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SANITÀ - IVAN CAVICCHI: PRIMO ATTO, RIEQUILIBRARE I POTERI TRA LO STATO E LE REGIONI

Ivan Cavicchi

Docente nella facoltà di Medicina e Chirurgia dell’università di Tor Vergata di Roma, il prof. Ivan Cavicchi ha insegnato in passato Statistica sanitaria e Sociologia della sanità nella Sapienza di Roma, è stato membro del Consiglio sanitario nazionale, consulente e supervisore della Regione Emilia Romagna, responsabile della Cgil per la sanità e del dipartimento Ambiente-Sanità. Attualmente insegna Sociologia dell’organizzazione sanitaria e collabora con le principali università italiane con conferenze, corsi, seminari e master. È collaboratore delle principali società scientifiche di Chirurgia, Medicina interna, Cardiologia e Oncologia; collabora con gli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri. Ha scritto numerosi saggi relativi alla politica sanitaria e ai problemi della medicina. È membro del Comitato etico dell’ospedale Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina di Roma. È stato direttore generale di Farmindustria, ha pubblicato lavori su sanità e medicina, e tra essi i libri «La privatizzazione silenziosa della sanità», «Malati e governatori. Libro rosso per il diritto alla salute», «Autonomia e responsabilità. Libro verde per medici e operatori della sanità pubblica», «Medicina e sanità: snodi cruciali».
Domanda. Tutti i giorni leggiamo notizie di corruzioni, truffe ai danni della sanità e dello Stato. Che cosa è il malcostume nella sanità?
Risposta. Ha tanti aspetti, forme e tipologie. Il 5 febbraio scorso la Corte dei Conti ha reso pubblica la relazione annuale affermando che la sanità è un sistema piuttosto corrotto nel quale dilagano gli abusi, ed ha elencato una tipologia sterminata di «fattispecie di reato» che nel loro insieme hanno un costo enorme. In base ai dati della Guardia di Finanza, dei Nas e della Corte dei Conti, siamo intorno a 2 punti percentuali della spesa nel complesso. Il fenomeno, a parte l’immoralità dilagante, si chiama antieconomicità. Un sistema con ampie sacche di antieconomicità costa di più e dà meno. Per me il problema vero della sanità non è la sua spesa, che più o meno è nella media europea, ma la sua massiccia antieconomicità.
D. Che si può fare per combattere l’antieconomicità del sistema sanitario?
R. Intanto si tratta di parlare di antieconomicità e non di sostenibilità, o meglio di dire con chiarezza che, se ci sono problemi di sostenibilità del sistema e quindi di spesa, sono dovuti principalmente al costo di corruzioni, abusi, opportunismi. Non si risolve il problema dell’antieconomicità senza intervenire sulla governance, sugli intrecci tra modo di governare e di spendere. Personalmente ritengo improprie entrambe le soluzioni, quella secondo cui a causa dell’insostenibilità del sistema bisognerebbe unire le risorse pubbliche con quelle private quindi mutue, fondi assicurativi ecc.; e quella secondo la quale occorre rifinanziare la sanità attraverso il fisco, perché la sanità in Italia costa poco, meno che negli altri Paesi europei. In entrambe le soluzioni il nodo dell’antieconomicità non viene sciolto, anzi paradossalmente viene conservato e rifinanziato in un caso attraverso il privato, nell’altro attraverso il pubblico.
D. Ma è proprio vero che in Italia si spende poco per la sanità?
R. È relativamente vero. Quando facciamo il confronto fra la spesa sanitaria italiana e quella degli altri Paesi europei dobbiamo capire quali sistemi si paragonano, quali tutele. Secondo me in Italia siamo nella media della spesa sanitaria europea. In generale si può dire che i sistemi sanitari pubblici, finanziati dal fisco, costano meno. Questo è dovuto soprattutto al loro impianto solidaristico. Da noi i sani pagano per gli ammalati e i ricchi per i più poveri. Cioè dovrebbe valere il principio generale «A ciascuno secondo il proprio bisogno, da ciascuno secondo il proprio reddito», anche se ormai il Paese vede mille diseguaglianze, ticket, Irpef, tasse locali. Il principio è giusto ma le diseguaglianze sono troppe, cittadini che pagano più di altri ed hanno di meno.
