TRASPORTI: IL BOLLETTINO DI UNA DISFATTA
a cura di UBALDO PACELLA
Aleggia ovunque un diffuso grigiore, una sorta di oscuro presagio grava sul mondo dei trasporti, come quei nembi equatoriali impregnati di umidità, carichi di energia che, prima o poi, è destinata a sprigionarsi investendo con grande veemenza o mettendo a soqquadro persone, attività, oggetti, senza che in apparenza vi si possa porre riparo. La crisi dell’Alitalia, i problemi insoluti da anni del trasporto pubblico con scioperi degli autonomi che si ripetono stancamente, la mancanza di risorse per l’Anas o di tecnici per l’Enac acuiscono i molti mali del settore impedendo, per volontà di gruppi di interesse, imperizia, mancanza di visione strategica, conflitti di potere, quelle necessarie seppur onerose trasformazioni, indispensabili per modernizzare un elemento chiave dello sviluppo economico avanzato.
La fragilità del trasporto nazionale, esclusi alcuni soggetti come Ferrovie e Autostrade, è disarmante per un’economia che vuole ancora contare in Europa. Non si riesce a creare un sistema efficiente della mobilità, il risultato è rendere sterili anche le scelte più utili e innovative. Basti pensare all’alta velocità ferroviaria, ai successi sin qui inanellati, senza tuttavia mettere questa carica di innovazione e progettualità a servizio di una mobilità integrata sia terrestre sia più ancora con il trasporto aereo, per captare nuovi flussi di traffico verso il nostro Paese e le sue più importanti città, ineguagliate se non altro per opportunità turistiche e culturali.
La disarticolazione è resa evidente nell’incapacità di orientare i flussi di traffico sulle direttrici e nelle modalità più convenienti per il buon funzionamento del sistema produttivo come di quello sociale. I fondi concessi dalla legge di stabilità appena presentata all’autotrasporto sono stati bollati da autorevoli economisti come un aiuto inefficace, erogato solo per tenere buoni i camionisti ed evitare conflitti e blocchi stradali. Ogni segmento di trasporto pretende o si illude di orientare una politica della mobilità sulla scorta delle sue intrinseche necessità o degli specifici interessi.
Questo vale per il trasporto merci, quanto per quello passeggeri. Coinvolge ogni filiera di prodotto, si allarga a macchia d’olio alle più diverse esigenze dei traffici, con il risultato di rendere tutto meno fluido e più costoso, di impedire le scelte strategiche, per garantire un mantenimento sempre più sfilacciato e rischioso dello status quo, di quelle che in passato erano rendite di posizione ed ora si sono trasformate in ridotte o trincee per fermare l’ultimo assalto prima della capitolazione al mercato, alla concorrenza, a una gestione efficiente ed economicamente sostenibile, capace di migliorare la qualità dei servizi e ridurre, ove sussistono sprechi e sussidi di molteplice natura.
La marginalità dei porti italiani, plasticamente evidente nelle scelte dell’Unione Europea per le reti Ten-T, le carenze della flotta marittima commerciale, ci fanno essere periferia dei traffici intercontinentali quando potremmo giocare un ruolo da protagonisti ben oltre il bacino del Mediterraneo, per i flussi verso i ricchi mercati del Sud-Est asiatico.
La nostra pur malandata ed agonizzante economia è pur sempre, per volumi produttivi e traffici, la terza dell’Unione Europea, eppure il piano dei porti ci destina un ruolo assai marginale, speculare, se lo si guarda in filigrana, all’incapacità congenita di proporre aggregazioni funzionali efficaci, di puntare su pochi scali di qualità per mantenere un reticolo di autorità portuali piccole, medie, grandi ma inefficienti, che restano funzionali ad obsolete rendite di potere politico, costruito sulla spartizione di porzioni sempre più minuscole di mercato, mentre i grandi traffici e i relativi guadagni guardano altrove.
Il paradosso dei trasporti in Italia è che tutto è sempre più maledettamente fermo. Si aprono un varco, nel desolante e sconsolato proscenio, questioni emergenziali che poi sembrano inabissarsi o sopirsi non si capisce bene per quale ragione, se nulla di sostanziale è intervenuto per risolvere gli squilibri o decretare i fallimenti. Cosa è del Piano degli aeroporti dovrebbe dirlo il brillante ministro Maurizio Lupi, impegnato a tappare le falle di una barca perennemente sul punto di affondare, senza realizzare alcuna concreta progettualità.
