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Domenico de Masi: il Brasile non è il migliore dei mondi

Domenico de Masi

Per la crisi dell’Occidente l’antidoto è il modello brasiliano: «Dopo aver copiato il modello europeo per 450 anni e il modello americano per 50, adesso che entrambi i sistemi sono in crisi e ancora non ne esiste uno nuovo per sostituirli, è arrivata l’ora del Brasile di proporre un modello per il mondo». Il sociologo di Rotello Domenico De Masi affronta la questione, nel libro «Mappamundi. Modelli di vita per una società senza orientamento», ipotizzando che non sia la realtà a essere in crisi, bensì i modelli esplicativi e interpretativi a disposizione: le categorie mentali ereditate dall’epoca industriale non sono più capaci di spiegare il presente e portano a diffidare del futuro, tra disorientamento e paura, e strenua è la ricerca di un nuovo modello. Per De Masi è proprio il Brasile a presentare il modello che, meglio di altri, risponde alle esigenze contemporanee, poiché gli antagonismi sincretici nella brasilianità, che è il risultato della storia antica e tragica di un grande Paese che ha saputo metabolizzare il processo di equilibrio di molti conflitti intestinali: tra cultura indigena, europea e africana, tra pastorizia, economia agricola ed estrattiva, tra schiavitù e libertà, tra eresia e cattolicesimo. La soluzione è nella mescolanza delle diversità, che ha predisposto il brasiliano all’incontro immediato con gli altri.


Le contraddizioni sono anche nei seguenti assunti: il Brasile è grande quasi quanto la Cina ma è una democrazia. Il Brasile è quasi tre volte più grande dell’India ed ha quasi lo stesso numero di etnie e religioni ma vive in pace sia al suo interno sia con i Paesi limitrofi. Il Brasile è quattro volte più grande della zona Euro ma ha un unico Governo e parla la stessa lingua. Il Brasile è il Paese con il maggior numero di cattolici ma dove la popolazione vive in maniera pagana. Il Brasile è l’unico Paese nel mondo dove la cultura mantiene ancora oggi caratteristiche di solidarietà, sensualità, allegria e accoglienza. Lo dichiara De Masi sul quotidiano «Folha de S. Paulo».
Ha elaborato la teoria dell’ozio creativo, necessitato nella società post-industriale di cui ha formulato il paradigma. Cita Artur Rubinstein, che spinto a riposare rispondeva: «Riposarsi? Riposarsi di che? Io, quando voglio riposarmi, viaggio e suono il piano». L’ozio è brasiliano molto più che occidentale, l’ozio creativo è un concetto più amplio ancora. Ciò avvicina De Masi alla stessa genetica brasiliana: l’armonia, la tranquillità, anche quella «baianità» che fa scorrere il tempo più cauto (e proprio alla Bahia del Nord Est fa riferimento nel suo libro, regione lenta ma produttiva delle più grandi levate artistiche, religiose, culturali). Cita Joseph Conrad: «Come faccio a spiegare a mia moglie che, quando guardo dalla finestra, io sto lavorando?».


«Riomano» anche De Masi. Nato in Molise, cresciuto in Campania e in Umbria, ha insegnato ininterrottamente dal 1961 ad oltre 5 mila studenti; ha fondato la S3.Studium, scuola di specializzazione post-lauream in scienze organizzative, per supplire alla mancanza di master universitari e senza scopi di lucro, oggi società di consulenza; ha organizzato presso la facoltà di Scienze della comunicazione, di cui era preside, il Master in Comunicazione ed Organizzazione; è stato assessore alla cultura e al turismo del Comune di Ravello (1994-1995) rilanciando il Ravello Festival e, presidente della Fondazione Ravello, ha condotto una tenace battaglia per la realizzazione dell’Auditorium dell’amico brasiliano Oscar Niemeyer, che gliene aveva regalato il progetto. Ha tenuto conferenze e svolto ricerche in Brasile, dove molti suoi libri sono tradotti e il suo pensiero è diffuso. Nel 2010 la città di Rio de Janeiro gli ha conferito la cittadinanza onoraria. In Brasile ha stretto amicizia, tra gli altri, con Roberto d’Avila, Cristovam Buarque, Ellen Gracie, Jaime Lerner, Roberto Irineu Marinho, Luis Henrique da Silveira, Ivo Pitanguy.


Domanda. Lo Studio De Masi lavora molto con il Brasile?
Risposta. Parecchio. Ora stiamo pubblicando una ricerca su come evolverà la cultura brasiliana da qui al 2030 e ci stiamo occupando di pianificazione territoriale nello Stato di Santa Catarina.

