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ivan cavicchi. la maggioranza dei medici saranno donne: turn over o fenomeno?

del prof. Ivan Cavicchi, docente di Sociologia dell’Organizzazione sanitaria di Filosofia della Medicina dell’Università Tor Vergata di Roma

Ormai i dati sono chiari: il numero di donne medico sta continuamente crescendo rispetto a quello di uomini medico e in determinati settori sono già una maggioranza inequivocabile. Le iscrizioni alle facoltà di Medicina vedono mediamente circa il 70-73 per cento di donne; non è azzardato dire che stiamo assistendo in medicina a un fenomeno o a un turn over di genere. La questione nella sua ambivalenza può essere intesa tanto come «femminilizzazione» quanto come «mascolinizzazione».
Le donne stanno numericamente rimpiazzando gli uomini negli impegni professionali, in tutto e per tutto, comportandosi in modo conforme a un’ortodossia professionale, quindi sono del tutto intercambiabili con gli uomini; l’ortodossia e la deontologia medica sono oltre le differenze di genere. Ma se fosse così, sorge un paradosso: le donne non possono essere professionalmente come gli uomini perché essere come gli uomini significa medicina invariante. La novità è che oggi siamo nel mezzo di un cambiamento e la medicina, se non vuole soccombere, a sua volta deve cambiare.
Non si cambia niente se le cose continuano ad essere sempre le stesse indipendentemente dal genere di chi le fa. Dal punto di vista della medicina, che i medici siano maschi o femmine non cambia niente, se entrambi agiscono professionalmente allo stesso modo. Ma è proprio così? Le donne medico effettivamente si comportano professionalmente proprio come i loro colleghi maschi? Ma, a parte questo, dal momento che è innegabile che le donne sono una maggioranza, resta da comprendere se questa ha i caratteri, le forme, le qualità di un fenomeno, sapendo che per essere fenomeno la maggioranza delle donne in medicina, dovrebbe influenzare il proprio contesto di riferimento, cioè la medicina, le organizzazioni sanitarie, perfino le prassi. Senza una particolare incidenza fenomenica la maggioranza resta un dato di puro censimento in un sistema che resta tale.
Se femminilizzazione si può leggere anche come mascolinizzazione, cioè donne come uomini, la crescita di qualcosa si può leggere anche come la diminuzione di qualcos’altro. Ci si può chiedere sia perché aumentano le donne in medicina, sia perché diminuiscono gli uomini. Oppure, perché cresce il numero degli uomini tra gli infermieri, una qualifica storicamente femminile. Questa interessante ambivalenza interpretativa ci dice che essere maggioranza sino ad ora è un dato di fatto che può interpretarsi con più letture.
Può essere: l’effetto a valle di dinamiche che a monte hanno a che fare con la scelta universitaria; l’effetto di una moda;  o più semplicemente la percezione nei giovani di maggiori opportunità occupazionali; l’esito involontario di scelte di fronte a pari opportunità universitarie; l’esito casuale di scelte percepite, rispetto ai loro intendimenti, come più accessibili, appropriate e convenienti per un’infinità di ragioni diverse. Allo stato attuale non ne sappiamo molto. Questa si chiama «ambiguità» di un dato di fatto. La crescita come effetto di una diminuzione e una diminuzione come effetto di una crescita indicano in genere situazioni che esprimono atteggiamenti opposti: c’è qualcuno che entra e c’è qualcuno che esce. In questi casi vi è un turn-over.

Le donne medico tra maggioranza e progettualità.

