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CARO PRESIDENTE, ANCHE LEI è SVEGLIO COME ME, STANOTTE?

Caro Presidente - e di Presidente ce n’è uno solo -, sono qui a scriverLe come una semplice cittadina quale sono. Le cose sembrano andar male in Italia e nel mondo. Siamo tutti tormentati da immagini di guerra e di violenza che sono sempre esistite ma che, ora soprattutto, finiamo per vedere anche nei sogni. Non Le nascondo, signor Presidente, che faccio fatica, a volte, ad addormentarmi. Chi mi conosce sa che non ho mai dormito sonni tranquilli: sarà per la mia irrequietezza, dicono, ma in questo periodo è, singolarmente, una delle cose che mi accomuna a tanti altri. E sono convinta che anche Lei, allora, ha qualcosa in comune con me. E se prima ero strana, quando non prendevo sonno e trascorrevo intere notti nel pensatoio, ora non lo sono più. Diciamo che sono entrata nella media.
Sono certa che anche Lei non dorme tranquillo. Tutti penseranno che nella ricchezza si fanno sonni ininterrotti e non si hanno incubi. Ma io so che anche a Lei è capitato di svegliarsi sudato, nella notte, con qualche incubo nella testa che lì per lì non riesce a ricordare. Probabilmente la ricchezza non è tutto. Addormentarsi mentre qualche speaker, alla televisione, parla di sangue non è facile per nessuno. Il sangue c’è sempre stato, ci scorre nelle vene, rosso o blu, ma a vederlo così, sempre, dappertutto, e sentirselo ripetere nel dormiveglia, non è facile. Ti rimane attaccato alla retina quel colore rosso che per un toro significherebbe morte certa in pochi attimi e applausi di un pubblico pagante.
Per noi no, signor Presidente. Non siamo tori, non lo siamo mai stati, e ciò ci distingue dagli animali, a volte. Per questo è insopportabile sentire urlare il pubblico perché ti uccidano, e poi vederlo straziarsi se è il torero a morire. Sarà stato forse più facile per coloro che, nelle prime due guerre mondiali, ascoltavano poche frequenze radio e non godevano di effetti speciali. Anche se, uscendo di casa, a volte si trovavano a dover scavalcare i corpi caduti di alcuni conoscenti o a giocare con le bombe distrattamente lasciate dai soldati per le strade. O ad avere addosso cicatrici indelebili di cui ancora portano il segno e di cui narrano ai propri figli i quali, sempre sbadigliando, sono costretti ad ascoltare mentre pensano a cosa indossare per la serata. Non erano le bombe di oggi, quelle: erano bombe che esplodevano e il sangue scorreva. Le bombe di oggi, invece, non le senti nemmeno esplodere mentre le vedi piegarsi ad altri scopi. La guerra c’è sempre stata, ma ora è radioattiva, ora è nucleare. Ora le sue onde si propagano sino ai nostri cervelli anche attraverso le immagini. Sarà che adesso mi trovo a New York e guardo un cantiere che prima quasi toccava il cielo. Lo sa che anche io ho una gemella?
È proprio vero, signor Presidente, che occhio non vede e cuore non duole. Sono certa che il Suo occhio vede e il Suo cuore duole. È difficile accettare tutto questo e so che lo è anche per Lei. Non manca giorno in cui non ci si chieda chi sarà il primo a morire o a lasciarsi esplodere una bomba addosso. Non manca giorno in cui non ci si domandi, infilando un piede nella metropolitana, se sarà sicura o se non sarebbe stato meglio pagare l’assicurazione dell’auto, per quanto troppo costosa. Non manca giorno in cui non assistiamo allo strazio. Non passa notte in cui il cuore non si faccia ancora più rosso e grosso e non mi lasci dormire.
Scriveva al proprio Presidente l’autore francese Boris Vian, il disertore, che in guerra non ci voleva andare perché non era lì per ammazzare la gente più o meno come lui, e che avrebbe gridato a tutti di non partire più e di non obbedire per andare a morire «per chi non importa». Un altro che non riusciva a dormire. «E dica pure ai suoi–aggiungeva–se vengono a cercarmi, che non sono armato e che possono sparare».
Sono aumentati gli attacchi di panico, lo dicono i dottori, lo confermano le statistiche: ci sarà un motivo. Lo stress, il duemila, il lavoro, le pensioni, il traffico, la durezza della società, la sordità. Lei ha mai avuto un attacco di panico, caro Presidente? A volte mi chiedono cosa voglia dire, e non c’è occasione in cui io non ripeta: solo chi l’ha provato almeno una volta può capire cosa sia. Altrimenti non è qualcosa che si possa spiegare a parole. Nemmeno un neurologo potrebbe far comprendere, a chi non l’ha mai avuto, cosa esso rappresenti. È qualcosa che supera in picchiata la paura ed entra nella pelle, sino all’animo, e vibra quasi ad ascoltare la morte, e si dipinge di un rosso infrangibile.
Ci siamo persi tutti, e la strada è difficile da ritrovare. Stavolta Pollicino non aveva pane da seminare o qualche spavaldo uccello ha già mangiato ogni briciola che ci riporti a casa. Siamo fortunati ad essere nati ora? O forse sarebbe stato meglio bruciare con Nerone, o pasteggiare con i dodici Apostoli? Chissà. Anch’essi hanno visto qualcuno tradire e qualcun altro morire. È macabra la vita, vista da questa prospettiva, vissuta da quaggiù.
Si potrebbe salire su uno shuttle in partenza da Houston con Roberto Vittori e guardare meglio il nostro pianeta, chiedersi perché l’acqua non cade e perché a stare nell’emisfero sud non venga mal di testa. Ma non si può. Si vedrebbe, però - questo è certo - un mondo blu e verde, e il rosso lo si potrebbe lasciare solo ai pittori. Questa notte spero di fare sogni d’oro, e non di rosso. Buonanotte, signor Presidente. E se non riesce a dormire, stanotte, mi chiami. Lascerò, per Lei, il telefono acceso.

Tags: Romina Ciuffa anno 2004

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