D. Come mai ha la cittadinanza di Rio de Janeiro, è commendatore dello Stato di Rio Branco ed è stato insignito della medaglia Anita Garibaldi, la brasiliana eroina dei due mondi?
R. Credo perché molti miei libri sono tradotti in portoghese, ho fatto numerose interviste ed ho sempre avuto con il Brasile un rapporto rispettoso, a differenza dei molti che instaurano rapporti quasi «colonialisti». Per me è sempre stato una grande potenza: della natura, della bellezza, della cultura, della politica, dell’economia. Non ho mai pensato al Brasile come a un Paese del terzo mondo, tra l’altro il suo prodotto interno lordo è al settimo posto mentre il nostro al decimo: ha superato Italia, Inghilterra e Germania. Ne ho sempre stimato i valori. Ho pubblicato almeno una decina di libri in Brasile, in particolare «Ozio creativo» è piaciuto molto e si continua a vendere, quando uscì restò nella top ten brasiliana dei libri più venduti per 56 settimane e furono seguite anche le molte trasmissioni televisive ad esso collegate. Credo proprio che sia questo aspetto di reciproca stima la causa della mia cittadinanza carioca. Per 26 anni in Italia, a Ravello, ho organizzato un seminario che ha ospitato i più grandi brasiliani, dall’ex presidente Fernando Henrique Cardoso all’imprenditore Roberto Irineu Marinho, all’economista Pérsio Arida, all’ex ministro della Salute José Serra, formando un ponte tra i due Paesi. E sono stato molto amico del grande architetto Oscar Niemeyer, che mi ha regalato il progetto dell’Auditorium di Ravello.

D. Henry Ford scrive: «Quando lavoriamo dobbiamo lavorare, quando giochiamo dobbiamo giocare. Quando il lavoro è finito, allora può venire il gioco, ma non prima». Lei ribalta questo ragionamento nella società postindustriale.
R. Oggi che la maggior parte della fatica manuale è eseguita dalle macchine, ci è richiesto di essere più fantasiosi e innovativi. Si marcia verso un futuro in cui, grazie alla tecnologia, potremo gestire nella maniera più efficace lo spazio e il tempo. L’ozio creativo non è pigrizia o disimpegno, ma quello stato di grazia comune a molte attività intellettuali, che si determina quando le dimensioni fondamentali della nostra vita attiva - lavoro, studio e gioco - si confondono consentendo l’atto e il prodotto creativo.

D. Non è più un concetto brasiliano?
R. Si avvicina molto alla capacità brasiliana di tradurre in fatto ludico anche il lavoro. Per per me ozio creativo non è fare nulla per pigrizia, bensì fare un lavoro divertendosi e imparando. È l’insieme di apprendimento, lavoro e benessere, e questa è l’aspirazione dei brasiliani: fare le cose senza pesantezza, in modo leggero. Il popolo brasiliano possiede una grande saggezza e costituisce una delle due grandi riserve umanistiche del mondo, accanto all’India. In Brasile essa è molto corporale, in India è spirituale. Sono i due grandi polmoni umanistici rimasti nel mondo.

D. Brasile ed ozio creativo: dove?
R. Nel libro mi domando in quale parte del mondo mi piacerebbe realizzarmi attraverso l’ozio creativo. Penso allo Zaire, l’Africa, la Cina, poi concludo che mi piacerebbe realizzarmi a Bahia. Il libro finisce con un’opzione nei confronti della Bahia descritta da Jorge Amado.

D. E perché Bahia?
R. Il Brasile ha cambiato storia ogni 100 anni, basandola ogni volta su produzioni diverse: caucciù, cacao, caffè. Salvador è stata una grande capitale in cui si è realizzato al massimo il meticciato tra portoghesi, indios e africani, e la regione baiana è il luogo deputato del meticciato mulatto, parte notevole della storia brasiliana, che ho studiato a fondo fin dall’inizio tramite i mentori del Brasile. Se noi abbiamo avuto mentori come Gioberti e Cattaneo, che si sono inventati l’Italia, solo fino all’800, i mentori brasiliani sono vissuti dagli anni 30 fino a oggi.

