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Occhio alla sanità - Superbatteri resistenti agli antibiotici: la sfida per la medicina del terzo millennio

Prof. Marco Falcone

Poche scoperte nella storia hanno avuto un impatto sulla evoluzione della medicina comparabile a quello della scoperta degli antibiotici. Per avere un’idea basti pensare a ciò che oggi non sarebbe possibile se non avessimo a disposizione gli antibiotici: non saremmo in grado di eseguire la maggioranza degli interventi chirurgici, non sarebbe possibile fare trapianti di organo né di cellule staminali, non potremmo trattare neoplasie e tumori, non saremmo in grado di posizionare dispositivi medicali tra cui pace-maker cardiaci, protesi vascolari, protesi ortopediche, o di praticare manovre invasive diagnostico-terapeutiche oggi di routinario utilizzo.
Ma, molto più banalmente, non avremmo la stessa fiducia («confidence» dicono gli anglosassoni) nella vita: in era pre-antibiotica le persone rischiavano di morire per una infezione successiva a un taglio o a una ferita accidentale, o per una infezione delle vie respiratorie, o per il morso di un animale domestico. Noi tutti ci sentiremmo meno propensi a fare tutto ciò che facciamo se non avessimo la sicurezza di poter risolvere questi problemi. E una grossa mano in tal senso ci viene fornita proprio dalle molecole antibiotiche.
L’anno 1929, data della scoperta fortuita e accidentale della penicillina da parte di Sir. Alexander Fleming, va quindi considerato una pietra angolare della storia della medicina. Per avere una idea dell’impatto che ebbe la penicillina in ambito sociale si presenta nell’immagine della Figura 3 un poster propagandistico della II guerra mondiale, in cui il ruolo della penicillina veniva addirittura utilizzato come mezzo di propaganda bellica. Proprio per l’impatto in termini di sopravvivenza e la possibilità di curare i feriti, l’industria americana tra il 1942 e il 1943 ne cominciò la produzione a livello industriale, rivoluzionando il mondo della medicina e dando il via a una nuova era per la moderna farmacoterapia.
A partire dagli anni 50 si è assistito a una impetuosa e continua immissione in commercio di antibiotici: sono state scoperte nuove classi di antibiotici quali le cefalosporine, i macrolidi, il cloramfenicolo, la rifampicina, gli aminoglicosidi, che allargavano lo spettro permettendo il trattamento di differenti specie batteriche. Il lancio di nuovi antibiotici è continuato fino alla fine degli anni 90 con la sintesi di molecole moderne, con uno spettro sempre più allargato e un’attività nei confronti dei batteri divenuti nel frattempo resistenti agli antibiotici. Ecco quindi il presentarsi del problema cruciale: la sintesi di nuovi antibiotici si accompagna di pari passo a un fenomeno che purtroppo è andato via via crescendo in dimensioni, ovvero la resistenza antibiotica. Se osserviamo i dati dagli anni 60 ad oggi, l’immissione in commercio di nuovi antibiotici si è sempre associata alla rapida comparsa di ceppi resistenti agli antibiotici stessi.
I motivi di questo fenomeno sono stati studiati in dettaglio: i batteri sono organismi semplici ma altamente specializzati che hanno la capacità di adattarsi all’ambiente modificando il loro metabolismo e la sintesi di alcuni geni tra cui quelli che mediano la resistenza agli antibiotici. Questi microrganismi hanno in pratica la capacità di sopravvivere in ambito biologico acquisendo dei geni che permettono loro di essere insensibili alla attività dell’antibiotico stesso. Ciò ha portato alla diffusione mondiale di batteri resistenti ai comuni antibiotici, i quali prevalgono principalmente (ma non solo) in ambiente ospedaliero.
La resistenza agli antibiotici oggi rischia di minacciare seriamente la salute dei nostri malati, soprattutto i malati con ridotti poteri di difesa o che risiedono nelle Unità di terapia Intensiva. La maggiore fonte di preoccupazione sono alcuni batteri, i cosiddetti «super-bugs», ovvero super-batteri che hanno sviluppato resistenza in pratica a quasi tutte le molecole antibiotiche: tra questi consideriamo Klebsiella pneumoniae produttrice di carbapenemasi (KPC), Acinetobacter baumanni, Pseudomonas aeruginosa multi-antibiotico resistente, Staphylococcus aureus meticillina-resistente solo per citarne alcuni. Questi batteri oggi sono non raramente resistenti alla quasi totalità degli antibiotici, per cui il clinico infettivologo si trova a trattare infezioni senza avere molecole efficaci. La terapia in questi casi si avvale di combinazioni di antibiotici che presi singolarmente risultano resistenti ma che in combinazione riescono ad avere una attività nei confronti del super-batterio isolato. Ciò purtroppo al prezzo di una elevata tossicità di queste terapie e anche di un alto tasso di fallimento terapeutico.
