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No che non sono Charlie

L'editoriale di Romina Ciuffa

 

Immaginiamo che Hitler non fosse stato un dittatore ma avesse avuto un giornale. Avrebbe potuto, così, permettersi di pubblicare, sul proprio periodico, vignette su ebrei nei forni e sul predominio della razza ariana. Questo si scontra con molte norme della nostra Costituzione, e non solo. Ma Charlie, oggi, avrebbe detto: la satira è satira. Perché questo ha fatto. Non ce l’abbiamo con i redattori francesi per aver insultato la fede di milioni di persone, né (se non nel nostro amor proprio) per aver disegnato gli abitanti di Amatrice come lasagne e pasta al gratè. Ce l’abbiamo perché hanno pubblicato tutto questo per avvalorare la loro libertà, esclusiva, immorale, ingiusta, di schiacciare la libertà altrui. Per aver creato un movimento mondiale in cui «Je suis Charlie» è divenuta una maglietta esattamente come il Che Guevara e la legalizzazione della marijuana, cose che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra, anzi, distorcono la realtà storica. Vogliamo legalizzare le droghe perché siamo «liberi di farlo»?
No che non sono Charlie. Charlie è qualcuno che, impiegando il genere della «satira», si arroga diritti che nessuno ha. Quelli di usurpare spazi di libertà altrui. Come quando, in classe, a scuola, si offende il proprio compagno e le maestre devono intervenire per insegnare certi valori. Ci vuole una maestra, in Francia e nel mondo: una super-maestra. Che l’informazione debba essere libera, così come il diritto di stampa, è pacifico. La «parresia» greca deriva etimologicamente dai termini pan (tutto) e rhema (ciò che viene detto), e consentiva ai cittadini delle polis a regime democratico di esprimere liberamente la propria opinione durante le assemblee che si tenevano nell’agorà. Si può dire tutto. Ma Platone, non l’ultimo arrivato, già aveva definito una parresia falsa, ossia una forma di opinionismo non costruttivo, non sapiente: voilà Charlie.
E non siamo in Giordania, dove Nadeh Hattar, scrittore e giornalista ateo, non ha fatto in tempo ad esser processato per aver condiviso su Facebook una vignetta intitolata «Il Dio di Daesh» (acronimo arabo dell’Isis), in cui si raffigurava il ministro delle Finanze Isis Abu Saleh, ucciso da un raid americano nel novembre 2015, nel dare ordini a Dio mentre è a letto con due donne: Hattar è stato raggiunto da un proiettile sulle scale del Tribunale prima ancora di esser raggiunto da una condanna per «diffusione di materiale inteso a insultare il sentimento religioso». Noi abbiamo l’articolo 21 della nostra Costituzione, che consente a tutti di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. E che aggiunge: la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni. L’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ribadisce: ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche, e senza considerazione di frontiera.
Come si inserisce la satira in questi diritti? Vi si arriva attraverso l’idea del «castigat ridendo mores», iscrizione del poeta latinista francese Jean de Santeul secondo cui, attraverso lo scherno, si può giungere ad una riforma dei costumi. Resta chiaro, per la giurisprudenza, che la satira non risponde ad esigenze informative, non ha rapporti di necessità e coincidenza con la verità del fatto, non può, se mira all’efficacia del messaggio, ubbidire a criteri di equilibrata espressione. Per la Cassazione penale, la satira può ricorrere ad un linguaggio simbolico, paradossale e svincolato da forme convenzionali; irridere chi esercita il pubblico potere, esasperando la polemica intorno a opinioni e comportamenti; non essere soggetta agli schemi razionali di verifica critica.
D’altro canto, la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Questo è l’articolo 2 della Costituzione, che anticipa i principi di uguaglianza formale e sostanziale del successivo articolo 3, il quale richiama i limiti di fatto alla libertà e all’eguaglianza dei cittadini che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Sul caso Charlie Hebdo, non possiamo soffermarci sulle libertà né sulla specifica libertà a farsi una risata, bensì dobbiamo prendere a riferimento la sostanzialità dell’essere e delle sue molteplici manifestazioni. Essere che sopravvive in una società libera sì, ma variegata, nella quale nessuno può salire con la macchina sopra un pedone solo perché costui non sta attraversando sulle strisce. C’è qualcosa di preterintenzionale nell’esercizio di certa satira. Dire la propria non è sinonimo di diritto. Dire la propria intelligentemente lo è. Resta fermo l’articolo 595 del codice penale - similmente alle corrispondenti norme degli altri Paesi democratici - che punisce colui che offende l’altrui reputazione, e ancor più alacremente se lo fa a mezzo stampa. Dire «satira» non vuol dire arrogarsi il diritto di offendere chiunque, trattandosi di una critica mordace (dal sarcasmo alla caricatura) verso aspetti o personaggi tipici della vita contemporanea che deve, comunque, rimanere in linea con le esigenze dell’individuo di sentirsi protetto nell’ambito di un sistema di riferimento.
Pubblicare un giornale oggi è pericoloso, si è soggetti a normative molto onerose. Il fatto di inserire un insulto, una provocazione, all’interno di una vignetta non salva il direttore responsabile né il vignettista, né salva coloro che a quell’idea si sono uniformati. Con l’entrata dell’Italia nel contesto prima europeo, poi mondiale, abbiamo visto accrescere i nostri diritti, ma abbiamo visto affievolire le nostre libertà. «Affievolire» come passo avanti verso la democrazia, verso l’accrescimento delle libertà stesse, sinonimo di convivenza in un mondo sempre più ampio dove le idee sono varie e vanno rispettate. Se non c’è presidente che possa cambiare la nostra Costituzione al di fuori dell’art. 138, non c’è vignettista che possa stabilire cosa sia l’inviolabilità dei diritti umani. E non c’è risata che possa essere trattenuta se un teatro, quello di Hebdo, che non vive nel nostro stesso mondo, cade a pezzi con la scusa di insegnarci le libertà attraverso una platonica parresia falsa mascherata da satira. Io non mi sento Charlie, mi sento più debitrice di quella super-maestra che si trovasse ad insegnare ai propri allievi cosa vuol dire ferire.

Tags: Ottobre 2016

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