D. Non ha mai visto il Brasile in un’ottica colonialista. In che senso?
R. Gli italiani pensavano, e pensano, di trovare il terzo mondo, ma il Brasile è più «primo mondo» di noi; San Paolo è una città modernissima con grattacieli e originalità; i brasiliani hanno idee straordinarie, per esempio stanno mettendo in sistema tutta la Via Paulista per farne una grande esposizione sul meglio del Brasile. Nel campo dell’educazione, attuano progetti come la «borsa famiglia», lavorano con le scuole e l’alfabetizzazione delle favelas, un’operazione grandiosa che in Italia ci sogniamo.

D. L’alfabetizzazione è ancora molto bassa in Brasile. Come può dire che è un Paese di «primo mondo»?
R. Il mondo attuale è un mondo diseguale, in cui 85 persone hanno la ricchezza di 3 miliardi e mezzo di persone. L’ineguaglianza non è un fatto brasiliano bensì mondiale: nel Brasile è molto forte la disparità ma lì, come in Cina, la disparità si è accorciata, mentre in tutto il resto del mondo si è ampliata. In Italia i primi 10 ricchi nel 2008, anno in cui è scoppiata la crisi, avevano la ricchezza di 3 milioni e mezzo di italiani; oggi, dopo 6 anni, hanno la ricchezza di 6 milioni di italiani, una ricchezza raddoppiata, ma sono raddoppiati anche i poveri. Nel frattempo invece, in Brasile c’è stato il passaggio di 18 milioni di persone dal sottoproletariato al proletariato, 12 milioni dal proletariato alla piccola borghesia, 9 milioni di persone dalla piccola alla media borghesia. Le distanze ancora ci sono, ma almeno 50 milioni di brasiliani l’hanno ridotta, mentre in Italia i poveri sono cresciuti.

D. Infatti adesso molti italiani vivono il Brasile in un’ottica da «nuova America», una sorta di «Brazilian dream».
R. Certo, anche perché è più vicino a noi rispetto agli Stati Uniti, si parla una lingua neolatina che ci somiglia molto più dell’inglese, ed ha condizioni climatiche favorevoli. Ciò rende la migrazione meno dolorosa rispetto a quella del Nord America. Tra l’altro il Brasile è stato sempre più accogliente, ne fanno parte 47 etnie diverse, c’è stato sempre il meticciato ed è stata proprio questa la capacità che i primi mentori brasiliani hanno intravisto: essere meticci non è, come pensava Hitler, una debolezza, ma una grande forza. Significa confluenza di culture, una mescolanza prodigiosa; ciò ha dato loro una minore forza d’urto, il brasiliano non è mai aggressivo, la violenza deriva da altri fattori, come quelli presenti nelle favelas, non è una violenza di tipo occidentale originata da una cultura basata sulla competitività.

D. Ha scritto «La negazione urbana. Trasformazioni sociali e comportamento deviato a Napoli». Vede collegamenti con il Brasile?
R. No, sono due tipi diversi di devianza. La criminalità organizzata che c’è nel Sud d’Italia è un unicum, che abbiamo anche esportato ma senza riuscirvi in Sud America. Chissà perché.

D. Il Brasile è un insieme di religioni e vita pagana; come possono convivere?
R. Non si può avere mescolanza senza tolleranza.

D. Anche in America del Nord è così?
R. No, in America vi sono chiese per bianchi e chiese per neri, in Brasile una cosa del genere non esiste, c’è un abisso tra il Nord e il Sud dell’America: il primo resta fortemente razzista. Non voglio dire che il Brasile non sia razzista, ma lo è molto meno. Il rapporto tra classi sociali è estremamente più cordiale: provengono dalle favelas le domestiche delle case dei ricchi, e il rapporto tra una cameriera e la sua padrona non ha niente a che vedere con il suo correlato italiano. Ma è un paragone difficile, perché l’Italia non ha favelas.

D. La cameriera che va a fare i lavori in città - e «in città» può voler dire nella casa a fianco - va solo per tale ragione e non esce dalla favela se non per questo.
R. La vita varia molto da favela a favela. In una favela di Salvador abita anche Carlinhos Brown, uno dei cantanti brasiliani più famosi, che vi ha creato una casa discografica e una band e sta riscattando la favela attraverso la musica; nella favela c’è una forte solidarietà e la sua vita è difficile da abbandonare. È inoltre una povertà diversa da quella che c’è a New York: in Brasile fa caldo, non c’è pericolo di morire assiderati o di fame, un frutto lo si trova sempre.

