sanità - maurizio guizzardi: gemelli, centralità del malato, cuore del piano strategico
Nuovo Governo, nuove Giunte regionali, stessa storia: la sanità va rivista, nessuno lo fa, le cure non sono sempre accessibili, molti ospedali, non da ultimo il Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma, sono costretti a ricorrere anche agli ammortizzatori sociali, il settore pubblico è «malato», il privato è costoso. Questi e molti altri temi affronta con gran lucidità, in questa intervista, il dott. Maurizio Guizzardi, direttore generale del Gemelli, con tensione verso il futuro più prossimo: «Mi aspetto, da parte del nuovo Governo e della nuova Giunta regionale del Lazio, che venga ripensato e riformato questo sistema. Migliorare il nostro ospedale significa anche migliorare l'offerta e le prestazioni che la Regione assicura attraverso di noi ai cittadini. Bisogna anzitutto tornare su tre questioni, aperte ma non ancora portate a soluzione positiva per la crisi della Giunta regionale precedente: l'apertura di centri per il raddoppio della terapia intensiva neonatale, per la SLA e per la riabilitazione di pazienti con gravi cerebro-lesioni acquisite, in seguito a ictus o a politraumi». Si tratta di garantire prestazioni che «dovrebbe essere interesse della Regione erogare ai cittadini attraverso i centri migliori della propria rete assistenziale».
Domanda. Con la crisi si sente parlare dell'ingresso dei privati nella sanità. Una ricetta che può funzionare?
Risposta. Credo si possa pensare a un ampliamento della presenza dei privati nella sanità, ma non è solo questa la soluzione del problema, anche se il settore privato spesso dimostra di essere più efficiente del pubblico. È possibile ipotizzare in Italia un maggiore spazio per la sanità privata, garantita da forme diverse di assistenza rispetto a quelle «statali»; occorre pensare a forme di integrazione del finanziamento pubblico con quello privato. La spesa sanitaria privata rappresenta circa un terzo di quella sanitaria complessiva, e grava sulle tasche del cittadino anche a causa delle carenze del servizio pubblico, per diverse ragioni tra cui i lunghi tempi di attesa o la qualità delle prestazioni offerte. È possibile dare maggiore consistenza a fondi integrativi e assicurativi in grado di garantire la copertura delle prestazioni che oggi il cittadino paga direttamente. Questa si può definire la «terza gamba» della copertura sanitaria che prima o poi dovrà essere incentivata.
D. Come giudica l'attuale situazione della spesa sanitaria?
R. Quella italiana è la più bassa dei Paesi dell'Ocse e le recenti leggi prevedono un'ulteriore, significativa diminuzione. In tal modo purtroppo aumenterà la quota di spesa sanitaria che i cittadini dovranno pagare di tasca propria e bisognerà riformare profondamente il sistema, ricorrendo a forme di finanziamento alternative a quelle pubbliche.
D. Quali forme alternative?
R. Sviluppare fondi integrativi, modificare i livelli di assistenza, rivedere le fonti di finanziamento, perché è chiaro che la finanza pubblica in questa situazione non è in grado di garantire la sostenibilità del sistema. Ma è certo che il sistema del welfare in sanità deve rimanere di tipo universalistico, cioè lo Stato deve garantire tutte le prestazioni a chi ha redditi che non gli consentono alternative, e deve tutelare tutti i cittadini contro i grandi rischi. Mi chiedo se debba continuare quella che si può definire la finzione statale dell'offerta a tutti i cittadini di tutte le prestazioni: infatti, le risorse non sono tali da garantire a lungo questa universalità, quindi presumo che bisognerà ripensare i livelli di assistenza, per esempio differenziandoli per fasce di reddito. A chi ricorrerà a fondi integrativi o assicurativi bisognerà poi garantire benefici fiscali.
