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SANITÀ - STEFANO CUZZILLA: FASI, UNA FINESTRA GIà APERTA SULLA Sanità DI DOMANI

Stefano Cuzzilla, presidente del FASI, Fondo di Assistenza Sanitaria Integrativa

Costituito 35 anni fa per iniziativa della Confindustria e della Federmanager, il FASI, Fondo di assistenza sanitaria integrativa del comparto industriale, si trova oggi ad operare in un contesto abbastanza mutato al quale però si è adattato grazie al lavoro svolto in campo sanitario e assistenziale e alle competenze presenti nel settore che rappresenta, fino a diventare uno dei Fondi più importanti d’Europa. Presieduto da Stefano Cuzzilla, che vanta una lunga esperienza in varie aziende pubbliche e private, lo scorso dicembre il FASI ha fatto il punto, in un approfondito convegno, sulla situazione e sulle prospettive del comparto nell’ambito delle nuove esigenze create nel suo campo anche dalla crisi economica in atto. «Il FASI oggi garantisce la tutela del diritto alla cura a un ampio numero di dirigenti del settore industriale che è tra i più colpiti dalla crisi economica–ha affermato il presidente aprendo i lavori–. Considerarlo ancora come un’isola felice per la classe più agiata del Paese sarebbe un falso storico, oltreché un errore strategico. I dati sulla disoccupazione colpiscono anche i manager italiani, le stime della Federmanager parlano di 10 mila dirigenti in meno nel settore industriale solo negli ultimi tre anni». In questa intervista Stefano Cuzzilla illustra le principali difficoltà e i probabili rimedi non solo per la categoria rappresentata, ma in genere per imprenditori, lavoratori e pensionati italiani.
Domanda. Quali difficoltà incontrano il fondo e in generale l’assistenza sanitaria?
Risposta. Uno degli ostacoli maggiori è l’errata interpretazione dell’azione svolta dai Fondi negoziali di assistenza sanitaria che costituiscono il cosiddetto «secondo pilastro» della Sanità e che hanno quindi bisogno degli strumenti per operare. Grazie alla famiglia di provenienza, cioè alla Confindustria e alla Federmanager, il FASI ha potuto rispondere alle esigenze della società, ovviamente grazie al sacrificio di imprese e lavoratori. Per conoscere meglio la relazione tra welfare pubblico e privato abbiamo commissionato una ricerca non tanto sull’utilità della sanità integrativa, ma sul cambiamento di giudizio in atto nelle nostre organizzazioni e imprese. Il risultato è che tale giudizio sta mutando radicalmente e che, se la parte del welfare a carico delle finanze pubbliche è insufficiente, i gruppi aziendali più attenti stanno invece estendendo la protezione fino a svolgere un ruolo sociale di grande rilievo.
D. Quali i giudizi, in particolare?
R. Si conferisce alla sanità integrativa una posizione centrale, si prevedono la sua diffusione nel tessuto imprenditoriale e la sua prevalenza rispetto all’equivalente in denaro o al costo sostenuto dall’azienda. Sono soprattutto i giovani ad essere più preoccupati per il rischio della sanità pubblica, per cui considerano il welfare aziendale in linea con le trasformazioni economiche, demografiche e sociali del Paese. Nei manager di aziende sanitarie pubbliche e private i ricercatori hanno rilevato attenzione, direi forte interesse per la sanità integrativa; nei fondi come il FASI un possibile interlocutore innovativo e risorse economiche aggiuntive.
D. Un atteggiamento favorevole alla privatizzazione del settore?
R. Non condivido questa interpretazione. La maggioranza dei cittadini è già costretta a ricorrere alle prestazioni sanitarie affrontando privatamente il relativo costo. La domanda che ci si pone non è sul ricorso o meno all’intervento integrativo, ma sul modo con il quale la collettività riuscirà a sostenere negli anni futuri, con un tasso di invecchiamento crescente, la domanda di cure. E sorge subito il secondo interrogativo: quale «universalità» potremo salvare?
D. Quale, a suo parere?
R. Come presidente di un fondo quotidianamente alla ricerca di soluzioni adeguate, è la realizzazione di una struttura che si integri con il servizio sanitario nazionale che, non a torto, viene ritenuto tra i migliori nel mondo. Guardiamo l’impegno posto dal FASI nella prevenzione negli ultimi due anni, e che intendiamo proseguire. Secondo alcuni studi, a causa delle ridotte capacità di spesa delle famiglie si sta riducendo la richiesta di prestazioni sanitarie. Il FASI invece ha aumentato, a proprio totale carico, interventi di screening e diagnostici per ridurre nei nostri assistiti il rischio di maggiori patologie. Questa operazione non solo punta a risparmiare sulla spesa nel lungo periodo, ma è un obiettivo di benessere e competitività. Offriamo prestazioni integrative anche in funzione calmieratrice dei costi dei servizi sanitari, recuperando quote di quella spesa privata che cittadini, pensionati, quadri e dirigenti fanno fatica a sostenere.