D. La mitizzazione di certi personaggi, più facilmente musicali, come Chico Buarque, Caetano Veloso, Gilberto Gil, intoccabili dèi: cosa ne pensa?
R. Aggiungerei alla lista Oscar Niemeyer: il giorno del suo centesimo compleanno, nella favela della Rocinha è comparso uno striscione immenso: «Auguri al nostro fratello Oscar», e i tassisti indicano al passeggero dov’era il suo studio. Sulla mitizzazione musicale ci sono da dire due cose: una è che le canzoni di questi artisti non sono normali, ma straordinarie. Parlo delle canzoni che sono passate a livello di massa, le parole sono spesso di grande poesia e le si ritrova nei libri scolastici. Poi, la musica in Brasile ha avuto una funzione formidabile nell’opposizione alla dittatura, tanto è vero che alcuni artisti sono stati detenuti in carcere ed esiliati. Una funzione simile a quella avuta in Italia da Giuseppe Verdi, il cui cognome venne anche letto come: «Vittorio Emanuele Re D’Italia». Si tratta, nei due casi, di colonne sonore del patriottismo. La storia del tropicalismo è strepitosa: dopo la modernizzazione e i grandi movimenti degli anni 20 e 30, la canzone brasiliana ha assunto un ruolo nazionale ed eroico accompagnando la liberazione dalla dittatura.

D. Ha scritto che l’Italia, dopo aver elaborato, praticato e offerto per duemila anni un modello classico, è stanca e non riesce a proiettare il futuro, pregnata di una decadenza autodistruttiva. E ha parlato di un nostro tentato suicidio con Mussolini, quindi di un suicidio comico con Berlusconi e Grillo. Cosa aggiunge?
R. Distinguo Berlusconi da Grillo. Berlusconi lo considero un caso mondiale, il primo in cui chi è diventato capo dello Stato lo è diventato non perché è un grande proprietario terriero, come avveniva un tempo, o perché è un grande proprietario di fabbriche: è l’unico caso nella storia del mondo in cui un capo di Stato è anche proprietario dei mezzi di comunicazione. Ne parlo in un intero capitolo del mio ultimo libro, «Tag».

D. «Only in Italy» verrebbe da dire.
R. Senza dubbio è una nostra particolarità, abbiamo sperimentato una cosa che altri non hanno sperimentato ancora, ma vediamola in senso positivo: diciamo che è «merito nostro».

D. L’Italia può essere da esempio?
R. Già lo è. Tanti italiani in Brasile hanno fatto grandi cose, hanno portato la cultura del vino, la spinta verso il design, la moda, il made in Italy. L’Italia è stata molto utile per il Brasile come punto di riferimento latino non conflittuale: noi non siamo il Portogallo che li ha dominati, siamo neutrali.

D. C’è stata (ci sarà?) molta violenza relativa ai megaeventi, anche perpetrata dalle stesse autorità, argomento del quale Rioma ha parlato in alcuni reportage pubblicati sui numeri di Specchio Economico da settembre 2014. Cosa ne pensa?
R. Il Brasile è ora palcoscenico di manifestazioni tutt’altro che violente, anzi, straordinarie perché stanno a significare che il Paese sta prendendo atto del fatto che vuole ridurre le distanze tra ricchi e poveri, che occorre risolvere i problemi dell’analfabetismo, della violenza, della corruzione, e tutti i problemi dei quali per la prima volta si sono fatti carico le masse, soprattutto studentesche, che hanno guidato questi grandi movimenti dal giugno del 2013, e che hanno anche ottenuto parecchio. È un aspetto della maturazione del Brasile.

D. Pensa che questi investimenti per i megaeventi siano giustificati?
R. Moltissimi dei soldi impiegati per le Olimpiadi vengono da fuori, non sono risorse dirette e tolte alla scuola o alla sanità. Nella scuola il Brasile spende molto ed è uno dei Paesi in cui l’evasione scolastica è molto bassa. Dalla presidenza Cardoso in poi, l’istituzione della «borsa famiglia» è stato un punto d’attacco forte sia di questo che dei precedenti Governi. C’è una consapevolezza crescente da parte delle masse che questi problemi sono fondamentali e che si risolvono con l’impegno attivo di tutta la popolazione.

D. E tutti quegli sgomberi coatti delle Autorità a scapito delle comunità delle favelas, e non solo?
R. Di recente a Curitiba hanno sparato e ferito su 120 professori durante una manifestazione. Purtroppo ci sono reazioni eccessive. Eppure ricordano i fatti italiani della scuola Diaz avvenuti durante lo svolgimento del G8 di Genova nel 2001 con decine di contusi.     n

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