informare i cittadini perché conoscere i costi delle cure può essere un indebito condizionamento del diritto a curarsi. Io penso, diversamente dal Comitato bioetico, che dobbiamo aprire il capitolo della domanda e della sua responsabilizzazione.

Speculazione e accesso alle cure
Recentemente ho avuto occasione di discutere con due contrapposti punti di vista riguardo al profitto in sanità: il primo ne faceva l’apologia, il secondo lo condannava in quanto tale come immorale. Per me la discussione dovrebbe riguardare la differenza che esiste tra speculazione e non speculazione, intendendo per speculazione una remunerazione sproporzionata e irragionevole sia nei confronti dei costi sostenuti, sia nei confronti dei benefici prodotti e tenendo conto di quel che in sanità conta di più, sia nei confronti dello stato di bisogno di chi è ammalato.
«Speculare» sulle malattie delle persone per me è immorale e questo vale tanto per il profitto dei clinicari lombardi che per il reddito dei grandi professionisti nell’esercizio privato della professione. Per non essere speculativo, sia chi prende un profitto sia chi prende un reddito dovrebbe essere remunerato in modo ragionevole tenendo conto che «ragionevole», nei confronti di chi ha malattie letali, potrebbe significare anche relativa gratuità. «Relativa» vuol dire che in un mercato fatto da diseguaglianze di reddito si possono calcolare valori remunerativi tali da coprire chi non può con chi può.
Questo vale in particolare per i Paesi poveri e per i Paesi ricchi e per la questione dei brevetti. In generale, credo che le professioni medico-sanitarie, l’industria tecnologica, quella farmaceutica, le forniture più diverse, debbano essere ragionevolmente redditizie ma non speculative. In generale credo anche che in sanità, «speculare» valga come rubare, abusare, truffare, approfittare, sia che si faccia la cresta sugli acquisti in una Asl sia che si faccia comparaggio con un medico di famiglia. In sanità remunerare in modo ragionevole tanto il profitto che il reddito ha una valenza etica in più, che prevede in certi casi di sospendere le regole delle transazione economiche, soprattutto rispetto ai bisogni vitali degli ammalati in quei casi in cui da questa sospensione dipende la sopravvivenza delle persone. La speculazione distrugge il principio delle pari opportunità terapeutiche perché impone prezzi che solo pochi si possono permettere; la reddittività ragionevole al contrario fa di questo principio il proprio caposaldo offrendo a tutti i malati la possibilità di curarsi.
Per cui la vera questione che si pone è di nuovo la domnda o detto altrimenti «l’accesso alle cure». L’innovazione specialmente in campo farmacologico costa cara e soprattutto per curare malattie gravi come il cancro o malattie rare, ma proprio per questo in nessun caso può essere speculativa. Tutto questo ragionamento per apprezzare ed appoggiare la protesta dei 120 oncoematologi internazionali alla quale ha aderito il Cimopo, Collegio Italiano Primari Oncologi Medici Ospedalieri. I medici americani che hanno protestato pubblicamente hanno evidenziato come su 12 nuovi farmaci anticancro approvati dalla Food and Drug Administration ben 11 costano più di 100 mila dollari. Sono costi talmente speculativi da creare problemi di sostenibilità ai sistemi sanitari e un enorme problema etico di accesso alle terapie da parte dei malati. La denuncia è partita da quegli oncologi che in particolare si occupano della leucemia mieloide cronica, una delle più terribili forme di cancro con l’obiettivo di «costringere le aziende ad abbassare i prezzi per salvare la vita dei pazienti»; in causa sono state chiamate molte industrie farmaceutiche: Novartis, Ariad, Pfizer, Bristol-Myers Squibb, Teva e altre ancora. L’iniziativa è stata preceduta da una protesta messa in atto dai medici del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York, che lo scorso autunno si sono rifiutati di usare un nuovo farmaco per il cancro al colon per il suo prezzo troppo alto: doppio rispetto ad altri farmaci, pur non avendo benefici maggiori.
Grazie alla protesta di questi medici si è ottenuto che la casa farmaceutica produttrice Sanofi dimezzasse il prezzo del medicinale. La speculazione non è solo immorale ma anche economicamente discutibile dal momento che, come hanno spiegato i medici americani, nonostante le coperture assicurative, solo una minima percentuale del milione e mezzo di malati di leucemia mieloide cronica riesce ad usufruire di questi farmaci. Perché allora non abbassare i prezzi e accrescere l’accesso alla terapia da parte di un maggior numero di malati?