D. Quindi nella sanità la questione alla fine è soprattutto economica?
R. No, è anche economica, ma non solo. Nella sanità vi ha preso piede, soprattutto a partire dagli anni 80, una sorta di ideologia che per primo ho definito «economicismo», cioè un’idea ragionieristica dell’economia che riconduce tutta la complessità sanitaria alla parità di bilancio. Una sorta di «bilanciofrenia». La sanità avrebbe bisogno di intendere l’economia come scienza della complessità. Il Premio Nobel per l’economia Von Hayeck diceva che «un economista che è solo un economista non è un economista». Questo è particolarmente vero per la sanità, nella quale l’etica deve convivere con l’economia e tutte e due con la scienza e la sociologia. Proprio rispetto a questo «grumo» di complessità direi che, oltre al problema dell’antieconomicità, vi è quello della «regressività». Quando un sistema sanitario sta fermo e tutto intorno cambia, è come se tornasse indietro. La società intorno al sistema sanitario è cambiata profondamente, sono cambiati bisogni, domande, persone che chiedono di essere curate. Di fronte a questi cambiamenti sociali, culturali e antropologici, la sanità è molto indietro.
D. Cosa comporta questo «scarto»?
R. Lo scarto tra la società che cambia e la sanità che non varia, cioè tra cambiamento e invarianza, produce fenomeni negativi che, a loro volta, hanno un costo: per esempio il contenzioso legale, la medicina difensiva, gli opportunismi professionali. Questi a loro volta aumentano i costi delle coperture assicurative, i costi di gestione ecc. Solo la medicina difensiva si stima nell’ordine del 10-12 per cento della spesa, una cifra enorme che buttiamo dalla finestra per avere la peggior medicina. Ma, oltre a questo lo «scarto» delegittima il servizio, gli operatori, incrina il rapporto fiduciario tra società e sanità. In alcuni casi la gente ha persino paura di farsi curare. La cronaca sulla malasanità fa il resto.
D. Quindi «antieconomicità» e «regressività». Una miscela costituita da sprechi, abusi, clientelismi, ma anche anacronismi, inadeguatezze organizzative e culturali. Non è così?
R. È così. Viviamo da anni nella post modernità e abbiamo sistemi di welfare tarati sulla modernità che andrebbero adeguati e ripensati. Il cambiamento più «rivoluzionario» della post modernità riguarda proprio il malato, un signore che nei miei libri definisco «esigente». Cioè il «paziente» classico del passato ormai, sociologicamente parlando, non c’è più. L’esigente è uno che ha coscienza dei propri diritti, che pensa la cura come autocura, che è molto informato e soprattutto che non delega più, ma vuole partecipare direttamente alle scelte che riguardano la salute. È l’esigente che porta il medico in Tribunale. Fino a 20 anni fa questi problemi non esistevano.
D. Lei sostiene che la regressività nasce perché il sistema sanitario, anziché ripensare la propria offerta nei confronti dell’esigente, continua a rapportarsi al paziente, figura ormai estinta?
R. Sostanzialmente è così. Ancora non si è capito che l’esigente non è un nemico contro il quale assicurarsi, ma una risorsa che andrebbe usata. Per usarla serve una nuova relazione tra società e sanità, tra malato e medico, non tanto all’insegna dell’amabilità ma pensata per coinvolgere il malato, corresponsabilizzarlo, decidere quanto fare insieme a lui. In genere il contenzioso legale si ha quando le relazioni sono pessime; se invece vi sono buone relazioni, si ha un basso grado di contenzioso legale.
