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SANITÀ - Tra sostenibilità e innovazione

CESARE CATANANTI

Sul finire dello scorso anno, nel clima della «spending review», una serie di autorevoli interventi hanno lanciato l’allarme sulla futura difficile sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale. La questione, va subito detto, non è specificamente italiana. Non c’è infatti Paese, oggi nel mondo, che non debba confrontarsi con la discrepanza tra risorse, sempre più limitate, e bisogni invece in costante crescita. Ma se questi assunti sono veri, come purtroppo lo sono, è altrettanto vero che le soluzioni non possono limitarsi agli aspetti finanziari ed organizzativi, certamente indispensabili ma non sufficienti nel medio-lungo termine.
Per giungere a soluzioni durature il problema andrebbe affrontato alla radice. Una radice che, sul finire degli anni Novanta, Daniel Callahan individuava nel totale ripensamento dei valori e degli obiettivi della medicina. E, soprattutto, nelle attese che noi, sia come singoli che come società, nutriamo verso essa. In altre parole bisognava puntare, sosteneva Callahan, ad una medicina sostenibile ripensando la stessa idea di progresso medico.
Cosa facile a dirsi, ma tutt’altro che facile a realizzare e, forse o senza forse, troppo ambiziosa se non addirittura velleitaria. Il neopositivismo di oggi, con il megafono dei media, sistematicamente rafforza, nell’immaginazione collettiva, l’idea di una medicina trionfalistica che tutto può, o alla quale comunque quasi tutto è a portata di mano. E così, inevitabilmente, pretendiamo di tutto e di più anche se quel «tutto e di più» non è stato ancora giudicato dal Tribunale dell’evidence.
Ma chi prospetta l’esigenza dei tempi lunghi nel valutare la reale efficacia del «nuovo», ed esprime qualche perplessità sui rischi del consumismo medico, è visto come zavorra del pensiero che frena il progresso e l’innovazione. Se le risorse mancano, come non avere un occhio quanto mai attento e critico di fronte alle infinite novità che l’industria biomedicale continuamente propone? Non sono, infatti, pochi i casi in cui le cronache, anche giudiziarie, hanno evidenziato come in molti campi gli interessi degli azionisti siano stati posti al di sopra di quelli della gente.
Quando è Wall Street a dettare le regole, che non sono quelle di San Francesco, la strada che si imbocca può diventare davvero pericolosa e inquietante. E il mondo del biomedicale non è un’oasi protetta, estranea a quelle regole. «Too much medicine?», si chiedevano in un efficace editoriale sul BMJ Richard Smith e Ray Moniham, e la risposta è secca: «almost certainly». Sembra così prender  corpo quella nemesi medica che il sociologo austriaco Ivan Illich, studioso delle forme istituzionali in cui si esprime la società contemporanea, dalla scuola, all’economia e alla medicina, aveva prefigurato trenta anni orsono cogliendo, già all’epoca, i primi segnali dell’epidemia iatrogenetica che era clinica, sociale e culturale. Clinica per gli effetti indesiderati del curare; sociale per il danno patito da una società oppressa dal consumismo medico; culturale per il diffuso desiderio di produrre salute migliore, come se fosse merce a tutti i costi. Un consumismo che assorbe risorse, ed oggi molto più di ieri, in un’epoca in cui la recessione economica riguarda tutti, seppur con sfumature diverse.
È uno scenario che rende quanto mai attuale la domanda che si poneva nel lontano 1974, uno dei fondatori dell’economia sanitaria, Victor Fuchs: «Who shall live?». Chi vivrà? Come utilizzare nel modo migliore le risorse scarse, di fronte a una domanda di salute, o comunque di prestazioni, in continua, irrefrenabile espansione? Per evitare, allora, il rischio di situazioni di questo genere certamente si è obbligati a mettere in atto da subito una «spending review» quanto mai forte. «Adelante ma con judicio» può essere il motto, e cioè non falciando indiscriminatamente ma potando là dove serve.
Nel breve tempo, infatti, è l’unica arma che obbligherà a forti revisioni strutturali, finanziarie e organizzative. Si pensi solo all’incompiutezza, in molte regioni, dei servizi del territorio, all’indispensabile chiusura di molti ospedali. Ma, alla lunga, siamo convinti che solo un ripensamento del sistema nella prospettiva dell’appropriatezza clinica potrà dare risultati stabili per il futuro. E in questo percorso, lungo e difficile, la responsabilità delle scelte, e quindi del futuro, riguarderà tutti coloro che, a vario titolo, operano nel mondo della salute.
L’esempio di Kioto, nella prospettiva della sostenibilità, non è purtroppo un buon viatico, ma la strada va proseguita. Sarebbe già tanto se si riuscisse a promuovere e a diffondere i valori della sostenibilità e dell’appropriatezza con la stessa intensità e la stessa fede con cui si inneggia ai successi della medicina. Ovviamente bisogna crederci.    

 

di Cesare Catananti

Tags: Aprile 2013 sanità ssn

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