Personalmente sono convinto che l’alta presenza delle donne in medicina può avere importanti ricadute e costituire un processo di rinnovamento anche profondo. Ma non è un processo automatico. La medicina, nonostante tante donne, è quella di sempre, con i suoi problemi, le sue crisi, i suoi disagi, le sue derive, che vanno oltre la differenza di genere, in contesti sempre più difficili, con una palese crisi professionale dei medici indipendentemente dal loro sesso. Le donne medico ricevono un’eredità a dir poco pesante e con la quale esse dovranno fare i conti, prima ancora che come donne, come medici.
Il dibattito in corso ormai va avanti da circa un quinquennio e nella sua complessità si basa sul presupposto che la «crescita numerica» sia un fenomeno anche se sino ad ora tale crescita non basta a fare un fenomeno; la stessa vuol dire una nuova dicotomia maggioranza-minoranza; la maggioranza delle donne implica l’enfatizzazione delle caratteristiche di «genere». Si aprono così problemi nuovi: ponderare bene la sussistenza del dato sulla crescita numerica; comprendere le qualità che tale crescita deve avere per essere considerata fenomeno; valutare gli effetti della crescita numerica rispetto alla medicina e ai suoi rapporti con l’organizzazione sanitaria.
Nel caso si trattasse di un turn-over di genere, la crescita numerica delle donne medico, in quanto tale, non sarebbe significativa né rispetto ai bisogni sociali di salute, né rispetto ai problemi della medicina. In questo caso essa sarebbe una semplice riorganizzazione interna della medicina. A questo punto è legittimo porsi tre domande: se declinare al femminile la medicina valga come un ripensamento del suo apparato concettuale, dei suoi modi di pensare, di fare, di agire; se per far questo sia sufficiente avere una maggioranza di donne medico; se indipendentemente dal genere e dalla sua maggioranza sia necessario o no disporre di un’idea di medicina, di un progetto, di una visione.
Io dico la mia: senza un progetto la maggioranza delle donne medico sarà semplicemente l’effetto di un turn-over sociale del mercato del lavoro, ma senza conseguenze significative sulla medicina ponendo non secondarie questioni attinenti alle carriere, ai riconoscimenti giuridico-professionali e ai diritti delle donne che lavorano.

Una possibile progettualità: un convegno sul cancro della mammella.

Personalmente continuo a pensare che a certe condizioni la maggioranza delle donne medico potrebbe costituirsi davvero come un fenomeno di rinnovamento. Per dimostrare la plausibilità del mio convincimento vorrei raccontare un’esperienza che riguarda un convegno di studio sul carcinoma della mammella. Mi era stato chiesto di commentare i discorsi di patologi, oncologi, chirurghi, radiologi, senologi, associazioni di donne. Esordii con una domanda: «Di cosa stiamo discutendo, di carcinoma della mammella o di donna malata di carcinoma?». Silenzio e grande attenzione.
«Insomma qual è il sostantivo che comanda e decide i predicati della cura e quindi della sanità, che serve, e delle professioni coinvolte? La malattia o la mammella quale sineddoche della donna?». Spiegai che, se il sostantivo che comandava la cura era il carcinoma, non ci sarebbe stato bisogno di romperci la testa con la multidisciplinarietà, con i percorsi condivisi ecc. Sarebbe bastato  integrare meglio i servizi e le professioni esistenti. Se il sostantivo era il «malato di carcinoma», sarebbe stato diverso e avremmo dovuto cambiare il modo di curare. In questo caso ogni singola razionalità professionale andava armonizzata, cioè ridefinita dentro nuove relazioni cooperative.
Chiesi di nuovo: «Se discutiamo di mammella, come dovremmo considerarla? Un organo? Un pezzo anatomico? O qualcosa di più?». Spiegai che nel caso avessimo considerato la mammella qualcosa di più di un organo, filosoficamente avremmo dovuto considerarla  un «super oggetto» o, se si preferisce, un «quasi soggetto», cioè un organo, un organismo, una specificità genetica, persona, e un fenomeno (la malattia) dentro una società che con i propri bisogni aveva a che fare con una sanità sempre più definanziata.
Il super oggetto? Qualcosa di complesso, cioè una coestensione tra biologia clinica, storia, esistenza, società, economia. È questa nuova visione della complessità a costringerci a cambiare un’intera organizzazione sanitaria, a ridefinire le strategie e le metodologie operative, i metodi professionali. Solo se ci si ripensa, nella complessità si ha il vantaggio di essere più bravi professionalmente, costare di meno, curare meglio.
Ancora una domanda: «Come si fa a personalizzare le cure se non si ripensa l’impersonalità della clinica, quella che considera gli organi come semplici macchine biochimiche?». Tentai di spiegare, pensando ai problemi finanziari della sanità, che è difficile nella sanità essere «sostenibili economicamente» se prima non si è «sostenibili culturalmente»,  cioè se non si risolvono le regressività che continuano ad essere alla base di intere organizzazioni sanitarie. Considerare il cancro della mammella come una malattia legata a un organo e dedurne una certa organizzazione dei servizi è evidentemente una regressività. Inoltre come la mettiamo con la questione della comunicazione, del linguaggio da usare con il malato?
Chiesi ancora: «Comunicazione tra chi? Potevamo dialogare con il super oggetto avvalendoci solo dei nostri significati scientifici? Sarebbero bastati?». Sapevamo tutti che non bastava spiegare a una donna il significato scientifico del carcinoma mammario. Allora rilanciai: «Oltre al problema del significato, esiste il problema del senso, cioè un super significato che va oltre la clinica e che coinvolge la vita delle persone, i problemi organizzativi e economici della sanità e quelli professionali degli operatori. Qual è il senso della medicina? Di una organizzazione sanitaria? Delle procedure condivise, dei percorsi terapeutici delle cure integrate? Questo è l’esempio da cui voglio ricavare le riflessioni che seguiranno sulle differenze preziose che esistono tra donne e uomini medici, o che mi è parso di vedere.