D. Che cosa sta accadendo oggi?
R. Di fronte alla carenza di risorse finanziarie si stanno abbassando i livelli di assistenza e molte prestazioni non sono più assicurate e garantite, quindi c'è un effettivo taglio delle prestazioni garantite dal Servizio Sanitario Nazionale. Ignorare questa situazione è come mettere la testa sotto la sabbia, eppure non c’è evidenza di questi temi nel dibattito politico e sulla stampa. Sono temi che dovranno essere affrontati anche perché la sanità non è solo un fattore di spesa per la finanza pubblica, ma è un motore di sviluppo economico; abbiamo prova di altri Paesi occidentali in cui il settore sanitario, sia per la parte riferita all'erogazione dei servizi sia per quella legata all'innovazione tecnologica o all'industria farmaceutica, è un settore economicamente molto rilevante; negli Stati Uniti per esempio rappresenta oltre il 20 per cento del prodotto interno.
D. Qual’è la spesa per la sanità?
R. Lo Stato italiano spende circa 110 miliardi di euro l'anno per la sanità, cui sono da aggiungere i 35 miliardi circa di costi che i cittadini sostengono di tasca propria. Parliamo di un aggregato che è vicino al 9 per cento del prodotto interno solo per la parte dei servizi sanitari; poi c'è l'indotto. Oltre a modificare il sistema di finanziamento, bisognerebbe migliorarne l'efficienza, anche se i margini di recupero non sono sufficienti a compensare i maggiori costi cui la sanità andrà incontro nei prossimi anni per diversi e noti fattori: l'invecchiamento della popolazione, le malattie croniche che saranno sempre più diffuse e legate all'allungamento della vita media, l'introduzione di nuove e costose tecnologie. Tutto ciò depone per una dinamica espansiva della spesa sanitaria cui i Paesi occidentali dovranno prepararsi, ma i cui costi non potranno essere coperti solo attraverso un pur necessario recupero di efficienza organizzativa e gestionale ed eliminando gli sprechi.
D. Come si può fare il «salto»?
R. Credo che ci siano margini di miglioramento nella gestione delle aziende sanitarie pubbliche. Bisogna però cambiare le regole, ad esempio responsabilizzando di più il management nella gestione, introducendo sistemi di valutazione più precisi e attenti ai comportamenti del management delle aziende, liberando la gestione delle aziende dall'invadenza della politica, rivedendo il sistema delle tariffe che non è assolutamente adeguato, separando gli erogatori dei servizi da chi compie i controlli e le valutazioni.
D. In che modo è cambiata la sanità in questi ultimi decenni?
R. Ha conosciuto modificazioni molto accelerate negli anni, proprio perché è un settore dall'alto contenuto tecnologico e di innovazione nella ricerca, e che quindi quotidianamente si confronta con processi di cambiamento.
D. Perché non si accordano tutti i direttori generali per dare suggerimenti al Governo?
R. Magari si riuscisse a farlo. Intanto bisogna dire che uno degli aspetti da modificare del Sistema Sanitario italiano è il modo con cui si è realizzato il federalismo. Abbiamo 20 sistemi sanitari regionali, per cui è complicato o impossibile compiere un'analisi omogenea sul piano territoriale. I cittadini italiani ricevono prestazioni e servizi di qualità diversa da una Regione all'altra, e i fenomeni di alta mobilità sanitaria ne sono la conferma. Ci sono Regioni più virtuose che si sono mosse per tempo, creando reti assistenziali che hanno preso in carico i pazienti, offrendo assistenza domiciliare, centri ambulatoriali e strutture intermedie; in altre Regioni ogni struttura vive isolata e cerca di assolvere nel modo migliore il proprio compito, sapendo però che all'esterno non riesce a collegarsi con gli altri poli che possono concorrere all'accettazione di un paziente. È un problema che affrontiamo anche nel nostro ospedale tutte le volte che dobbiamo dimettere un paziente che non ha più bisogno di cure per acuti: facciamo fatica a indirizzarlo perché non c'è un programma chiaro e definito; peraltro molti pazienti arrivano al pronto soccorso o all'ospedale per mancanza di strutture alternative di primo livello cui rivolgersi.
D. Come influisce l'evoluzione tecnologica sulla rete della sanità?
R. Un fenomeno verificatosi negli ultimi anni è quello della complessità assistenziale degli ospedali: oggi l'ospedale fa uso molto massiccio di tecnologie che richiedono investimenti rilevanti, che non possono essere compiuti in tutti i presidi ospedalieri anche perché l'introduzione di alte tecnologie necessita di competenze professionali non facilmente disponibili. Si è perciò affermata l'esigenza di definire meglio la gerarchia degli ospedali secondo i modelli per esempio di spoke e di hub, che richiedono l'uso di attrezzature, impianti e competenze che non possono essere diffuse in tutti i punti del sistema; ciò significa che sono anche necessarie una rete e una casistica minime affinché determinate strutture possano essere giudicate idonee a trattare una determinata patologia.
