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Contro la crisi basta cambiare il significato del termine «spreco»?

L'editoriale di Victor Ciuffa

Da quanto tempo in Italia si discute della grande crisi economica in atto in tutto il mondo? C’è chi afferma che essa è cominciata addirittura nel 2008 e, sia pure con diverse valutazioni, la data è condivisibile. Se non proprio la crisi, nel 2008 si era già innescato comunque quel meccanismo che avrebbe presto ed inesorabilmente condotto ad essa. Ma nessuno se ne occupava e preoccupava a dovere. O meglio, tutti se ne preoccupavano, soprattutto le persone il cui reddito era più o meno legato al consumo, o meglio al prezzo del petrolio, che cresceva continuamente.
Unici a non preoccuparsene del tutto erano invece i politici, in special modo quelli italiani, affascinati all’epoca dal clima teatrale, cinematografico, più propriamente televisivo imperante; o meglio ancora da avanspettacolo, nel quale tutta la popolazione italiana era coinvolta, per curiosità o morbosità, grazie alle attività e alle vicende rosa di politici e governanti, frequentatori più di tabarin che di facoltà di Economia, popolate magari di Premi Nobel. Se tali politici e governanti si fossero occupati più di problemi economici, aumento dei prezzi, inflazione, debito pubblico, effetti, su tutto, del costo dei prodotti petroliferi, i consumatori non sarebbero stati costretti, rapidamente e drasticamente, a restringere i consumi provocando una lunga serie di reazioni a catena.
Si è assistito invece ad un comportamento della classe politica opposto a quello seguito dai governanti nella seconda metà del secolo scorso. Governanti da ricordare con nostalgia, come ad esempio il ministro dell’Agricoltura e Foreste e poi anche dell’Industria e Commercio Giovanni Marcora, che combatté accanitamente proprio contro l’aumento dei prezzi. Le odierne preoccupazioni per la situazione e per l’evoluzione economica sono tante e gravi, ma rari sono i riferimenti al pensiero dei grandi economisti degli ultimi tempi, in particolare degli ultimi due secoli, durante i quali anzi sono fioriti esimii maestri nell’economia.
Nei giorni scorsi si sono lette, in un’intervista rilasciata ad un giornale romano, una decina di righe riportanti un pensiero di James Kenneth Galbraith il quale, secondo l’intervistatore, avrebbe detto: «Basta con i sacrifici a tutti i costi, altrimenti la ripresa resterà al palo». Anche in Europa e in Italia esiste una scuola di pensiero che sostiene questa ricetta, desunta dal grande John Maynard Keynes. Ci sono stati in questi mesi governanti che hanno invitato le popolazioni addirittura ad aumentare i consumi per rimettere in moto il ciclo economico: aumento della produzione e della domanda di materie prime, aumento dell’occupazione e del monte salari globale, quindi ulteriore aumento dei consumi, della produzione, dell’occupazione ecc. Teoricamente la ricetta dovrebbe funzionare ma gli ostacoli non sarebbero finiti. In primo luogo si pone quello delle risorse finanziarie necessarie per finanziare le spese della popolazione. Non bisogna dimenticare ch fu proprio Galbraith a sostenere negli anni 80, nel libro «La buona società» edito da «Il Mondo», una visione profetica: «Tutti concordano che non si possono accollare alle future generazioni i costi degli sprechi attuali; sulla teoria non ci sono dubbi, ciò che preoccupa è la realtà pratica. Individuare gli sprechi in questione non è affatto facile, il compito è reso enormemente complicato dall’ormai radicata tendenza a definire ‘spreco’ ciò che, di fatto, è un beneficio determinante per la parte più bisognosa della collettività». E Galbraith aggiungeva: «Rimane infine quella fetta della spesa pubblica che serve a sostenere il benessere futuro e la crescita economica. In questo caso l’indebitamento non solo è legittimo, ma anche socialmente ed economicamente auspicabile. Nell’economia privata un analogo ricorso all’indebitamento ha la massima approvazione persino dei più aperti e spesso accesi oppositori del deficit pubblico».
Capito? Venti anni fa in Europa e in particolare in Italia tutti impazzivano per le teorie economiche di Galbraith. I suoi libri erano Vangeli, trattavano i temi più attuali del momento: riduzione delle tasse, Stato leggero, funzione del debito pubblico, controllo della disoccupazione e dell’inflazione, costo dell’assistenza sociale. Temi che, se fossero stati risolti sia pure in parte, o comunque affrontati, avrebbero contribuito alla creazione della «Buona società» in Italia ed anche in Europa. In Europa, invece, fu istituita la moneta unica, furono stretti vari trattati e diffuse una sfilza di direttive, tutte negative e penalizzanti per l’industria, il commercio, l’agricoltura, cioè per tutta l’economia italiana e, più in generale, mediterranea.
I governanti italiani hanno accettato, senza obiettare nulla, tutte le penalizzazioni provenienti da Bruxelles, cioè dalla Commissione Europea. Benefici ne hanno tratti solo i politici trombati in Italia e collocati nel Parlamento europeo, e gli attachés della classe politica divenuti burocrati e tecnocrati a servizio dei nostri partner concorrenti tedeschi, francesi, inglesi. Ma silenziosamente, sommessamente, la stampa italiana, che in questi 20-30 anni non ha mostrato un’autonomia di pensiero e di giudizio, comincia a riscoprire economisti come appunto Galbraith. C’era bisogno di andare a scomodarlo per far rivivere idee da lui espresse un quarto di secolo fa? E per farci sentir dire l’opposto, cioè quello che ci hanno già detto politici e governanti in carica italiani ed europei, ossia: «Per superare la crisi ricominciate a spendere, aumentate gli sprechi?». Ma tutto si può aumentare, anche le parole, tranne una cosa: le risorse finanziarie. Chi le ha e, soprattutto, chi è disposto a metterle, per aumentare i consumi e per non accollare alle future generazioni i costi degli sprechi attuali? Al massimo si può cambiare il significato di questa parola, ma con quale risultato?

 

 

 

Tags: Febbraio 2015

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