D. Se un medico sbaglia per distrazione, per superficialità o per negligenza, non è giusto che paghi?
R. Sarebbe meglio distinguere l’errore medico dall’evento avverso. Nel primo caso il medico ha delle responsabilità, nel secondo caso queste vanno condivise con decine di varianti organizzative, situazionali, contingenti, fatali ecc. Come tutte le imprese umane, la medicina è fallibile, quindi sbaglia. Si tratta di ridurre, per quello che è possibile, la sua fallibilità, ma anche di condividerla con il malato. Un’idea di medicina infallibile non giova né alla medicina né alla società. Poi non si dimentichi che, soprattutto a causa dei tagli lineari apportati alla sanità, i servizi sono destinati ad operare sempre più in situazioni di «overcrowding», cioè di sovraccarico, nelle quali si sbaglia di più, cala la qualità e persino aumenta la mortalità. Sono anni che la sanità è in sovraccarico a causa del blocco del turn over. Se i malati non calano, ma calano gli operatori, la fallibilità fisiologica diventa un problema serio del quale non è l’operatore ad avere la prima responsabilità.
D. La questione dei pronti soccorso a Roma e altrove va quindi letta con la chiave di lettura dell’overcrowding?
R. Non c’è alcun dubbio. Per far funzionare bene un pronto soccorso e quindi un’emergenza, dobbiamo qualificare due momenti, l’entrata e l’uscita. L’entrata, vuol dire che in ospedale deve entrare solo chi ne ha bisogno, il resto va curato a casa, negli ambulatori o nelle residenze. In uscita, invece, il pronto soccorso deve essere il posto che colloca il malato nei luoghi adatti alla cura. Se in entrata vi sono richieste improprie e in uscita non vi sono sbocchi nei reparti di degenza, il malato resta anche per giorni in barella e nei corridoi.
D. Pare che questi problemi nascano anche perché da anni si tenta di collegare l’ospedale con i servizi territoriali senza ottenere grandi risultati, a parte le solite eccezioni. Non è così?
R. Contrapporre l’ospedale al territorio ormai è un modo vecchio di giudicare. L’errore è non avere una visione d’insieme del sistema, interconnessionale; ogni cosa deve essere connessa con l’altra. Siamo ancora abituati a considerare a compartimenti stagni il sistema dei servizi, cioè il medico di medicina generale, il territorio, il distretto, l’ospedale. Oggi si deve parlare di percorsi terapeutici, di continuità terapeutica, di case management, di reti. Si deve andare oltre le concezioni tayloristiche dell’organizzazione, che perdurano tenaci nella sanità. L’organizzazione dei servizi è un problema nello stesso tempo di antieconomicità e di regressività.
D. Si discute dell’invadenza della politica nella sanità, alcuni arrivano a dire «Fuori la politica dalla sanità», altri propongono di impedire le nomine clientelari, i giornali hanno parlato di primari nominati per la tessera e non per i loro meriti. Che ne pensa?
R. Ritengo che la politica nella sanità debba svolgere un ruolo fondamentale perché dietro la sanità vi sono complessità etico-sociali-economiche che solo la politica può governare. Nello stesso tempo la politica deve compiere un passo indietro rispetto alla gestione, alle nomine. Non si possono nominare i primari per tessera di partito, perché devono curare le persone. Ma, affermato il valore della politica, devo dire che mi sono convinto che uno dei problemi più grandi della sanità è la pessima qualità della politica che decide le politiche sanitarie. Cioè è il suo «pensiero debole», per citare il titolo di un mio recente libro. La politica oggi è al di sotto delle sfide riformatrici necessarie. Anche se tutti si autodefiniscono riformisti, penso che il problema primario della sanità sia invece quello che mi piace chiamare «il riformista che non c’è». Nelle situazioni migliori abbiamo avuto il paradosso del «miglioramento senza cambiamento», cioè da anni si va avanti con interventi marginali, di aggiustamento di questo o quello, quando ormai le ragioni dell’antieconomicità e della regressività dicono che avremmo bisogno di «reformatio».