Le differenze di genere quali differenze progettuali.

Il problema che posi in quel convegno era semplicemente: se dedurre un agire professionale organizzato a partire dalla malattia (il carcinoma) o dalla donna malata (mammella). Ebbene il dibattito che ne seguì mi colpì perché fu interamente all’insegna del genere femminile. Le tante email ricevute dopo il convegno, gli articoli che seguirono sulla stampa specializzata, gli interventi favorevoli ad una certa visione della medicina, erano tutti di donne medico che non solo condividevano la necessità di andare oltre l’organo malato, ma raccontavano che pur tra mille difficoltà organizzative loro già lo praticavano.
Pensai che nel caso del carcinoma della mammella poteva esserci una «simpatia» di genere da parte delle donne medico, ovviamente preclusa ai medici maschi. Ma se questo fosse stato vero, allora avremmo dovuto trovare un’analoga simpatia di genere tra i medici maschi alle prese con un cancro dei testicoli o della prostata. Non ho dati per dimostrare il contrario, ma la mia impressione, anche rispetto a tante discussioni fatte, è che: nel caso dei medici maschi, con tutte le eccezioni del caso, sembra prevalere un’attenzione più all’organo che al malato, e che quindi, nel caso di malattie maschili, non vi sia la stessa simpatia di genere delle loro colleghe donne.
In tante discussioni simili a quella sul carcinoma della mammella avevo avuto netta e costante l’impressione che a confrontarsi vi fossero: un’idea maschile di organizzazione dell’agire professionale fatta da poteri sulla malattia in conflitto con altri poteri, quindi parcellizzata, competitiva e poco cooperante; un’idea femminile di organizzazione fatta, al contrario, di relazioni, interconnessioni, percorsi integrati, cioè all’insegna di un alto grado di cooperazione. Quindi in sintesi una diversa concezione del potere tra i medici maschi e i medici femmina. Il potere non era visto dalle donne medico come una forza posseduta da qualcuno sulla malattia, ma come una relazione tra persone.
 Se questa mia impressione personale, che mi guardo bene dal generalizzare - per fortuna molti sono i medici maschi impegnati in nuove visioni organizzative - fosse fondata, vi sarebbe una differenza significativa nella concezione della pratica professionale. In questo caso la maggioranza femminile potrebbe essere davvero un fenomeno amplificante un’idea nuova di metodo medico: il genere femminile potrebbe essere un valore aggiunto ma solo se esprime un’idea «diversa» di medicina; le donne medico potrebbero essere un fenomeno ma solo se  riuscissero attraverso una proposta a indurre una differenza di qualità in medicina; essere una maggioranza non basta a cambiare qualcosa a meno di avere  una «diversa» idea di cambiamento.

