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LA RIPRESA ECONOMICA E IL GIOCO DELLE TRE CARTE

L'editoriale di Victor Ciuffa

 

Le previsioni sono molto difficili, soprattutto quelle che riguardano il futuro», diceva il Nobel della Fisica Niels Bohr, uno dei padri della moderna fisica quantistica. In Italia invece è arduo non soltanto prevedere, ma anche vedere, e dunque raccontare con un minimo di serietà quanto accaduto nel passato. Si pensi all’incredibile vicenda che ha avuto per protagonista l’Istituto nazionale di statistica, meglio conosciuto come Istat, quando all’inizio di marzo ha reso pubblico il dato definitivo sulla crescita del Prodotto interno lordo nel 2015.
Il 1° marzo Repubblica annuncia: «Leggera revisione del rialzo della crescita italiana nel corso del 2015: l’Istat ha rivisto il dato del Pil in volume al +0,8 per cento, mentre la stima provvisoria indicava un +0,7 per cento». Segue una breve cronistoria: «Inizialmente il Governo aveva posto un obiettivo del +0,7 per cento; poi si era sviluppato un certo ottimismo - anche grazie all’intervento della Bce - che aveva lasciato sperare in un risultato migliore, e l’aggiornamento del Def aveva portato l’asticella al +0,9 per cento. Il rallentamento economico globale, con il nuovo tracollo dei prezzi del petrolio e i chiari di luna dei mercati, avevano quindi fatto calare un pessimismo diffuso sulla fase finale dell’anno». Conclusione: «Il consuntivo non si discosta troppo dal punto di partenza, anche in considerazione del fatto che l’Istat ha rivisto i dati degli anni precedenti e questo si riverbera positivamente sul dato 2015».
L’ultima frase, di primo acchito chiara quanto i geroglifici della Stele di Rosetta, ingenera inquietudine: in pratica, l’Istat ha sovrastimato il Pil del 2014 (insomma si è sbagliato) e, avendolo ribassato («corretto»), la crescita del 2015 risulta relativamente maggiore di quanto prima stimato. Ma anche a voler incassare tacendo questo insperato «aiuto», molti addetti ai lavori si accorgono che i conti non tornano: lo stesso Istat, nel corso del 2015, dopo aver quantificato una crescita dello 0,4 per cento della produzione industriale, nei trimestri successivi ne aveva registrato il progressivo rallentamento: 0,3 nel secondo, 0,2 nel terzo e appena 0,1 per cento nell’ultimo trimestre. Da dove spunta fuori questo +0,8 per cento finale? Il dubbio comunque non sfiora, e dal punto di vista politico lo si può comprendere, i vertici dell’Esecutivo: «Il Governo mantiene i propri impegni, i dati sono incoraggianti e la crescita c’è», commenta a tambur battente il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan; mentre su Facebook (e dove altro sennò?) il presidente del Consiglio Matteo Renzi posta: «A inizio del 2015 avevamo immaginato la crescita del +0,7 per cento. La crescita è stata invece del +0,8 per cento. Meglio delle previsioni». E, perfido, conclude: «Il Governo Monti aveva chiuso con -2,3 per cento; il Governo Letta con -1,9 per cento».
Tuttavia la polemica monta finché cinque giorni dopo, il 6 marzo, l’Istat precisa in un comunicato che il Pil del 2015 corretto per gli effetti del calendario (cioè dei tre giorni lavorativi in più avutisi rispetto al 2014) è +0,6 per cento, a causa di «progressivo indebolimento» della crescita nel corso dell’anno. Il cerchio viene quadrato distinguendo fra dato «grezzo» (che non considera il calendario, anche se non si capisce perché) e dato, appunto, «corretto». Per cui ciascuno, a seconda della convenienza, può citare l’uno o l’altro senza con ciò, tecnicamente, mentire. Una versione algoritmica dell’eterno gioco italico delle tre carte. Di fronte a questo balletto, come non dare ragione al grande politico vittoriano Benjamin Disraeli, per il quale «esistono tre tipi di bugie: le piccole bugie, le grandi bugie e la statistica»? Quando Specchio Economico nacque 35 anni fa, l’idea originale che lo animava era - ed è rimasta - quella di cogliere gli aspetti economici che sottostanno a tutti i fatti della vita delle persone. Quelli veri, non quelli delle statistiche più o meno «corrette»; quelli cioè che gli economisti, con malcelata degnazione, chiamano la micro-economia. Un’impostazione che va contro il pensiero dominante, perfettamente incarnato dai centri studi che continuano a sfornare imperterriti previsioni o puntualmente smentite a stretto giro o, ed è ancor peggio, vaghe fino alla vacuità.
Un esempio? Il 26 febbraio il Centro studi di Confindustria ha pubblicato quella che, nel momento in cui scriviamo, è l’ultimo numero di «Congiuntura Flash», analisi congiunturale mensile dell’organismo di viale dell’Astronomia. Il giorno dopo Il Messaggero pubblica nel taglio basso di pag. 5 un articolo non firmato dal titolo: «Confindustria ottimista: ora la crescita si vede». In realtà il documento originale è assai più problematico delle conclusioni stentoree, soprattutto nel titolo, dal quotidiano romano.
In un italiano alquanto sofferto, di fronte alla «tempesta finanziaria» che ha investito l’economia e la finanza internazionali all’inizio del 2016 e «iniziato a intaccare la fiducia», Confindustria si chiede: «Cosa seguirà a questa pausa? L’affievolimento della crescita prelude a un ulteriore peggioramento o è momentaneo?». La risposta è la seguente: «In gennaio la produzione industriale è aumentata dello 0,9 percento, portando a +0,3 l’acquisito nel primo trimestre (su cui pesa lo -0,7 per cento in dicembre, attribuibile in parte a un problema di destagionalizzazione e correzione per le giornate lavorative)», per cui «si stima che la velocità di aumento del Pil italiano si rafforzerà nel primo trimestre 2016 rispetto a quella registrata nell’ultima frazione del 2015». E nel 2016 «la spesa delle famiglie italiane - che dalle vendite al dettaglio pare (pare?) aver chiuso male il 2015: -0,4 per cento in volume nel quarto trimestre - sarà sostenuta dai miglioramenti in atto nel mercato del lavoro».
Traduzione: le famiglie italiane hanno speso ancora meno, ma quest’anno andrà meglio grazie alle riforme del mercato del lavoro. Mercato nel quale però, riferisce Il Messaggero, a gennaio 6 dipendenti su 10 dell’intera economia nazionale sono in attesa del rinnovo contrattuale, vale a dire 8,1 milioni di lavoratori, di cui quasi 3 milioni di dipendenti pubblici.

Tags: Aprile 2016 Victor Ciuffa

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