La questione di fondo resta il prezzo in funzione dell’accessibilità delle cure
Per garantire a tutti, ricchi e poveri, l’accesso alle nuove terapie dobbiamo combattere: la speculazione in ogni sua forma, anche ricorrendo ad un sistema di prezzi eticamente amministrati o calmierati; le restrizioni finanziarie di cui sono vittime i sistemi sanitari e che certamente non incoraggiano l’innovazione; tutte le forme di spreco, dalla domanda impropria agli abusi e alla corruzione, che favoriscono le restrizioni finanziarie. Quindi mi associo alla protesta dei medici americani e a quella dei primari oncologi italiani ed invito tutti a fare altrettanto.

Qualifichiamo la domanda per qualificare i diritti
Vogliamo risparmiare sulla domanda e far crescere il diritto alla salute? Bene. Prima di ogni altra cosa bisogna diminuire significativamente le malattie e quindi la domanda di cure. È un’idea ovvia alla quale però i nostri ministri, i governatori, gli assessori, i direttori generali non pensano mai. In Italia per evitare le malattie spendiamo una miseria per cui alla fine è come se producessimo malattie, così la spesa sanitaria cresce e più cresce più si taglia. Le politiche che dominano (spending review, restrizione dei servizi, chiusure degli ospedali, blocco del turn over), avvengono tutte in costanza di malattie e quindi in costanza di domanda. Diminuiscono i servizi ma non la domanda per cui i servizi che restano vanno in sovraccarico con pesanti effetti negativi sulla qualità delle cure e sulla mortalità delle persone.
Parte del sovraccarico finisce nel privato. Intervenire sulla domanda diminuendo le malattie è concretamente possibile in tanti modi e non è vero che per fare salute occorrono sempre e comunque tempi lunghi. Evitare le malattie è un passaggio obbligato per ogni Paese previdente saggio e civile. Con l’invecchiamento, se non evitate, crescono le malattie e la cronicità, per cui i sistemi socio-sanitari saranno inevitabilmente sempre più costosi. In Europa si stanno discutendo due idee: «Invecchiare in salute» e «La salute in tutte le politiche». Come fare?
1) Riunificare in un’unica strategia le tante tecniche e i tanti approcci che producono salute. Esiste la prevenzione (la rimozione delle cause), la previsione (la valutazione dei rischi), la promozione (informazione sociale), la predicibilità (la costruzione delle condizioni per la salute) e altri sistemi, altre metodologie, altre tecniche;
2) è indispensabile organizzare una specie di «cabina di regia» o di «centrale operativa» a livello regionale che in primo luogo riunifichi le politiche ambientali con le politiche per la salute;
3) definire un «programma per la salute» a scala regionale che da una parte caratterizzi ogni genere di politica con i vincoli e gli obblighi previsti dalla normativa vigente e dall’altra interconnetta tra loro le diverse politiche per la salute in tutte le politiche possibili;
4) conferire la funzione di «sponsor della salute» ai Comuni e ai sindaci; essi devono essere i riferimenti operativi della programmazione regionale (le aziende sanitarie non fanno niente per la prevenzione) e in quanto tali potranno disporre, per scopi di salute, di tutti i servizi attualmente disponibili in ambito sanitario e ambientale compresi i vari strumenti informativi previsti dalla normativa sanitaria;
5) ridefinire i dipartimenti per la prevenzione oggi previsti in tutte le Aziende sanitarie che tutto sono meno dipartimenti e per giunta piuttosto obsoleti;
6) riconcepire il «distretto socio-sanitario» (è la parte territoriale di un’azienda sanitaria) come un vero e proprio «distretto per la salute di comunità», cioè non solo ambulatori, non solo cure primarie, non solo assistenza domiciliare, ma anche e prima di tutto interventi per la salute di comunità. Se la comunità è il primo soggetto di salute, le politiche di sussidiarietà sono le forme di responsabilizzazione della comunità stessa;
7) oltre ai «diritti alla salute «si devono ammettere i «doveri per la salute». Per dovere intendo null’altro che un lavoro di responsabilizzazione, di coinvolgimento di sensibilizzazione, di crescita culturale proprio sul versante della domanda. I cittadini per primi hanno il dovere di impegnarsi per il loro benessere e vanno aiutati in questo senso.
Concludendo: la salute è una risorsa naturale che partecipa alla crescita della ricchezza di un Paese, fare salute significa fare ricchezza. Essa va prodotta come qualsiasi altra risorsa naturale. La salute partecipa allo sviluppo sostenibile di un Paese. Con la salute quale ricchezza si può qualificare la domanda, riducendo significativamente le spese sanitarie, senza danneggiare i diritti.  

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