Le donne e l’ontologia.

Su Quotidiano Sanità.it, il più importante giornale on line della sanità, si è svolto un significativo dibattito sulle donne medico al punto da ricavarne uno speciale. Questo dibattito ha riconfermato due valori tra loro interdipendenti: la donna quale nuovo modo di conoscere; la donna quale idea nuova di organizzazione del sistema di cura.  La donna medico viene così a trovarsi quale «termine medio» tra conoscenza e prassi. Cambiare la prima implica necessariamente cambiare la seconda. Il postulato di fondo che il genere femminile costituisca in qualche modo un valore aggiunto nei confronti del cambiamento, viene così debanalizzato: da un modo ingenuamente deterministico «basta essere donna per cambiare la medicina» si passa a un’idea nuova nella quale il cambiamento emerge da una visione nuova da parte della donna medico sia della medicina sia dell’organizzazione sanitaria. 
 Ma in che modo ciò avviene? Per rispondere vorrei proporre una riflessione che ho portato avanti in questi anni, e che ha a che fare con «l’ontologia», una parola che ricorre ostinatamente in tutti i miei libri, usata dalla filosofia ma non dalla medicina, ma che certe donne medico, a quanto pare, mostrano di conoscere molto bene. L’ontologia si occupa dell’essere, di ciò che è, di quello che esiste. Non c’è scienza che non abbia un’ontologia implicita. Tutti i ragionamenti della medicina partono da un’ontologia naturale, oggettiva, biologica, organicistica, fisica, molecolare ecc. Per cui l’ontologia è la premessa che decide  la prassi. Se il malato è considerato in un certo modo, allora sarà conosciuto e curato in un certo modo.
Vorrei dimostrare tre cose: che chiunque voglia introdurre un qualche cambiamento nelle prassi mediche non può non passare per l’ontologia; che qualsiasi cambiamento che avviene con ontologie invarianti rischia di essere un falso cambiamento; che le novità che certe donne medico introducono sono prima  di tutto ontologiche quindi cambiamenti veri. Quando al convegno sul cancro della mammella posi la domanda «Di cosa parliamo, di cancro della mammella o di donna malata di cancro?», posi semplicemente un quesito ontologico: «Chi è e cosa è quell’entità che dobbiamo curare perché, a seconda del suo significato ontologico, avremo un tipo o un altro di medicina e di sanità».
Chiarito cosa è l’ontologia, devo chiarire il discorso sui «generi» rifacendomi alle nostre lingue madri, cioè quando i generi erano tre: maschile, femminile e neutro. Il  genere neutro designava tutti quei nomi né maschili né femminili, e in particolare il mondo delle cose e degli oggetti. Il mio quesito «Chi è e cosa è quell’entità che dobbiamo curare» significa molto semplicemente decidere «a quale genere appartiene la donna malata di cancro». Se la malattia coincide con l’organo, il genere più adatto a significarla è quello «neutro». Se al contrario la malattia coincide con la persona, il genere più adatto è quello «umano».
