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ENRICO GARACI: ISS, COME STA CAMBIANDO IL CONCETTO DI Sanità

Enrico Garaci Istituto Superiore di Sanità

Laureatosi in Medicina e Chirurgia nell’Università Sapienza di Roma nel 1966, dieci anni dopo Enrico Garaci fu nominato professore ordinario di Microbiologia nella stessa Università, dalla quale poi nel 1982 passò, con l’incarico di rettore, nella seconda Università di Roma, quella di Tor Vergata, inaugurata proprio in quell’anno. Vi rimase fino al 1993, quando ricevé un altro importante incarico di rilevanza nazionale, quello di presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, nel quale operò per quattro anni. Nel 2001 fu quindi nominato presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, incarico che ha ricoperto fino ad ora. Presidente anche dell’Associazione Alleanza Contro il Cancro, il prof. Garaci è autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche. Ha diretto le proprie ricerche prevalentemente sugli effetti che i fattori immunitari specifici e aspecifici hanno sulle neoplasie, sulle malattie infettive, soprattutto su quelle virali, e sulle relazioni esistenti tra il «nerve growth factor», ossia il fattore di crescita nervoso, la proteina coinvolta nello sviluppo del sistema nervoso nei vertebrati, il sistema immunitario e le infezioni virali. Nel 1997 fu nominato presidente della Società Italiana di Microbiologia ed è membro dell’Accademia dei Quaranta. Per i suoi meriti nel 2006 è stato insignito della laurea ad honorem dalla George Mason University della Virginia, negli Stati Uniti. Dal 2009 presiede il Consiglio Superiore di Sanità. Ha vinto la nona edizione del Premio Internazionale Giuseppe Sciacca. In questa intervista fa il punto sull’evoluzione della sanità in Italia dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi, sui nuovi fenomeni nel settore, nuove abitudini, nuove malattie, nuovi sistemi per combatterle.

Domanda. Quali sono le differenze dal punto di vista finanziario, organizzativo e scientifico, tra la sanità degli ultimi decenni del secolo passato e quella attuale?

Risposta. Certamente c’è, c’è stato e continua un rilevante cambiamento legato al progresso scientifico e tecnologico, che ha offerto la possibilità di migliorare molto la diagnostica. Le apparecchiature oggi esistenti nel campo della tomografia assiale computerizzata, di quella ad emissione di positroni, della diagnostica per immagini ecc. permettono di esaminare nel dettaglio il corpo umano. Grazie alla prevenzione sia primaria che secondaria, a nuove terapie, a nuovi protocolli terapeutici oggi è possibile eliminare rischi di malattie e di intervenire precocemente. Direi che ha contribuito al cambiamento anche il diverso atteggiamento del paziente il quale, soprattutto in quest’ultimo periodo, si è trasformato da ricevitore passivo di farmaci o di trattamenti terapeutici in soggetto attivo che chiede attenzione e considerazione. Quindi si manifesta, nel momento attuale, un conflitto perché, dove questa esigenza del paziente non viene adeguatamente considerata, sorge un contenzioso. Ed è a questo punto che spunta la «medicina difensiva», ossia l’insieme di atteggiamenti con i quali il medico cerca di cautelarsi, rispetto a possibili accuse del paziente, con una serie di analisi e indagini eccessive, superiori a quelle necessarie, che fanno lievitare i costi delle assicurazioni e quindi la spesa per la salute.

D. Come si possono affrontare questi nuovi problemi?

R. Dobbiamo confrontarci con questo mutamento che ha fatto aumentare moltissimo la domanda sanitaria. Questo spiega perché poi, nonostante i consistenti investimenti sanitari, rimangono sempre un gap e una lacuna da colmare. Quindi la prima considerazione da fare, e che vale per molti Paesi occidentali, riguarda il consistente aumento dell’aspettativa di vita e della popolazione anziana. Attualmente gli ultra 65enni sono circa il 20 per cento, e aumenteranno ancora fino al 25-30 per cento in un periodo di tempo non esteso. Questo comporta la comparsa di malattie croniche degenerative che già costituiscono un problema grave, perché sono patologie cardiovascolari, malattie neurodegenerative, diabete, sindrome metabolica ecc. Se non si provvede a tamponare questa situazione, è facile prevedere la bancarotta del sistema sanitario.

