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Eutanasia, dall’Italia la fuga dei cervelli senza corpo

Romina Ciuffa

L'editoriale di Romina Ciuffa

 

Prendiamo il punto di vista di un cachi. Non si può muovere, eppure può cadere, può farsi male, può essere mangiato. Ma non può scegliere di interrompere la sua vita. Di contro, può godere del fatto che vive nella natura, solitamente non in un ospedale, e che è un cachi, dunque non dotato di un sistema neuronale che lo renda capace di provare cognizioni ed emozioni. Tanto assumiamo. Lo stesso vale per una cicorietta, uno spinacio, una carota, qualunque vegetale. Tranne quello umano.

La prima differenza che si coglie tra quest’ultimo e il primo tipo è l’ateismo: mancando al cachi un apparato cerebrale, viene meno l’intellegibilità dell’ambiente circostante o un suo sviluppo in senso trascendentale. O almeno stimiamo. Uno spinacio vive. Un vegetale umano vive, sa, e trascende, quando consapevole, per dare un senso al suo passaggio terreno. Al vegetale umano non basta la Terra, al vegetale spinacio basta la terra. Un vegetale umano vive, “è saputo” ed è “trasceso” invece, come in un atto passivo, quando è in uno stato di incoscienza o di perdita delle capacità cognitive.
“Sono vivo e vegeto”, diciamo. Attributi che devono essere colleghi per soddisfare il medico, amanti per soddisfare l’individuo. Vegetazione non è vita, vita non è vitalità. Non quando l’individuo umano contrae malattie che lo rendono schiavo della sua data di morte, quando è destinato a rimanere in coma per anni indefiniti, quando è incastrato in un corpo immobile.

Eppure in un altro tempo, in un altro spazio, non si sarebbe posto il problema di tenerlo in vita: solo fino a pochi anni fa si moriva di acetone, oggi curabile con la Biochetasi. Il progredire della scienza, della tecnologia, persino della comunicazione, che danni ne ha provocati, ha fatto sì che non si possa più morire di acetone. Il che va a tutto vantaggio della vita umana, più garantita e protetta. Ma ha anche fatto sì che non si possa più morire. Oggi, 2017, in alcuni casi un cancro è curabile e c’è chi, senza arti, partecipa alle Paralimpiadi e mantiene un margine di forza e dignità che, variando da individuo a individuo, può essere isolato e accresciuto, sostituendo nuove competenze e capacità con le altre andate perdute. Anche la psiche fa la sua parte in ogni singolo caso.

Ma oggi, 2017, è possibile anche mantenere in vita chi, “altrimenti”, sarebbe morto. È questo “altrimenti”, è il condizionale “sarebbe”, che rendono problematica la questione eutanasica. Riflettiamo: anni fa, l’accanimento terapeutico nei riguardi di un “vegetale” non avrebbe fatto molta strada, se non quella che la ricerca e la scienza, in quel momento, consentivano, ben inferiore ai risultati raggiunti in seguito dal progresso. Ho imparato a comprendere le cose attraverso il paradosso, per tornare a normalizzare e relativizzare: così, alla Asimov, immagino un’eutanasia che, in un mondo futuristico ma molto prossimo, sia destinata ad essere l’unica scelta all’alternativa del “vivere-vegetando” per secoli. In un’evoluzione scientifica che corre e che porterà ad infinitivizzare ad libitum le possibilità di sopravvivere, chi potrà stabilire quando è il momento di morire per colui che è mantenuto in vita da una macchina? Chi dovrebbe scegliere l’età in cui fermare le cure? 70, 90, 110 anni? Quale compleanno dovrà essere quello definitivo? E perché non impiegare la criogenetica? Sarebbe possibile che il bambino paraplegico guardi all’insù la mattonella per un centinaio di anni, in perfetta forma in quanto alimentato, seguito, non fumatore: e, parlandogli, osservarlo crescere, sviluppare, invecchiare, morire o lasciarlo, se premorti, in eredità ai legittimari con un legato. Oppure “ucciderlo”, meglio detto, non accanirsi. A che età attivare la procedura della morte medicalmente assistita? Mosè avrebbe scelto di morire se fosse stato in coma? Zaratrusta? Gli antichi longevi pluricentenari? Rita Levi Montalcini cosa avrebbe scelto se a 20 anni fosse rimasta bloccata all’interno della sua lucidità e del suo genio, in un corpo immobile, senza possibilità di comunicare?

Tornando dal futuro, oggi facciamo i conti con la medicina che abbiamo allo stato attuale, quel “vorrei ma non posso” in grado di mantenere in vita “dead men not walking”, detenuti in un braccio della morte che altro non è che se stessi, “le mie prigioni” più mie, aventi una natura totalmente evanescente, l’interiorità, e guardie penitenziarie in camice con cui è inibita ogni comunicazione; quel “vorrei ma non posso” comunque non in grado di salvarli dalla condanna. E si aggiunge il crocefisso in cella, bigottismo religioso, per privare il soggetto della sua personale spiritualità. Non può parlare il politico, non può parlare il cattolico, non può parlare il benpensante a cena, nessuno può farlo; può parlare solo colui che, nella maggior parte dei casi, non può: il malato. Il quale, se legato alla vita, può condividere l’accanimento terapeutico, ma deve poter accedere alle cure ed avere le risorse necessarie per mantenerle. In un contesto pubblico deve avere la fortuna di essere accolto e seguito con amorevolezza, non come un vegetale. Deve seguire un percorso psicoterapeutico, se è cosciente e lucido, e con lui i suoi cari, che al pari sono da accompagnare in un lungo, esasperato percorso.