Sono o no gli aeroporti elemento cardine di un progetto di rilancio dell’intero trasporto aereo nazionale, che appare e scompare nell’agenda dei Governi e dei ministri? Quali conseguenze determinano sulle compagnie aeree queste inefficienze? E, di contro, con quali effetti il fallimento o la marginalità di tutte le compagnie italiane pregiudicano i piani di impresa o di sviluppo non solo di aeroporti strategici, ma di interi bacini sociali e produttivi? Una sorta di mito di Ulisse che, più si avvicina alla sospirata Itaca, più è costretto a ritrovarvisi lontano per volere maligno del fato, sospinto da improvvise tempeste. Lasciamo al lettore scegliere i personaggi omerici che più si attagliano alla vicenda; resta il fatto che le decisioni non sono definitive, lo sbandamento del comparto è sempre più evidente, con le compagnie squassate da venti di crisi che minacciano ogni giorno di lasciare a terra gli aerei, a casa i lavoratori e in mano a vettori esteri il traffico.
Abbiamo accennato alla drammatica vicenda dell’Alitalia, di fatto al secondo fallimento nel giro di 5 anni, dopo la privatizzazione che non ha portato buoni frutti se in mano ai capitalisti nostrani la compagnia perdeva più soldi di quando era preda dei boiardi di Stato. Non meglio sembrano volare, sinché potranno farlo, le altre compagnie italiane, a partire da Meridiana. Non basterà, temiamo, l’abilità del presidente Vito Riggio a risolvere uno stato di crisi che si protrae da anni, senza mostrare segnali positivi o inversioni di tendenza.
Tutti i settori del trasporto sono prigionieri di inefficienze, contraddizioni, criticità gestionali, ma soprattutto della mancanza di una reale progettualità politica che ne scandisca la missione, delimiti gli impegni, concentri le risorse e promuova i risultati, mettendo fine al susseguirsi di bilanci in rosso o a scelte fallimentari che qualcuno dovrà pur pagare, cioè assai raramente gli azionisti o il management, troppo spesso gli utenti, i cittadini, i viaggiatori o le imprese, a seconda delle tipologie di traffico.
Il trasporto locale, è bene ricordarlo, versa da troppi anni in una crisi strutturale. Nell’ultimo periodo, grazie all’impegno e agli sforzi congiunti del Governo Monti, in particolare dell’allora viceministro Michael Martone nonché del sindacato, si sono definiti i criteri per il finanziamento strutturale del settore e l’avvio di un vero rilancio. Regioni e imprese, per la verità, resistono.
Le prime, per rivendicare il proprio primato a decidere sulle risorse finanziarie, digeriscono molto male, infatti, la creazione di un fondo di fatto vincolato proprio per il trasporto pubblico locale, che non consentirebbe loro altri margini di manovra; in parole povere, quei finanziamenti debbono essere usati esclusivamente per il trasporto e non dirottati su altre spese. Le aziende, attraverso le associazioni di rappresentanza Asstra e Anav, la prima pubblica, la seconda dei privati, sembrano immuni alla necessità di cambiare in profondità assetti e metodi gestionali e di puntare su aggregazioni efficaci, funzionali, in grado di generare economie di scala, migliorare la qualità, ridurre i costi, soprattutto di gestione, il che si traduce in soldoni nella liquidazione di municipalizzate pubbliche infarcite di consigli di amministrazione zeppi di ex politici e portaborse.
Un Paese come l’Italia non può continuare a sostenere con soldi pubblici un pulviscolo inefficiente di oltre mille imprese del trasporto pubblico locale, quando negli altri Stati dell’Unione lo stesso servizio è garantito, per la stragrande maggioranza, da pochi qualificati operatori: i tre del Regno Unito, i 6 o 7 della Francia, i 9 della Germania. Ci auguriamo che questa sorta di braccio di ferro strisciante possa concludersi a breve con la firma di un nuovo contratto nazionale di lavoro, atteso da oltre 5 anni, elemento essenziale per avviare una grande trasformazione del trasporto locale indispensabile per la vita civile delle comunità, per il riassetto della mobilità nelle metropoli come nei centri urbani, o nelle aree territoriali assai diffuse e antropizzate d’Italia.
La rete stradale è l’altro grande malato. L’ha ricordato l’amministratore unico dell’Anas Pietro Ciucci sostenendo che servono almeno 850 milioni di euro per far fronte agli interventi essenziali su migliaia di chilometri di asfalto, ricordando come un tratto della «millenaria» Salerno-Reggio Calabria è ancora privo di finanziamenti. Il traffico stradale è sparito dalle pagine dei giornali solo perché la recessione ne ha diminuito i flussi reali e il ruolo, ma le contraddizioni si riproporranno puntualmente con la ripresa economica che tutti auspicano a breve.