D. Si possono far regredire questi fenomeni?

R. Intanto si deve intervenire cambiando il modello stesso della medicina, perché oggi è ancora basata su metodi terapeutici e su curriculum universitari poco attenti al tema della prevenzione, soprattutto a quella legata agli stili di vita, all’educazione sanitaria. Per cui la medicina tuttora interviene quando il paziente sta male, quando si è già sviluppata la malattia. Con i propri studi l’Istituto Superiore di Sanità ha contribuito al superamento di questo concetto, e a sviluppare quella che io chiamerei la «medicina dei sani», nella quale lo stato di salute va definito non tanto come assenza di malattia, ma come uno stato di benessere psicofisico. È necessario promuovere questa cultura della salute, diffondere il concetto di un servizio sanitario che non interviene solo quando nell’età anziana si manifesta una malattia.

D. A quale età bisogna cominciare la prevenzione?

R. Va attuata sin dalla nascita, con l’adozione di stili adeguati, alimentazione corretta, attività fisica, assenza di fumo, uso moderato di alcol, tutti fattori che permettono di prevenire le malattie cronico-degenerative, e di gestire il sistema sanitario nazionale con risparmio di risorse finanziarie, ricoveri ospedalieri, farmaci, promuovendo nello stesso tempo la salute. Credo che questa sia la soluzione nell’ambito per di più dell’attuale politica di spending review, perché il problema da affrontare è la conciliazione delle risorse esistenti con il diritto alla salute. Bisogna evitare quella deriva economicistica secondo la quale è l’economia che detta le condizioni. Prima di arrivare ai tagli lineari delle spese, credo che possano ridursi le malattie attuando un modello di medicina basato sulla prevenzione, sulla riduzione delle malattie, sulla ricerca di nuovi farmaci.

D. Può fare esempi concreti?

R. Potrei ricordare l’epidemia di Aids prima che intervenissero quei farmaci grazie ai quali, se non ancora di guarigione, oggi si può parlare di cura di quella malattia. Il Governo italiano di allora investì miliardi di lire per costruire un ospedale per il ricovero di quei malati; dopo 8 o 9 anni, con l’introduzione di potenti farmaci antivirali, si è dimostrato che non c’era più bisogno di ospedali ma di terapie che potevano essere seguite dal paziente anche direttamente in casa. La ricerca porta a superare le malattie; ma quando noi parliamo di sistema sanitario nazionale, pensiamo solo ai costi correlati ai servizi da esso erogati. Mentre con tutta la rete di ospedali il sistema sanitario nazionale potrebbe determinare nello stesso tempo consistenti effetti positivi in campo produttivo, economico e sociale.

D. In quale modo, per esempio?

R. In Italia si compiono poche sperimentazioni cliniche. È il sesto mercato farmaceutico del mondo, ma le big farm, ossia le industrie farmaceutiche, si avvalgono di sperimentazioni cliniche eseguite in altri Paesi. Per cui l’Italia paga per utilizzare tali sperimentazioni, ma non contribuisce alla ricerca. Mentre compierle in Italia significherebbe mettere a disposizione del paziente, anche nella fase sperimentale, farmaci innovativi, attrarre risorse dall’estero e ridurre i costi del sistema sanitario nazionale. Definisco «olistica» la politica che dovremmo attuare nella sanità, in quanto dovrebbe coinvolgere varie istituzioni, non solo il ministero della Salute, le Regioni e le aziende sanitarie. Ma anche i ministeri dell’Istruzione, dell’Ambiente, dello Sport, dello Sviluppo economico, il quale ultimo dispone delle risorse per finanziare i progetti di sviluppo di nuovi farmaci, e potrebbe affrontare razionalmente il problema. Probabilmente da un nuovo assetto istituzionale potrebbero derivare un ridimensionamento della spesa e un miglioramento della salute dei cittadini italiani.