Per un medico non è la stessa cosa rapportarsi con un «genere neutro» o con un «genere umano». Nel primo caso prevarrà un’ontologia dell’oggetto, nel secondo caso un’ontologia del soggetto. Ed ancora: nel primo caso avremo una «disparità di genere» tra malato e medico e la conoscenza sarà solo biologica, nel secondo caso avremo una «parità di genere» e la conoscenza  sarà biologica e sovrabiologica, quindi tanto oggettiva che soggettiva; ed infine, nel primo caso avremo un’organizzazione sanitaria tayloristica cioè spezzettata, nel secondo caso un’organizzazione sanitaria interconnessa.
 Le donne di quel convegno e quelle che hanno dibattuto su Quotidiano Sanità.it, in fin dei conti, hanno proposto di ridiscutere una conoscenza clinica e un’organizzazione sanitaria fondata sulla «disparità di genere». Non credo che questo sia una coincidenza fortuita. Mi colpisce che le donne medico, che nella loro professione conoscono molto bene sulla propria pelle il significato di «differenza di genere», propongano un «genere» di medicina che per prima cosa  ridiscute le disparità ontologiche tra malato e medico.
Ma in cosa consiste l’operazione di ripensare la medicina non su una disparità ma su una parità ontologica? Si tratta, in una società radicalmente trasformata in ogni suo aspetto, di fare il percorso contrario a quello che fu fatto quando nacque la medicina scientifica di stampo positivistico, ma senza rinunciare a nessuna delle garanzie che offre la conoscenza scientifica: se fino ad oggi per conoscere la malattia si è trattato di trasformare ontologicamente la persona in sostanza vivente, ora si tratta di controridurre la sostanza vivente in persona; se sino ad oggi la riduzione della persona a sostanza vivente aveva la pretesa di rendere equipollente la sostanza vivente alla persona - cioè di considerare il malato come genere neutro, equipollente al malato come genere umano - oggi tale pretesa va revocata. 
In questi anni, libro dopo libro, non ho fatto altro che tentare di ridiscutere questa pretesa e, come me a quel che pare, molte donne medico. Quando esse, nelle discussioni, propongono di partire dalla persona malata non fanno altro che ri-generare ontologicamente il malato che per ragioni scientifiche è stato de-generato cioè ridotto a genere neutro. Questo è un cambiamento riformatore vero e non ha nulla a che fare con le chiacchiere sull’umanizzazione perché ridiscute il metodo della conoscenza. Infatti in medicina la riduzione del malato ad organo è un metodo di conoscenza. Ridiscutere il genere neutro dell’organo significa ripensare la clinica quale forma di conoscenza. Questo sarebbe un atto di riforma vero.
La forza di questa riforma non è solo culturale ma è molto di più. Ripensare i postulati del binomio medicina/sanità è straordinariamente più conveniente per tutti da ogni punto di vista. Da quello clinico perché se conosci meglio curi meglio; da quello sociale perché un malato ha più possibilità di guarire o quanto meno di essere curato; da quello economico perché tutto questo per tante ragioni costa meno e dà maggiori risultati. Ebbene certe donne medico sembrano molto più sensibili dei medici maschi a questo genere di questioni.

