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legge di stabilità, un’occasione da non perdere

di GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

La legge di stabilità varata per il triennio 2014-2016 in realtà è una legge di immobilità. I provvedimenti previsti - simbolica riduzione della pressione fiscale, limitata al 2014; tagli estesi al welfare, pensioni, sanità, pubblico impiego; irrisori interventi per favorire gli investimenti - non sono adeguati ad una politica di rilancio dell’economia. La prospettiva è quella di un’ulteriore fase di ristagno per i prossimi anni.
La legge di stabilità è figlia del «pensiero corto». Si è dimenticato il passato. Si ripetono discorsi ormai superati. Non c’è la capacità di proiettarsi verso il futuro. Il processo decisionale, come ha amaramente sottolineato Valerio Selan, è paragonabile a quello del popolo delle scimmie che ogni giorno, come precisa Mowgly nel «Libro della giungla» di Rudyard Kipling, ripete gli errori di quello precedente perché è privo di memoria.
A monte c’è l’organica incapacità di svolgere in Europa un ruolo di pari dignità con gli altri Paesi. Il tetto del 3 per cento sul deficit del prodotto interno impedisce lo sviluppo. Altri Paesi, come la Francia e la Spagna, sono stati autorizzati a superarlo; noi no. L’Italia non è credibile. Eppure siamo i terzi finanziatori dell’Unione Europea e da 12 anni versiamo di più di quanto ci viene restituito. Il Governo Letta & Alfano si vanta di aver scritto la legge di stabilità senza che gli siano state dettate le misure. È vero. Non ce ne era bisogno. L’Europa sapeva e sa che le conoscevano a memoria.
L’Italia è prigioniera del debito pubblico. È aumentato nonostante le politiche di austerità praticate negli ultimi anni. Pesante l’eredità lasciata dal Governo Monti: ha fatto lievitare il rapporto tra debito e prodotto interno sino al massimo storico del 130 per cento. Il crollo dei consumi ha determinato un divario, nella distribuzione della ricchezza, che si è accentuato durante la crisi. La Banca d’Italia ha denunciato che oggi la metà del reddito totale è in mano al 10 per cento delle famiglie, mentre il 90 per cento è titolare dell’altra metà. Insomma è vero quello che Joseph Stiglitz ha sintetizzato nella formula «Diseguaglianza e sviluppo economico sono tra di loro inversamente proporzionali».
L’Italia ha perso sette punti percentuali di reddito prodotto dal 2008 ed altri due ne perderà quest’anno, per un totale di nove punti. La disoccupazione riguarda sei milioni di persone, ai quali si devono aggiungere tre milioni di precari. Dal 2000 al 2010, scrive sul Corriere della Sera Sergio Rizzo, la spesa pubblica regionale ha superato i 200 miliardi di euro. La crescita è stata di 89 miliardi, che corrisponde ad un incremento del 75 per cento monetario e del 45,4 per cento oltre l’inflazione.
All’esplosione delle spese periferiche si è accompagnata una crescita reale della spesa pubblica del 17,7 per cento, con una progressione sconosciuta in Europa. Ecco perché la pressione fiscale è andata in orbita, dovendo alimentare una macchina impazzita, capace di ingoiare nel 2010 ben 245 miliardi in più rispetto a dieci anni prima. L’economia è cambiata in peggio. Sono state sbagliate le previsioni. È aumentato il rapporto tra il debito e il prodotto interno del 2,4 per cento, e il peso delle entrate fiscali è stato maggiore dello 0,5 per cento del prodotto stesso.
C’è un susseguirsi di errori di previsione del Ministero dell’Economia. Sono sbagli che continuano imperterriti da anni. È legittimo ora dubitare della bontà e della credibilità delle nuove proiezioni. La legge di stabilità non affronta i veri problemi del Paese. Il Governo delle «larghe intese» non riesce a varare le riforme. È costretto a vivere alla giornata. È molto diverso dalla Grossa Coalizione che vede in Germania insieme Angela Merkel e la SPD, dopo le elezioni politiche di settembre. Lì si sta facendo una scelta coraggiosa. Si affievolisce la politica dell’austerità e si imbocca la strada di una controllata, misurata, intelligente politica espansiva. Il cardine è la realizzazione del salario minimo di 7,5 euro l’ora.