D. Nella seconda parte del 1900 l’assistenza sanitaria non era estesa a tutta la popolazione e le risorse finanziarie erano ancora più limitate. Negli anni sono aumentati i redditi familiari, ma quali miglioramenti si sono verificati nella sanità?

R. È aumentata moltissimo l’aspettativa di vita, che ne è l’indicatore. Si conduce una vita meno esposta ai rischi, più sana, e nello stesso tempo c’è un sistema sanitario più in grado di offrire terapie. Ovviamente è un sistema da migliorare ancora; oggi parliamo di aspettativa di vita in salute, perché un’aspettativa di vita elevata ma con disabilità non è l’ideale. Dobbiamo auspicare e realizzare un allungamento della vita in salute, senza disabilità. La ricerca è uno strumento per ridurre le malattie, per fare prevenzione, per migliorare le diagnosi; è proprio l’attività che ha svolto e sta svolgendo l’Istituto Superiore di Sanità. Una ricerca «traslazionale», cioè non fine a se stessa ma applicata per migliorare le diagnosi, le terapie, la qualità della vita.

D. Se alcuni tipi di malattie vengono combattuti ed eliminati, altri sorgono o si espandono. Dipende dall’allungamento della vita?

R. Certo, e questo si può vedere nei tumori, per i quali da un lato è aumentata la capacità di diagnosi, che in passato neppure si faceva; dall’altro, l’aumento dell’aspettativa di vita comporta l’insorgenza di un maggior numero di casi. Vi sono tuttora malattie non debellabili con i sistemi ormai acquisiti, come i vaccini; sono le malattie cronico-degenerative, in costante aumento. La ricerca scientifica va avanti, anche se occorrono anni. Nel campo dei tumori sono stati compiuti progressi enormi, così pure per il diabete; c’è tutto il campo della prevenzione con i vaccini, che sono armi molto efficaci; ci sono gli antibiotici. Si può dire però che si registra, a livello mondiale, una diminuzione dei nuovi farmaci. Per esempio non si producono più nuovi antibiotici, e questo costituisce un’emergenza sanitaria in aumento. Non si producono più nuovi farmaci perché aumentano sempre di più i costi della ricerca e perché, per giungere alla novità, occorre affrontare un processo regolatorio molto lungo, calcolato in 10-15 anni dal momento della scoperta al momento dell’applicazione. A mio parere le regole andrebbero snellite e meglio regolate.

D. Ci fu tanto allarme per l’Aids, ma perché dopo non se ne è parlato più?

R. Non è così. È diminuita la percezione ma la malattia c’è ancora. Nei Paesi del Sud del mondo l’Aids uccide 5 milioni di persone l’anno, l’80-85 per cento delle infezioni si registrano in tale area. L’introduzione di potenti farmaci antiretrovirali, come gli inibitori della proteasi, permettono di controllare la malattia, ma non è la soluzione perché quando si smette la terapia ritorna il virus. L’Istituto Superiore di Sanità si è molto impegnato nella lotta contro l’Aids sia nel monitoraggio, nella prevenzione, nell’assistenza col telefono verde ed altro, sia partecipando ai grandi trial clinici che hanno portato all’uso di questi farmaci e di un vaccino che, sviluppato dalla dottoressa Barbara Ensoli, ha superato la fase clinica e ha dato risultati positivi. Quindi la fase 2 è finita ma le ricerche continuano su un nuovo vaccino preventivo.

