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*SPECIALE UNIVERSITÀ* Eugenio Gaudio: un futuro internazionale per l’ateneo capitolino

Il professor Eugenio Gaudio, Rettore dell’Università Sapienza

Ha da poco tagliato il traguardo del suo primo anno da rettore del più grande ateneo d’Europa, la Sapienza Università di Roma. Eugenio Gaudio, 59 anni e due figli, calabrese di Cosenza, si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 1980 nella stessa università che oggi dirige. Amante della musica, si è diplomato nel 1979 nel conservatorio de L’Aquila in pianoforte principale e, nella Sapienza, dal 2006 al 2010 è stato presidente della commissione Musica Sapienza, che coordina il progetto delle orchestre e dei cori dell’ateneo. Il 3 ottobre 2014, dopo la sua elezione a magnifico rettore, ha festeggiato suonando la «Polacca eroica in la bemolle di Chopin». Specializzatosi in medicina interna nel 1985, Gaudio è stato ricercatore di anatomia umana dal 1983 al 1986 e professore nell’università de L’Aquila dal 1987 dove, dal 1997 al 2000, è stato preside della facoltà di Medicina e Chirurgia, mentre dal 2000 è diventato docente ordinario di anatomia umana della Sapienza. Con un interesse particolare per le malattie del fegato, dal 2001 ha coordinato il dottorato di ricerca in epatologia sperimentale e clinica. Tra le altre dirigenze, dal 2013 ha diretto Epatogastroenterologia sperimentale e clinica, dal 2011 il corso di laurea International Medical School, dal 2008 al 2010 il dipartimento di Anatomia umana. Dal 2010 ha ricoperto la carica di preside della facoltà di Farmacia e Medicina e di presidente della Conferenza permanente delle facoltà e scuole di Medicina e Chirurgia italiane.

Chiediamo al rettore un bilancio, dopo un anno di lavoro nell’università Sapienza.

Domanda. Tra poco si celebreranno i 713 anni della fondazione della Sapienza, il più grande ateneo d’Europa, tra i più grandi al mondo e che, nel 2014, ha portato alla laurea 19.280 studenti con una votazione media di 102/110. Cosa rappresenta la Sapienza in Italia e all’estero?

Risposta. La Sapienza, la più grande università italiana ed europea, oggi ha un compito difficile al quale si dedica quotidianamente: quello di coniugare quantità e qualità. Come numeri, infatti, ha oltre 115 mila studenti di cui 7-8 mila di provenienza estera, cosa che la qualifica come grande ateneo internazionale. La qualità, poi, della ricerca scientifica la pone tutt’oggi nei ranking internazionali come la prima delle università italiane. Il nostro interesse è nel migliorare costantemente in entrambi i campi, e avere un livello qualitativo molto alto con investimenti nella ricerca e sui giovani, che nonostante i tagli degli ultimi anni abbiamo potenziato. Aumenteremo quest’anno, anche se di poco, gli stanziamenti per la ricerca, per i dottorati e per i giovani che vi si dedicano, il vero motore del futuro.

D. All’inaugurazione dell’anno accademico lei ha dichiarato che in tutti i Paesi europei si è registrato un aumento della quota di popolazione in possesso di un titolo di istruzione di terzo livello, ma la crescita osservata in Italia è tra le più lente in Europa poiché, con il 14 per cento dei laureati nella popolazione in età compresa tra i 24 e i 64 anni nell’anno 2013, l’Italia si colloca nel terzultimo posto. Quali sono le ragioni?

R. Negli ultimi 20 anni c’è stata una scarsa attenzione verso la formazione superiore che si è concretizzata in tagli drastici, ma anche da un punto di vista culturale in Italia la formazione universitaria spesso non è presentata per quel grande valore aggiunto che è. Ultimamente si è diffusa una grande forma di sfiducia, magari pensando che non sia necessario studiare per poter lavorare. Invece tutti i dati ci dicono il contrario. Gli ultimi rapporti dimostrano che studiare consente di trovare prima lavoro, anche meglio retribuito. Per affrontare una società globalizzata ed internazionalizzata occorrono, infatti, sempre maggiori conoscenze: l’obiettivo dell’Europa è il 40 per cento di laureati nella popolazione fino ai 35 anni, ma in Italia siamo di poco sopra al 20 per cento.