Così come in Francia, così come in Spagna, anche in Germania ci si sta rendendo conto che occorre puntare ad una politica espansiva capace di rianimare la domanda interna. C’è attenzione alle politiche fiscali che non possono più aumentare all’infinito. C’è la consapevolezza che il mercato deve essere regolamentato e che lo Stato non può non essere un protagonista della ripresa. Insomma lo Stato non può più essere visto come un distributore, come una fonte di sprechi e di inefficienza. È stato un errore ridurlo ai minimi termini. «La società non esiste–diceva Margaret Thatcher–, ci sono individui e famiglie. E nessun Governo può far nulla. La gente deve pensare a se stessa».
Con quelle affermazioni e con quelle scelte politiche il mondo è tornato indietro e la stessa Europa corre il rischio di naufragare per l’impatto con una crescente deriva populista. La crescita è improcrastinabile. Rischia, però, di rimanere un miraggio nell’attuale contesto politico. La spesa pubblica è di 807 miliardi. Come è possibile che non si possano raggranellare una decina di miliardi per fare una politica espansiva? Il Parlamento deve dare una risposta a questo interrogativo. La legge di stabilità va modificata. Va corretta. Va resa equa. Va accompagnata dall’avvio di riforme istituzionali che rendano più agile, più funzionale, più incisiva l’azione delle istituzioni.
Occorre porre un alt ad una politica fiscale sciagurata e incontrollata che sta rendendo impossibile una collaborazione tra cittadini e istituzioni. La lotta all’evasione fiscale richiede il rispetto delle regole, l’autorevolezza e non l’autoritarismo, la certezza della legge, la trasparenza delle norme. La fantasia delle istituzioni quando si deve tassare è infinita. Quando invece si deve decidere dove tagliare la spesa, i Governi di qualsiasi tendenza sono capaci solo di intervenire sui pensionati e sui dipendenti pubblici. Si rattrappiscono sulle altre spese.
Il fisco è fantasioso. È iniquo. Troppo. Persevera con testardaggine nella violazione delle norme sullo Statuto del contribuente. È un problema. È così un ostacolo alla crescita, allo sviluppo. La legge di stabilità ripercorre i vecchi sentieri dell’inasprimento fiscale spingendo il Paese nel precipizio della recessione e favorendo forme di ribellismo sempre più diffuse e confuse. Occorre procedere in tre direzioni: il carico fiscale va riequilibrato tra finanza e lavoro; il prelievo va attenuato sui redditi fissi e sulle famiglie; la tassazione sul lavoro autonomo e sul sistema delle imprese deve essere coerente con una politica di crescita.
La legge di stabilità va resa, invece, efficace nei confronti della spesa pubblica. È assurdo che gli unici tagli vengano realizzati sul welfare, con un particolare accanimento, ai limiti dell’esproprio, sul sistema pensionistico e sul blocco delle retribuzioni e del turnover nella pubblica amministrazione. Si chiude un occhio, anzi tutti e due, sugli sprechi e sulle ruberie. Uno studio della UIL ha calcolato che i costi della politica diretti ed indiretti ammontano a 24 miliardi. Almeno 7,1 miliardi potrebbero essere i risparmi possibili con una riforma per ammodernare e rendere più efficiente il nostro sistema istituzionale.
Ad esempio si potrebbe decidere l’accorpamento degli oltre 7.400 Comuni al di sotto dei 15 mila abitanti con un risparmio di 3,2 miliardi; le Province dovrebbero, con un risparmio di 1,2 miliardi, limitarsi a spendere risorse solo per i compiti attribuiti dalle legge; con una più sobria gestione del funzionamento degli Uffici regionali si potrebbero risparmiare 1,5 miliardi mentre 1,2 miliardi potrebbero arrivare da una razionalizzazione del funzionamento dello Stato centrale.