Pochi giorni fa un italiano, cieco e paraplegico, non riuscendo a grattarsi ma potendo parlare, ha descritto in un video il significato del verbo “prudere”, insegnandoci che il prurito non è per lui un’anticipazione di qualcosa di piacevole, conseguente all’azione del grattarsi, bensì una vera e propria sofferenza, la peggiore: il 39enne milanese Fabiano Antonioni, in arte Dj Fabo, ne parla (con difficoltà estreme nell’eloquio) per minuti interi, “voi non riuscite a capire cosa voglia dire attendere che ti passi quel prurito alla testa”. Così per grattarsi – cosciente, ragionevole, lucido – si è recato con la famiglia in Svizzera, a farsi uccidere. Porta con sé il suo corpo, che più suo non è ma di altri: dei famigliari, di chi gli sta vicino, dei medici, dei media, dei politici, dei religiosi, dei salotti.

Lo stesso accade a un altro italiano, in Svizzera Gianni Trez, 65enne veneto, è morto a Forch, un paesino a venti minuti da Zurigo, dove si trova “Dignitas”, la clinica del “fine vita”. Malato di tumore, la moglie ha dichiarato: “Costretti qui, da Venezia, per una fine dignitosa”. Lucidissimo. “E non è depresso. Abbiamo elaborato a lungo la scelta di venire fin qui. Anche io lo farei. A lui piaceva tantissimo vivere, ma è condannato e vuole morire senza soffrire in modo dignitoso. Perché la vita che ha fatto nell’ultimo periodo per lui non è dignitosa. Ormai pesa cinquanta chili, è costretto alla morfina tre volte al giorno. Il problema è proprio la prospettiva: se sapesse che tra cinque, sei mesi smetterebbe di soffrire allora non lo farebbe. Ma così no”. Servono almeno 10-15 mila euro, solo la la clinica chiede circa 11 mila franchi svizzeri. È il vero caso di fuga dei cervelli dall’Italia: perché di loro, e di molti altri, fugge solo il cervello, il corpo ridotto a un contenitore.

La morte non è una scelta teleogica, ma teleologica. Non serve collezionare le parole di Cristo sulla sofferenza né citare Dante che mette i suicidi in un girone dell’Inferno. C’è chi passa in coma un’intera vita, chi trascorre lunghi anni in stadio terminale. Sono i suoi genitori, figli, aventi diritto, ad ucciderlo nel caso di eutanasia? Sono loro, insieme al medico che li sostiene, i boia dell’accanimento terapeutico? Non in Oregon, non in altri Stati americani, né in Colombia o in Canada, non in altri Paesi in cui la morte medicalmente assistita è operativa. Si è assassini sempre o mai: questo è un concetto universale e la differenza di opinioni e regole, stridendo da Stato a Stato, da Paese a Paese, da religione a religione, da caso a caso, da persona a persona, da medico a medico, persino da malato a malato, non è altro che una conferma che l’eutanasia non è omicidio. L’omicidio è un concetto assoluto, universale, la morte è un effetto pratico prima che spirituale o teleogico. Ovunque è punito chi, con una pistola, uccide un passante. Ciò che muta è la sua valutazione ad opera del legislatore penale, ma sparare a un passante è omicidio in Oregon, in Africa, in Italia e nel sedicente Stato islamico. Un discorso a parte va fatto per l’aborto, lo stupro, l’omosessualità et altera, che cambiano forma e sostanza in ogni hic ed ogni nunc in quanto sono discussi su livelli diversi e hanno diverse implicazioni.

Se il “non uccidere” è universale, perché non si è universalmente concordi sul fatto che l’eutanasia integri la fattispecie di omicidio? Perché l’eutanasia è un concetto relativo, culturale, basato sullo spazio e sul tempo, e sulle evoluzioni umane della scienza; un concetto che dipende e, dipendendo, non ha validità intrinseca. Questa sua non assolutezza lo abbandona nelle mani della politica, della religione, dei progressi della medicina. Ciascuno deve essere in grado, o messo in grado se impossibilitato, di gestire un concetto relativo. “Tu lo faresti?” No. “Ma non sei malato”. Non possiamo immedesimarci, e questo limite non consente di utilizzare ideologie per dire: l’eutanasia no. Soprattutto in uno Stato come il nostro, dove la sanità è malasanità e fa più vittime che la guerra ma, come in guerra, non punisce i colpevoli.

E allora, se spinacio devo essere, se cachi devo cadere, voglio che mi si mangi quando sono maturo, non quando sono marcio, né quando non so più di niente.

Tags: Marzo 2017

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