D. Quali risorse lei ha a disposizione annualmente?

R. Un miliardo di euro è il bilancio annuale della Sapienza. Riguardo alla sua ripartizione, ci sono delle partite fisse su cui c’è poco da decidere e che riguardano gli stipendi dei 4 mila docenti, dei 4 mila tecnici amministrativi e di altri mille sociosanitari. A questi si aggiungono le normali spese di gestione dei servizi come, ad esempio, luce e manutenzione. Rimane una piccola parte di bilancio mobilizzabile con la quale finanziamo dottorati di ricerca ed investiamo, sia migliorando la qualità dei servizi per gli studenti che dotando l’ateneo di infrastrutture sempre più moderne e all’altezza dei tempi. Abbiamo anche acquisito un’università telematica per partecipare alla formazione a distanza.

D. In merito alla formazione dei medici, a luglio lei ha dichiarato che il primo punto su cui concentrarsi è il sottofinanziamento, poiché oggi abbiamo lo 0,42 del prodotto interno investito in università, quando Francia e Germania investono il doppio; ed ha sottolineato che manca lo schema che regola il rapporto tra formazione universitaria e strutture nel territorio, che dovrebbe permettere, oltre all’acquisizione di nozioni, la loro messa in pratica come era previsto dalla legge Gelmini del 2010. È cambiato qualcosa?

R. C’è stato, sul sottofinanziamento, un segnale positivo da parte del Governo perché con la legge di stabilità approvata a metà ottobre sono stati anzitutto annullati i tagli previsti dalla legge Tremonti. Inoltre sono state  messe in campo un migliaio di assunzioni per ricercatori di tipo B, e 500 cattedre di eccellenza destinate ai ricercatori e agli studiosi italiani e stranieri con alta qualificazione scientifica. Non sono un gran numero, ma è un’inversione di tendenza rispetto agli ultimi anni in cui vi erano stati tagli continui non più sopportabili. Mi auguro che ci sia un consolidamento in futuro di questa linea, soprattutto per i giovani, e che vengano assegnati dal Governo diecimila posti nel prossimo quinquennio per non perdere gli studenti più bravi.

D. Come si colma il deficit dei finanziamenti pubblici e cosa dovrebbero fare il Governo e il Parlamento?

R. Credo che la spending review debba essere un impegno serio del Governo, che si fondi innanzitutto su un’analisi della spesa che evidenzi dove l’Italia spende di più rispetto alla media degli altri Paesi. Occorre tagliare i rami secchi, soprattutto quando frutto di una logica assistenziale e dove la produttività appare debole ed opaca. Dove invece si spende molto meno, come nella ricerca e nell’istruzione superiore, auspico che si possa salire ai livelli medi europei. Ci sarebbe sicuramente un forte impulso della ricerca universitaria in Italia.

D. Finanziamenti privati: esiste ancora il «donor»?

R. In Italia abbiamo una scarsa partecipazione dei privati al finanziamento dell’università. Oggi parliamo di terza missione, cioè l’essere aperti al territorio, ma in realtà ci sono commesse importanti da parte di grandi industrie ed anche dei ministeri che, ad esempio, richiedono spesso consulenze di tipo scientifico che dovrebbero trovare nell’università, Sapienza in primis, il punto naturale di riferimento. Ma occorre snellire questo percorso perché risulta ancora non fluido. Riguardo alle donazioni, la Sapienza ne ha ricevute molte nei secoli, amministrate dalla Fondazione Sapienza; grazie ad esse possiamo investire in borse di studio per gli studenti e i laureandi presi all’estero. Questa propensione andrebbe incentivata con un’adeguata politica fiscale che agevoli le donazioni, detassandole.