Un dato impressionante è quello rappresentato dai 143.996 titolari di cariche elettive nella politica: 137.660 nei Comuni; 1.067 in Parlamento; 1.356 nelle Regioni; 3.853 nelle Province. A questi si devono aggiungere 984.786 incarichi pagati dallo Stato direttamente o indirettamente: 44.165 componenti dei collegi dei revisori e sindacali della Pubblica Amministrazione e delle aziende pubbliche; 24.432 membri dei consigli di amministrazione delle aziende pubbliche; 38.120 persone a supporto dei politici; 390.120 componenti degli apparati politici; 487.949 incaricati e consulenti della Pubblica Amministrazione e delle aziende pubbliche.
Il riordino delle Province è una corsa contro il tempo: il 31 dicembre scadono 32 commissari con il rischio che si debba andare al voto per eleggere i nuovi presidenti. Anche la realizzazione delle 10 città metropolitane che assorbiranno altrettante province tra cui Roma, Milano, Napoli e Torino, è al rush finale. Se ne parla dal 1990, dovrebbero costituirsi il primo gennaio per diventare operative dal luglio 2014. Tutto lascia pensare che la scadenza del 31 dicembre non verrà rispettata, e così le Province risorgeranno forse anche in numero maggiore rispetto a quello di prima.
Il federalismo fiscale si è rivelato, a partire dalla riforma del Titolo V della Costituzione, una macchina mangiasoldi che divora il Paese. Gli enti locali, con le dovute ma limitate eccezioni, sono diventati una fonte incontrollata di spese e di sprechi. La stangata fiscale arriva dagli enti locali. Ogni italiano dovrà pagare in media 503 euro di tasse a Comune e a Regione, l’8,5 per cento in più, sei volte il costo della vita. La classifica dei più tartassati vede in testa Campobasso, Napoli e Salerno con 651 euro, seguite da Roma con 605 euro e da Chieti, Genova, Imperia, Messina, Palermo e Teramo con 582 euro.
Ogni volta che si vuole mettere mano alla spesa degli enti locali si levano indignate le reazioni dell’ANCI, dell’UPI, della Conferenza Stato-Regioni. I presidenti di turno protestano perché si è costretti a tagliare gli investimenti sociali, il welfare, gli asili nido. Farneticano. Spesso mentono. Basta leggere i giornali su come gli enti decentrati sprecano e dilapidano risorse. Non è scandalismo. È un’amara realtà. Si moltiplicano i casi di cattiva, illegale, assurda, politica della spesa. Mai si è levata e si leva una voce di condanna dall’ANCI, dall’UPI, dalla Conferenza Stato-Regioni.
E sulla spesa qualcosa va detto sull’accanimento nei confronti dei pensionati. Innumerevoli le riforme del sistema pensionistico dal 1992 al 2011. Sono stati colpiti i pensionati in essere - pensioni di reversibilità, indicizzazioni, aggancio alle retribuzioni, crescente prelievo fiscale - e i futuri pensionati: modalità di computo della pensione ed età di pensionamento. Le previsioni della Ragioneria Generale sulla spesa pubblica ora indicano «come, nel panorama europeo, l’Italia risulti uno dei Paesi con la più bassa crescita della spesa pensionistica in rapporto al prodotto interno, segnalando, sotto questo aspetto, un rischio contenuto in termini di impatto dell’invecchiamento demografico delle finanze pubbliche».
Ciononostante in settori autorevoli della dottrina e della politica si levano inviti pressanti per fare cassa sui pensionati. Il prof. Tito Boeri ipotizza tre diversi scenari con contributi di diverso importo operanti sulle pensioni superiori a sei volte il minimo: a seconda dei livelli del contributo - che dall’1 per cento per le pensioni più basse arriva al 15 per cento per le pensioni più alte - ottiene un ammontare che varia da 800 a 900 milioni. Boeri considera il prelievo lordo trascurando che questo contributo sarebbe deducibile e, trattandosi di fasce di pensione soggette ad aliquote del 38, 41 e 43 per cento, il risparmio netto ottenuto andrebbe ridotto del 40 per cento, scendendo a 500 milioni circa. Inoltre Boeri applica il contributo all’intera pensione e non solo alla parte superiore a sei volte il minimo. Se si adottasse quest’ultima soluzione, come fa il Governo, il contributo darebbe un gettito netto inferiore ai 100 milioni di euro.