D. Quali le altre vostre attività?
R. Il FASI ha dato piena attuazione ai decreti Turco e Sacconi del 2008 e 2009 sull’autosufficienza, aumentando i rimborsi mensili e le strutture convenzionate; nel 2013 introdurremo nuovi trattamenti ai fini riabilitativi e rieducativi di persone non autosufficienti. Tra i 310 mila assistiti al FASI, oltre alle loro famiglie, figurano dirigenti in attività e in pensione, indipendentemente dall’età e dallo stato di salute, ed è esclusa qualsiasi selezione del rischio. Stimoliamo l’innovazione e lo sviluppo della ricerca scientifica in campo sanitario, come sta avvenendo nella prevenzione del cancro del cavo orale, che all’accertamento individuale affianca un’azione di analisi e monitoraggio in tutto il territorio nazionale. Introdurremo nei prossimi mesi nuovi pacchetti per la prevenzione cardiovascolare, mentre sono allo studio interventi per la diagnosi dei disturbi del sonno e di altre sintomatologie da stress lavoro-correlato.
D. Avete i mezzi per fare tutto ciò?
R. Abbiamo bisogno di alcuni strumenti essenziali. Innanzitutto, di una normativa certa e di una legislazione attenta. Il settore non è stato regolamentato in maniera compiuta e l’iniziativa non può essere esclusivamente rimessa alle buone intenzioni delle associazioni di categoria. In secondo luogo, serve una legislazione fiscale che agevoli anche dal lato aziendale, affinché l’investimento nel secondo pilastro della sanità pubblica sia funzionante e in equilibrio economico. Terzo, serve il supporto incondizionato a un’idea di welfare libera dalle paure nutrite nei confronti di un possibile default del servizio sanitario pubblico. Il nostro modello di welfare funziona da 35 anni, nonostante sia stata finora condotta esclusivamente in casa la battaglia per una cultura di partecipazione al benessere collettivo. Il concetto di salute si evolve nel giudizio comune, qualità e speranza di vita sono elementi strettamente legati a questa trasformazione. Servono risposte coordinate di fronte al cambiamento sociale, alle altalene del contesto economico e a una popolazione che nel 2050 raggiungerà un indice di vecchiaia del 256 per cento rispetto all’attuale 144,5. Al FASI, come agli altri fondi di assistenza sanitaria integrativi, va riconosciuto un ruolo di protagonista nell’interpretazione di questo momento storico.
D. Niente default, quindi, del servizio sanitario nazionale?
R. La questione della sua sostenibilità, posta di recente dal premier Mario Monti, si misura anche in considerazione del contributo che l’industria sanitaria italiana continua ad assicurare alla macchina pubblica e non solo. Di questo siamo consapevoli, in qualità di attori che, al pari dei soggetti pubblici e convenzionati, conoscono le implicazioni in termini di produttività e di investimento che la concreta attuazione del diritto alla salute richiede. In Italia la spesa sanitaria pubblica ammonta sui 112 miliardi di euro e quella privata sui 30 miliardi, cui va aggiunta una quota di spesa privata non contabilizzata. Di tale spesa privata, l’87 per cento è sostenuto da cittadini e utenti, solo il 13 per cento è assorbito dai fondi, casse, assicurazioni.
D. Quale riforma auspica?
R. Qualunque progetto di riforma che dimentichi le potenzialità della sanità integrativa è destinato a vanificare la spinta di miglioramento reciproco che i settori pubblico e privato possono darsi se messi in condizione di operare in parallelo. È stato consentito invece, a un’ottica divergente, di essere troppo a lungo portatrice di inefficienza diffusa. Se è vero che la salute non è un diritto generico, che il diritto alla cura è inalienabile, che il benessere di una società si misura sul livello di salute raggiunto, di fronte alla crisi generale si impone un ripensamento della funzione dei fondi integrativi e il compimento di un iter faticosamente cominciato in solitudine e tra la diffidenza dei più.    n

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