D. Il ritardo della ricerca sui nuovi antibiotici causato dalla crisi economica determinerà lo sviluppo di malattie?

R. Certo. Diminuisce l’uso di questi farmaci anche perché il loro costo aumenta sempre. Si calcola che dal momento della scoperta, per introdurre un nuovo farmaco nella terapia occorra un miliardo di dollari. Oltre a questo, il sistema regolatorio è eccessivamente garantista, richiede molti anni. Se Edward Jenner, scopritore del vaccino antivaiolo, l’avesse adottato, non avrebbe visto nella sua vita gli effetti benefici della sua scoperta. La sicurezza va garantita, ma occorre un maggiore equilibrio tra il rischio e il beneficio per evitare che, mentre si aumenta la sicurezza, molti pazienti muoiano per mancanza di farmaci.

D. L’eccesso di regole non potrebbe essere uno strumento per condizionare l’industria farmaceutica?

R. La realtà è che si è costruito un sistema autorizzatorio in modo molto sofisticato, perdendo la visione generale magari per introdurre ulteriori elementi e migliorarlo. Ma secondo un proverbio, spesso il meglio è nemico del bene. Sarebbe opportuno accorciare i tempi e valutare le esigenze. Se un nuovo farmaco è destinato a curare una malattia per la quale ve ne sono altri, è giustificato sottoporlo a tutti i controlli possibili, ma dove il farmaco non c’è e i pazienti muoiono, accorciare l’iter va a loro beneficio.

D. Quale funzione svolge oggi l’Iss?

R. Quando sono stato nominato presidente, l’ho riordinato sulla base di un nuovo ordinamento per cui ora svolge una doppia funzione, nella ricerca biomedica ma anche sanitaria perché destinata al paziente, grazie a un patrimonio scientifico eccezionale, a risorse umane e ricercatori molto bravi e qualificati. Ha conseguito un grande successo l’accordo Italia-Usa che ha prodotto una quarantina di brevetti, oltre 300 pubblicazioni scientifiche e nuovi trial investigativi, e ha formato molti giovani che grazie ad esso sono andati negli Stati Uniti. È un programma che continua e ha ottenuto molti risultati nella lotta contro i tumori. Le cellule staminali tumorali sono state scoperte in questo Istituto grazie a un ricercatore operante nelle malattie neurodegenerative, nelle patologie croniche, nella creazione di reti epidemiologiche dirette a monitorarle e a controllarle.

D. Quali rapporti avete con il sistema sanitario nazionale?

R. Svolgiamo per esso un’attività di servizio riguardante l’ambiente e l’alimentazione, e una serie di controlli in occasione di emergenze. Ricordo la «mucca pazza», la Sars, l’influenza aviaria, l’epidemia di escherichia coli, la cui diagnosi è stata compiuta da noi mentre in Germania non vi sono riusciti. Grazie alla ricerca scientifica l’Istituto è sempre in grado di rispondere alle esigenze della sicurezza. La ricerca comporta una qualità del Servizio Sanitario che diversamente non vi sarebbe; i controlli sui vaccini e sui farmaci non potrebbero essere compiuti con accuratezza e impegno. Svolgiamo anche un’azione internazionale soprattutto nei Paesi del Sud del mondo, fornendo assistenza per elaborare piani sanitari e per la formazione.

D. A che punto è lo studio sulle cellule staminali?

R. Si sta facendo molto, perché possono risolvere molte patologie; il 98 per cento di esse è sensibile ai farmaci, il 2 per cento sono tumorali, resistono alle cure e formano successivamente un altro tumore. Vanno isolate e studiate in vitro per scoprire a quale farmaco o combinazione di farmaci o metodo sono sensibili. È un traguardo raggiungibile, è la nuova frontiera alla quale collabora il dottor Ruggero De Maria, oggi direttore scientifico dell’ospedale Regina Elena di Roma, che ha lavorato fino a poco tempo fa nell’Istituto e ha individuato, per primo, le cellule staminali tumorali nel tumore del colon. 

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