Yoram Gutgeld, senatore del PD molto ascoltato da Matteo Renzi, ipotizza addirittura un contributo del 10 per cento sulle pensioni sopra i 3.500 euro, con un risparmio di circa 3,3 miliardi se è colpito l’intero importo della pensione. È incredibile l’ignoranza, la superficialità, il pressappochismo di chi parla di queste ipotesi. Si tratta di suggerimenti che ignorano la differenza tra previdenza e assistenza, che dimenticano la solidarietà espressa tra i pensionati per le pensioni sociali, quelle integrate al minimo, quelle di invalidità.
Si continuano gli errori inescusabili dell’ex ministro Elsa Fornero; si prosegue su una strada nella quale si ignora il problema dei trattamenti pensionistici della casta. Si moltiplicano le denunce del Corriere della Sera («Scivolo d’oro dei militari italiani: i cinquantenni godranno l’esenzione dal servizio per 10 anni con l’85 per cento dello stipendio»), e del Fatto  («Corte Costituzionale: 20 giudici in pensione e 9 superstiti godono di un trattamento complessivo aggiuntivo di 5,8 milioni»).
La legge di stabilità è un’occasione da non perdere. Il Governo delle grandi intese deve operare, non può rimanere fermo, immobile, incapace di progettare il futuro. Occorre una discontinuità. Gli ultimi venti anni hanno precipitato il Paese prima nella stagnazione, poi nella recessione. Facciamo fatica a venirne fuori. Guadagna sempre più terreno un sentimento di sfiducia; si consolida la rassegnazione dinanzi al perdurante declino del Paese. Da venti anni non si riesce a trovare una formula politica, il fallimento del bipolarismo è dinanzi agli occhi di tutti; non abbiamo Governi capaci di fare riforme, il federalismo fiscale si è dimostrato una vera e propria truffa che ha penalizzato cittadini e imprese. Abbiamo una classe dirigente senza ideali e con molta presunzione, che discetta con grande inettitudine e superficialità sul futuro del Paese.
Bisogna uscire dalla logica emergenziale. Il Governo Letta & Alfano non deve perdere, come ha fatto il Governo Monti, le occasioni e le opportunità per cambiare. Il problema non è durare ma fare. Si devono fissare obiettivi stabilendo priorità come lavoro, equità, legalità, e regole nuove: semplificazione ed efficienza delle strutture dello Stato. Monti prima e Letta ora hanno operato in stato di necessità per contenere i danni. È stato ed è importante. Ma non è sufficiente. Non si può tirare a campare. Le larghe intese, come dimostra la Germania, devono operare nel settore delle riforme. La legge di stabilità deve essere coerente con la politica di riforme. Non si può tollerare il silenzio sulla riduzione dei costi della politica, sull’approvazione di una nuova legge elettorale, sulla modifica alla Costituzione.
Insomma bisogna dimostrare che le larghe intese servono. Parafrasando quanto ha scritto, in un brillante saggio sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia, ci si deve rendere conto che è necessaria una svolta. Se si vuole diminuire il debito, le tasse e la spesa pubblica; se si vuole eliminare la camorra dal traffico dei rifiuti; se si vogliono abolire le Province; se si vuole introdurre la meritocrazia; se si vuole disboscare la foresta delle leggi; se si vogliono cancellare le incrostazioni oligarchiche in tutto l’apparato statale e parastatale; se si vogliono riportare gli enti locali ad una corretta gestione; se si vuole riunificare il mondo del lavoro eliminando le discriminazioni nei confronti dei giovani, occorre che la legge di stabilità sia all’altezza della situazione. Sia soprattutto capace di rimotivare il Paese. Si toglie il Paese dal pantano solo se si scommetterà finalmente sul cambiamento, in modo da modernizzarlo ed europeizzarlo.  

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