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UNA MEDICINA PER I MALI D’ITALIA: IL BUON SENSO. NON SEMBRA, MA ANCORA C’è

L'editoriale di Victor Ciuffa

 

Non c’è affatto da meravigliarsi se, nell’anno appena trascorso, i consumi delle famiglie e delle imprese sono diminuiti notevolmente. Molti fattori, reali e psicologici, hanno contribuito a provocare questo, a mettere in moto conseguenze a cascata, del resto scontate in un fenomeno del genere. Conseguenze in tutte le attività economiche, anche in quelle apparentemente più distanti dai consumi della massa. Ad esempio nel settore dei brillanti o degli yacht, acquistati da chi non ha certo problemi finanziari anche dopo il pagamento dell’Imu risorta e maggiorata rispetto all’Ici, dopo il taglio in stipendi, salari e pensioni, dopo gli aumenti delle tariffe di elettricità, gas e acqua, dei prezzi dei prodotti petroliferi e di beni vari, dopo le riduzioni di fatturati, guadagni e profitti. C’è piuttosto da meravigliarsi se un fenomeno del genere, una stagnazione se non proprio una recessione dell’economia, non era stata prevista da economisti e governanti. I quali governanti, nei soli tre mesi di giugno, novembre e dicembre, tra acconti e saldi di Imu e nuove imposte, hanno sottratto alla circolazione una massa di vari miliardi, destinata certamente ad essere reimmessa sul mercato ma molto più lentamente.

Ritrovandosi nel portafoglio una minore quantità di denaro, forzatamente famiglie e imprese hanno dovuto eliminare alcuni consumi, rinunciare ad alcuni servizi.Se moltissimi l’hanno fatto perché costretti dalle ridotte disponibilità finanziarie, altri, non soggetti a questa indisponibilità anzi avendo consistenti risparmi e patrimoni, hanno preferito però tenerli fermi, immobilizzarli in depositi bancari e postali, astenersi dall’avviare nuove iniziative di qualsiasi genere, nell’incertezza della situazione e soprattutto del rientro dei capitali investiti e degli eventuali, relativi profitti.

Buona parte della frenata nei consumi è dovuta pertanto a cause reali, buona parte a cause psicologiche. Intere categorie se ne lamentano: innanzitutto i commercianti, doppiamente colpiti dallo tsunami fiscale riversatosi sia sulla loro categoria, sia sulla loro clientela sotto forma di imposte sulle abitazioni, sugli affitti, perfino sugli edifici rurali che, nel passato, ne erano stati sempre e giustamente esenti.

Ma esiste anche una categoria che, pur colpita dagli inasprimenti, pur dovendo sborsare consistenti somme, restringere le spese, affrontare certi sacrifici, è convinta che la politica del rigore non sia ancora sufficiente, che non abbia raggiunto ancora un auspicabile e benefico traguardo sia per risollevare l’economia in generale, sia per modificare il comportamento seguito negli ultimi decenni dagli italiani, diseducati dall’esempio di una certa classe politica e dirigente.

Non di rado pertanto si sente parlare, tra la gente, della necessità di proseguire il rigore instaurato dal Governo Monti, di costringere le masse a tornare alle abitudini di una volta, a ripristinare i valori che caratterizzavano un tempo la popolazione.

Quelli della previdenza, del risparmio, della sobrietà, della prevalenza della cultura sull’evasione, sul divertimento e sullo spettacolo; valori via via soppiantati dal consumismo, dall’edonismo, dal parassitismo e dall’assenteismo. Tutti «ismi» frutto del benessere sia pure relativo raggiunto, del lavoro duro e appassionato dei primi decenni del dopoguerra, e al quale si dovette la rapida ricostruzione dell’Italia, il miracolo economico, addirittura il «boom».

Certamente, con tutta la disoccupazione esistente, con migliaia di imprese chiuse o in difficoltà, con tante persone anziane affidate o meglio abbandonate alle condizioni consentite da pensioni risibili, con un’inflazione che, nonostante la stagnazione, continua a salire, è assolutamente impopolare un programma del genere; se venisse attuato veramente, potrebbero crearsi problemi di ordine pubblico, proteste, scioperi, disordini di piazza. Il fine - tornare agli anni 50 o 60 -, potrebbe essere per alcuni aspetti suggestivo, ma sarebbe difficilmente raggiungibile, anche perché per cambiare le abitudini di una massa di italiani occorrerebbe una terapia ancor più drastica di quella prescritta dal prof. Monti; si dovrebbe estirpare o attenuare la convinzione diffusasi negli ultimi decenni di vivere nel Paese di Bengodi, ossia di vivere nell’abbondanza senza corrispondentemente lavorare.

Ma questo è un quadro pessimistico dell’attuale situazione italiana.

Perché esiste ancora molto del buono: la voglia di lavorare è dimostrata dalle centinaia di migliaia di piccole imprese che chiedono ai politici solo di essere messe in condizione di operare; da decine di migliaia di giovani volenterosi, precisi, attenti, preparati, i quali non chiedono altro che di essere impiegati; da altre categorie, persone e ambienti della società che ancora ragionano con il buon senso, che amano la famiglia e il prossimo, che operano nel volontariato e nel mondo della solidarietà, che non scalpitano e non sgomitano per arraffare posti e privilegi pubblici, che si tengono accuratamente lontani da criminalità, droga, malaffare, immoralità, corruzione.

L’immagine reale di questa Italia non emerge certamente dalla televisione, che purtroppo oggi monopolizza il tempo libero delle famiglie, che diffonde idee, principi ed esempi contrari ai valori sopra descritti, nella rincorsa all’audience e nella frenesia di «fare cassa». Le elezioni sono vicine. I talk show televisivi dei politici all’esasperata ricerca del consenso, anziché chiarire idee e programmi, aumentano la confusione e il disorientamento degli elettori. Tranne i miracolati della politica passata, per strada gli italiani si chiedono l’un l’altro per chi votare. Verrebbe da rispondere: votare per il buon senso, per chi ha manifestato e continua a manifestare di avere ancora un po’ di buon senso.

Tags: Gennaio 2013

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