La relazione quale nuovo modo di concepire la medicina.

Esiste una letteratura molto citata dalle donne medico che dimostrerebbe come un numero significativo di donne medico siano denotabili soprattutto con la relazione. Perché questo? Sino ad ora le spiegazioni correnti si sono rifatte all’indole, a qualità innate e, in qualche caso, al «lavoro di cura» come se la relazione fosse una «specialità» di genere. Certe componenti antropologiche predisponenti, in certe donne medico, non possono a priori essere escluse  ma, nello stesso tempo, è difficile dimostrare che basta il genere in sé a fare relazioni. Dire che tutte le donne sono «relate» è un’induzione rischiosa. Possibile mai che al mondo non vi sia neanche una donna medico irrelata e neanche un maschio medico relato? 
Ma evitare le fallacie dell’induttivismo di genere non significa che non possiamo dedurre da una caratteristica tendenzialmente dominante, come quella di costruire relazioni, donne medico in carne ed ossa, per le quali il loro genere sia implicato strettamente con la relazione. E né possiamo escludere che vi siano maschi medici a loro volta sensibili alle relazioni. Personalmente penso, prima di tutto, che la relazione sia soprattutto un mezzo per praticare una certa medicina, e non un fine deontologico, come sento dire continuamente nei convegni.
Per chi vuole conoscere e curare «qualcosa e qualcuno in un contesto»,  quindi il «super oggetto», come si è detto al convegno sul cancro della mammella, la relazione è di fatto obbligatoria. La relazione è uno strumento usato più dalle donne che dagli uomini, perché certe donne hanno un’idea «complessa» di medicina. Le ontologie complesse non si possono conoscere se non attraverso delle relazioni. E i sistemi di cura tarati su esse, a loro volta, non possono che essere sistemi relazionali.
La relazione, quindi, non è quello che pensano gli umanizzatori della domenica, cioè amabilità deontologica, ma è il mezzo attraverso il quale è possibile  ripensare conoscenza, prassi e clinica. Rammento che la conoscenza clinica è una «conoscenza irrelata» che si basa sul riconoscimento della malattia di un organo attraverso i sintomi, quindi sull’osservazione e, gioco forza, sulla giustapposizione  tra il medico che osserva e l’organo osservato. Organizzare relazioni in luogo delle giustapposizioni, come fanno molte donne medico, è un atto di riforma importante che cambia l’organizzazione delle prassi.
Per non farla tanto lunga, avendo affrontato  la questione  altrove - «La clinica e la relazione»,  Bollati Boringhieri 2004 -, mi limito a delle sottolineature: la relazione è ciò che intercorre tra il medico e il malato, essa ha una forma binaria interdipendente nella quale colui che osserva e colui che è osservato sono reciprocamente implicati; in una relazione di cura il malato è relativo al medico «come a sua causa» e viceversa, cioè sono correlabili, quindi la conoscenza del malato dipende anche da chi e da come si conosce il malato; una relazione di cura è eccentrica (senza un centro) nel senso che in essa non esistono più criteri assoluti, unici o prioritari di riferimento, come in genere sono le evidenze scientifiche, ma una molteplicità di altri generi di evidenze.
Oltre ai significati clinici, esiste anche l’opinione del malato, il senso che lui attribuisce alla propria malattia, la personalità della persona, il suo contesto di vita. Cioè oltre a «qualcosa» c’è sempre «qualcuno». Le relazioni sono «eccentriche» perché esse sono come gli snodi autostradali: interconnettono tante strade, cioè tutte le possibilità di un viaggio. Eccentricità, quindi, non centralità; nella relazione i modelli e le procedure vanno reinterpretati, perché inevitabilmente si pone una questione di personalizzazione della cura; nella relazione è importante tanto la conoscenza scientifica che la sensibilità ontologica.
Si tratta di capire cosa esiste in un malato e chi è e quindi quali conoscenze scientifiche sono ammissibili, cosa è meglio fare e cosa è meglio non fare; la relazione risolve il paradosso di un’informazione e di una comunicazione senza linguaggio, tipico di certa manualistica che riduce tutto a tecniche comunicative, a messaggi da trasmettere, a informazioni da dare, senza comprendere il valore conoscitivo del linguaggio. In una relazione il linguaggio è parte della cura.
La relazione quindi non è un vezzo culturale delle donne medico, ma qualcosa di più profondo: se vogliamo cambiare l’ontologia del malato, dobbiamo avere relazioni con esso; per avere relazioni con il malato dobbiamo avere con lui relazioni di cura inter-professionali. In sintesi: senza relazioni non si cambia un fico secco; le relazioni rappresentano un pensiero riformatore eccentrico cioè complesso letteralmente «senza un centro». Molte sono le donne che praticano, nonostante tutto, una «medicina eccentrica», con ciò esprimendo un forte senso della complessità.  

Tags: Novembre 2013 sanità donne professioni sanitarie Ivan Cavicchi medici

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