All’inizio del 2014 il governo Cameron ha incaricato Jim O’Neill di redigere un rapporto sullo stato dell’arte e sulle conseguenze dell’antibiotico-resistenza a livello sociale e politico in Gran Bretagna. Come riportato nella Figura 2 si stima che nel 2050 circa 10 milioni di persone al mondo moriranno per una infezione da germi resistenti agli antibiotici, un numero significativamente superiore a quello registrato per altre malattie tra cui tumori e diabete mellito. Lo stesso documento ci allerta sui fattori determinanti per la resistenza agli antibiotici: da una parte l’uso inappropriato e la pressione antibiotica selettiva esercitata in ambito comunitario e ospedaliero (si stima che fino al 50 per cento delle prescrizioni antibiotiche siano inappropriate o in termini di indicazione, o per ciò che concerne il dosaggio, o per la durata della terapia antibiotica) e dall’altra l’uso massivo di antibiotici in agricoltura. È stato stimato negli Usa come riportato in Figura 1, che il 70 per cento di tutti gli antibiotici venga consumato dagli animali, in primis animali utilizzati per la produzione di carni quindi bovini e ovini. Gli animali da allevamento oggi presentano alte percentuali di batteri resistenti agli antibiotici. Il rischio per l’uomo deriva da tre condizioni: contatto diretto e acquisizione di ceppi animali (tipico degli allevatori), trasmissione all’uomo tramite la catena alimentare in particolare durante la preparazione o il consumo delle carni, e rilascio degli antibiotici nell’ambiente tramite le escrezioni animali con urine e feci. Inoltre lo stesso rapporto fornisce una stima negativa in termini di perdita economica: è stata stimata una perdita di prodotto interno lordo a livello globale di 8 trilioni di dollari (circa 8 mila miliardi) per ogni anno fino al 2050 e una perdita cumulativa a livello mondiale di circa 100 trilioni entro i prossimi 35 anni (Da Review on Antimicrobial resistance, www.amr-review.org).
Il controllo della resistenza agli antibiotici si può esercitare con un approccio multi-disciplinare che non può prescindere tuttavia da sostanziosi investimenti da parte delle strutture che erogano salute: formazione del personale, campagne informative, gestione delle terapie antibiotiche da parte di medici specificatamente formati (la cosiddetta «Antimicrobial stewardship»), implementazione di procedure di controllo delle infezioni tra cui stanze di isolamento, procedure e personale dedicati, analisi epidemiologiche che si avvalgono di metodi di biologia molecolare.
Un ulteriore sforzo deve essere fatto dalla Industria farmaceutica, che per un lungo periodo a cavallo degli anni 2000 ha smesso di investire in antibiotici, farmaci che richiedono lunghe fasi di sviluppo (e quindi grossi costi) e che hanno una redditività per le aziende inferiori rispetto ad altre classi di farmaci proprio per la loro inefficacia nel medio-lungo termine in caso di sviluppo di resistenza. In tale senso i maggiori Enti regolatori (Fda ed Ema) hanno previsto procedure facilitate per le aziende che sintetizzano nuovi antibiotici.
Il futuro da questo punto di vista non è tuttavia così deprimente e finalmente ci sono delle nuove opzioni per i super-batteri resistenti: le più interessanti sono due molecole antibiotiche che fanno parte della nuova generazione di inibitori delle beta lattamasi, ovvero ceftolozano-tazobactam e ceftazidime-avibactam. Questi due antibiotici, attivi nei confronti di batteri gram negativi resistenti ai comuni antibiotici, sono ormai in fase di prossima commercializzazione anche in Italia e rappresentano una nuova e preziosa arma per le infezioni gravi. La loro disponibilità ci permetterà di avere delle nuove opzioni terapeutiche, poco tossiche ed altamente efficaci in base agli studi fin qui eseguiti. Ma solo un uso accorto e giudizioso di queste molecole impedirà la loro perdita di efficacia negli anni futuri.    

Tags: Giugno 2016 sanità antibiotici

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