D. Il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini ha dichiarato che all’Italia manca una propria Oxford o una propria Cambridge, e la causa è la mancanza di una lucida strategia e delle competenze scientifiche, per le quali nel nostro Paese c’è una debolezza strutturale. Cosa ne pensa?

R. Parliamo di due sistemi estremamente diversi. L’Inghilterra ha una propria struttura, anche sociale, molto differente dalla nostra. Vige una differenza in classi ben evidente e ci sono università di élite quali Oxford, Cambridge, Eton che storicamente formano la classe dirigente. In Italia nel dopoguerra si è puntato su un una formazione mediamente omogenea senza picchi, né in alto né in basso, per cui da Udine a Palermo e da Torino a Bari siamo sostanzialmente equiparati.

D. Questo si riflette sulle questioni del valore legale del titolo di studio e della valutazione degli atenei?

R. Certo, perché la scelta dell’Italia è stata quella di avere un sistema omogeneo e con un titolo di laurea che ha valore dappertutto. In America non c’è il valore legale del titolo, dato invece dalla qualificazione dell’ateneo di laurea, mentre il sistema anglosassone è basato sulla competizione tra le varie università. In questi due mondi c’è anche una forte connotazione che si basa sul censo poiché le tasse universitarie sono molto elevate, mentre in Italia ci si può iscrivere all’università con non più di 1.300 euro. Non esiste, per ora, un metodo condiviso per cui la valutazione delle università sarebbe fuorviante e portatrice più di conflitti che di soluzioni.

D. Nel giorno della memoria, il 27 gennaio 2015, dalla Sapienza è partito un appello rivolto ai presidenti di Camera e Senato per eliminare la parola «razza» dall’articolo 3 della Costituzione. Quale eco ha suscitato nelle istituzioni tale gesto?

R. Da un punto di vista scientifico la parola «razza» non ha più significato a cominciare dal livello genetico. Sotto il profilo storico e culturale questo lemma ha causato nel XX secolo, attraverso le peggiori ideologie, le sciagure che tutti conosciamo. La proposta ha ricevuto un plauso generalizzato da parte di tutte le istituzioni. Mi auguro che le società scientifiche concretamente ci seguano. È un cambiamento culturale per il quale occorrerà del tempo. Il seme però è stato gettato.

D. A che punto è la mozione partita dal workshop «Medici nazisti e malattie eponimiche» dello scorso giugno per cancellare i cognomi di medici criminali di guerra che ancora legano il proprio cognome alla nomenclatura di una malattia o di test scientifici, e che ha l’obiettivo di approdare alla Corte europea per i diritti dell’uomo?

R. Considero indecente che ancor oggi alcune malattie siano chiamate con il nome dei medici nazisti che le studiavano su cavie umane perché è un’offesa alla scienza e, soprattutto, alla medicina che ha l’obiettivo di aiutare i malati. Dopo che la mozione è stata approvata all’unanimità dal senato accademico della Sapienza, l’abbiamo presentata al convegno. Aspettiamo ora il riscontro delle società scientifiche e di quei docenti che, scrivendo i testi di medicina, non usino più tali termini.

D. A fine estate, lei ha presentato un progetto culturale per lo sviluppo del Mezzogiorno dove confluiscono uomini delle istituzioni, del mondo accademico, delle professioni e dell’imprenditoria. Di che si tratta?

R. Con la A.Pro.M., l’Associazione per la promozione del Mezzogiorno, che mi ha chiamato a fare pro tempore il presidente, promuoviamo con convinzione il ragionamento che il Sud rappresenti un territorio decisivo per osservare gli effetti di politiche pubbliche finora disattente e talvolta superficiali, che hanno prodotto dinamiche di esclusione di segmenti rilevanti della società. L’università ha tutti gli strumenti per contribuire a un’inversione di rotta: solo con un network di saperi, conoscenze e azioni concrete e positive si può immaginare una strategia di contrasti davvero efficace, a partire dalle risorse già presenti nel nostro Mezzogiorno. Potremmo così contribuire a frenare la fuga dagli studi superiori che, specie nel Meridione, aiuta non poco a lasciare intere aree in balia della criminalità organizzata.