Ciò richiamerà il ruolo di cerniera della mobilità svolto dalle autostrade, le condizioni insostenibili della rete stradale che l’Anas appare incapace di fronteggiare per mancanza di risorse unita a una visione forse un po’ statica e passatista dei modelli gestionali, a meno che Pietro Ciucci non faccia uscire qualche coniglio dal cilindro, abbandonando finalmente i sogni di un ponte sullo Stretto cui ha dedicato la propria creatività forse in modo eccessivo.
Le buone notizie nei trasporti rischiano di doversi cercare con il lanternino di Diogene, dal momento che nelle ferrovie al grande, atteso successo dell’alta velocità fanno da contrappeso le gravi carenze del trasporto locale, del tutto insufficiente, obsoleto, dotato di materiale rotabile vecchio e inadeguato, lontano dai migliori standard continentali, troppo fragile per sostenere il peso di una mobilità di massa che deve, invece, concentrarsi proprio sul miglior uso possibile del treno per spostamenti a breve e medio raggio, con punte qualificate nelle metropoli e nelle aree ad alta concentrazione di traffico.
Trascuriamo il semi-abbandono in cui versa il trasporto merci per ferrovia, travolto dal mix micidiale della recessione economica che ha colpito la sua merceologia di riferimento insieme alla disattenzione del management e della politica, che non elabora alcuna scelta per favorire l’integrazione tra i vettori e gli operatori, ovvero forme di sinergia utili al rilancio competitivo delle merci su ferrovia. La stessa NTV, società privata che prima nel mondo ha lanciato la competizione sull’alta velocità in concorrenza con le Ferrovie dello Stato italiane, nonostante gli indubbi successi e il gradimento crescente della clientela è chiamata a fare i conti con un mercato stagnante, di fronte a politiche tariffarie spietate lanciate dall’ex monopolista, capaci di assottigliarne i ricavi con la conseguenza di evidenziare un’accentuata sofferenza resa evidente dalle dimissioni dell’amministratore delegato Giuseppe Sciarrone, un vero signore dai modi raffinati, conoscitore come pochi del pianeta Ferrovie, ma incapace di reggere ad una liberalizzazione troppo prudente e contraddittoria.
Tinte fosche che vorremmo fossero squarciate da raggi di luce, soprattutto nella prospettiva di un grande sforzo di modernizzazione delle reti e dei sistemi integrati della mobilità, dell’energia e delle comunicazioni. La cronaca, tuttavia, sembra impegnata a fugare ogni ottimismo. Si pensi all’appena nata Autorità per i Trasporti, composta dal presidente Andrea Camanzi, da Barbara Marinali, dirigente del Ministero dei Trasporti e da Mario Valducci, ex presidente della Commissione Trasporti della Camera nella scorsa legislatura, nominati per la durata di sette anni. Appena ottenuto il benestare del Parlamento nello scorso mese di agosto, dopo l’iniziale falsa partenza della prima triade indicata dal Governo Monti, invece di bruciare le tappe ha imboccato un itinerario accidentato e tortuoso.
Il «decreto del Fare» ne avrebbe depotenziato, a detta di molti esperti, l’incisività per ciò che riguarda le autostrade, mentre altri compiti di regolazione tariffaria, come ha scritto Mario Sebastiani su La Voce.Info, dovrebbero rigidamente restare di competenza del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. La scelta di una sede a Torino e la mancanza assoluta di personale, che dovrà essere reclutato tra quello specializzato già assunto in uffici pubblici tramite processi selettivi, fanno temere che anche questa novità sia nata morta o navighi a vista nei perigliosi flutti della politica e delle burocrazie ministeriali, impegnate a depotenziarne il ruolo perché le scelte dell’Autorità debbono avere quella trasparenza e pubblicità negata o resa quasi incomprensibile nei meandri dei dicasteri italiani.
I dati dei trasporti in Italia nel 2012 e 2013 sembrano il bollettino della disfatta, ma la ricerca della Federtrasporto è solo la fotografia impietosa della realtà. Non c’è spazio per tergiversare, vanno affrontati i problemi strutturali che soffocano i traffici e l’intero sistema sociale e industriale. Gli extra costi di energia e trasporti sono un freno alla competitività e all’innovazione che rischia di pregiudicare i tentativi di ripresa.
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