 D. Se lei fosse il ministro della Sanità, quali sarebbero le sue proposte?
R. Innanzitutto farei in modo di diminuire le malattie. Spendiamo meno del 5 per cento in prevenzione primaria, siamo il Paese che investe di meno in salute. Ripenserei la governance del sistema, perché la sanità non è ben governata, riaggiusterei i rapporti tra poteri dello Stato e delle Regioni. Sono della scuola di Montesquieu, che è per l’equilibrio dei poteri. Ripenserei le aziende, nella sanità abbiamo copiato il modello dell’azienda manifatturiera, che fa acqua da tutte le parti. Abbiamo bisogno di un’azienda sanitaria sui generis del tipo di «azienda di servizio» a managerialità diffusa, nella quale gli operatori non si limitano a svolgere compiti in cambio di un salario, ma sono autori di quello che fanno e valutati per quello che fanno. Poi ricongegnerei il sistema sanitario perché ancora oggi è completamente imperniato sull’ospedale. Il cambio che auspicherei è: riconcepire il sistema dei servizi a partire dal luogo di vita del cittadino. Ridefinirei l’idea di tutela nel senso della post modernità. Oggi curare non vuol dire più difendere e combattere la malattia, ma altro. Questo implica un profondo ripensamento culturale, di programmi di formazione, figure professionali, modi di lavorare ecc.
D. Cosa pensa dei rapporti tra l’ospedalità privata e quella pubblica?
R. Il nostro è un sistema sanitario misto, pubblico, privato convenzionato e privato privato. Vi è un sistema di accreditamento che deve garantire i requisiti fondamentali delle strutture. Si tratta di concepire una programmazione integrata che ricomprenda l’intero sistema in tutte le articolazioni. In sanità è dimostrato che cooperare conviene più di competere.
D. Ma rispetto alle politiche sanitarie degli ultimi 20 anni cosa farebbe?
R. Da oltre 20 anni tentiamo di adattare il sistema sanitario ai limiti economici. Le politiche di compatibilità funzionano fino a quando non mettono in discussione diritti, qualità e necessità, ma anche politiche industriali e ricerca. Oltre questo punto subentra un paradosso: per essere compatibile con l’economia il sistema diventa incompatibile con l’etica, la giustizia, la Costituzione e la produzione di ricchezza. Per evitare questo propongo di mettere in campo politiche di «compossibilità». Il limite economico e il diritto possono coesistere solo se tra di loro non vi sono contraddizioni, che costano care. Corruzione, medicina difensiva, offerta non tarata sulla domanda, figure professionali vecchie, organizzazioni del lavoro superate, assenza di politiche per la salute, antieconomicità e regressività: sono le principali contraddizioni da rimuovere.
D. Nel suo blog su «Il Fatto Quotidiano» e nei suoi libri sostiene che condiziona la sanità non il limite economico, ma i limiti degli economisti che se ne occupano. Perché?
R. Niente contro gli economisti. Auspico un ripensamento profondo dell’economia definita «sanitaria». Non basta più estendere a questa la teoria generale dell’economia e non funziona più l’invito degli economisti a dividere la sanità in priorità, a selezionare le tutele da distribuire o aumentare ticket o tasse. Occorre il contrario, adattarsi alle complessità della sanità. Mi ritrovo sulla linea di Krugman convinto che alla base di molti problemi vi sia una fraintesa economia; e sulla linea di Shapley e Roth gli ultimi Nobel per l’economia, che propongono di ripensare l’economia per darle quello che qualcuno ha definito il «respiro umanistico». Costoro propongono un altro genere di scienza economica, priva del principio che il denaro è la misura di tutto: la teoria del matching market, che consiste nel trovare la «cosa giusta». Nella sanità una cosa è giusta se è tale nei confronti dell’etica, della scienza e dell’economia. Io sogno per la sanità una economia delle cose giuste.   

Tags: Marzo 2013 sanità Ivan Cavicchi medici

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