D. I candidati che lo scorso settembre hanno affrontato i test d’accesso a Medicina sono diminuiti rispetto al passato. Perché questo è considerato dal Ministero un dato positivo?

R. Questo è dovuto all’introduzione di un test di autovalutazione psicoattitudinale che noi abbiamo molto caldeggiato al ministro e con il quale gli studenti, prima di iscriversi, si sono chiesti se fossero realmente portati per frequentare gli studi biomedici. Compilando il questionario molti hanno deciso di rinunciare, evitando di spendere tempo e denaro in un corso che poi non avrebbero proseguito.

D. Come procede «Mu.Sa.», Musica Sapienza?

R. Ho curato questo progetto come presidente della commissione dedicata. Per un’università come la nostra che ha numeri enormi e  rischia di essere spersonalizzante, è un modo di incontrarsi su un progetto culturale. La risposta è molto positiva: 800 studenti sono entrati a far parte di un’orchestra classica, di una jazz, di cori, di musica etnica, con eccellenti risultati sociali ed artistici, e inviti a fare concerti in tutta Italia ed anche all’estero. È un fiore all’occhiello della Sapienza.

D. Tra le sue passioni di sempre, lo studio del fegato quale medico ricercatore. Dopo l’introduzione sul mercato dell’antivirale Sofosbuvir con buoni risultati sui malati, a che punto siamo con l’eventuale vaccino per debellare la pericolosa Epatite C che in Italia colpisce oltre 800 mila persone?

R. Si sono fatti dei progressi enormi poiché per l’epatite A e B abbiamo la vaccinazione e per il virus C abbiamo ora la terapia che guarisce la maggior parte dei casi. Riguardo al vaccino, la difficoltà sussiste perché il virus C ha una grande variabilità genetica che lo rende mimetico. Mi auguro che questa prossima scoperta porti la nazionalità italiana perché il nostro Paese è molto avanti in questo campo. Le malattie del fegato sono ormai tutte prevenibili e curabili: osservando anche un sano stile di vita possiamo eliminare cirrosi e tumore del fegato.

D. Qual è il valore del progetto europeo «Erasmus» ad oggi?

R. È stato un progetto di enorme valore che ha portato in 28 anni milioni di studenti a muoversi per l’Europa. Ci crediamo e lo supportiamo tuttora. In alcuni corsi abbiamo inserito addirittura un punteggio aggiuntivo per la laurea per chi va all’estero. In un’epoca di globalizzazione, di internazionalizzazione e di Europa unita, è fondamentale che ci sia un movimento sempre maggiore di studenti e l’ideale sarebbe che gli stessi avessero un periodo di tre-sei mesi all’estero in modo da sentirsi veri cittadini del mondo.

D. Dopo l’attacco terroristico di Parigi quale clima si respira nella popolazione universitaria e quali contromisure sono in progetto?

R. Abbiamo svolto una riunione con il commissario di Roma, Francesco Paolo Tronca, al quale abbiamo riportato la nostra solidarietà verso le vittime di Parigi, di Beirut e di tutte le barbarie terroristiche. Siamo tutti preoccupati, ma confido nella grande professionalità delle Forze dell’Ordine italiane, la cui arma migliore è il lavoro di intelligence per prevenire possibili attacchi.

D. Parte dell’opinione pubblica sarebbe favorevole a rimandare il Giubileo straordinario. Che ne pensa?

R. Quando si deve partecipare ad un matrimonio fissato ed un parente caro sta male, che bisogna fare? Augurarsi che questi muoia per risolvere il problema? Ovviamente, no. Andiamo, quindi, avanti con sicurezza, con determinazione e non rinunciamo a questo straordinario appuntamento. L’oscurantismo non prevarrà. Mai.  

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