D. Secondo quale modello dovrebbe essere seguito oggi un paziente nell'ospedale?
R. Ciò che manca anche nelle strutture migliori è il medico capace di ricostruire il quadro complessivo del paziente, e quindi la sua visione olistica: in questi anni la specializzazione spinta della medicina ha portato i medici a possedere una cultura molto specifica ma «frammentata». Nel Policlinico universitario Gemelli stiamo cercando di dare una risposta intanto in termini organizzativi e professionali, mirando a costruire un sistema di cura strutturato in percorsi che accompagni il paziente attraverso i vari passaggi diagnostici e terapeutici nell'ospedale, e che riesca a mettere insieme tutto il quadro, la cosiddetta «presa in carico».
D. Voi siete pubblici o privati?
R. Siamo considerati o pubblico o privato a seconda dei casi. E questo è davvero singolare. La risposta è: siamo pubblici o comunque siamo di diritto pubblico, o enti di diritto pubblico non economici per quanto riguarda l'Ateneo, l'Università Cattolica del Sacro Cuore cui il Gemelli appartiene; ma dal punto di vista dell'assistenza sanitaria le autorità istituzionali regionali e nazionali ci considerano nei fatti privati; e nel tagliare i finanziamenti ci assimilano alle strutture private che operano nel Lazio; però - lo dico con ironia - quando si tratta di pagare l'Irap siamo considerati Pubblica Amministrazione, quindi la paghiamo con l'aliquota più alta.
D. Come pensa di risolvere questa assurda duplicità?
R. Stiamo cercando di creare le condizioni perché il nostro ospedale operi nelle migliori condizioni di efficienza; una volta centrato questo obiettivo, il tema di un'identità pubblica o privata, a mio giudizio, diverrebbe meno rilevante. La realtà è che ci comportiamo come un ospedale pubblico a tutti gli effetti e non selezioniamo i pazienti a seconda della convenienza economica, delle tariffe dei rimborsi e del costo dei trattamenti che i degenti potrebbero richiedere. Credo che sia questa la questione di fondo. Il privato deve badare al profitto e valutare la casistica nell'ottica della convenienza economica, per cui accoglie un paziente solo se mediamente ne ha un ritorno in termini di conto economico; il Gemelli accoglie tutti i pazienti senza distinzione e li cura, a prescindere dagli oneri cui va incontro.
D. Un direttore generale deve essere più umano o più freddo?
R. Non v'è dubbio che la razionalità sia una componente fondamentale. Parlando del Gemelli devo dire che questo ospedale ha una storia particolare, è nato dall'Università Cattolica del Sacro Cuore e quindi ha un'ispirazione e valori, rispetto ai temi dell'assistenza e della vicinanza al malato, che deve tenere conto di questa ispirazione. Come la carità, che comporta il farsi prossimo rispetto al malato: dobbiamo perciò coniugare le due dimensioni, umanità e razionalità. Nonostante le difficoltà economiche e i sacrifici cui è stato chiamato il nostro personale, proprio per questa motivazione superiore operatori e medici hanno risposto con grande disponibilità e partecipazione.
D. Parlando del piano strategico 2013-2016, quale «impronta» vuole lasciare?
R. Il punto di partenza del piano strategico è stata la presa d'atto dello squilibrio economico che c'era e che ancora in parte c'è, e da cui non si può prescindere per ogni intervento. Abbiamo adottato misure sul costo del personale, dei beni, dei servizi e dell'organizzazione. Bisognava ripensare l'ospedale: ottenere il massimo recupero economico progettando un ospedale diverso, basato sulla centralità del paziente, organizzato in aree di degenza a intensità di cure, non in reparti tradizionali, con meno letti di degenza e meno personale ma, nello stesso tempo, con una casistica più complessa, rilancio della ricerca, investimenti nell'innovazione e organizzato in 5 «poli» - Oncologia, Emergenza, Donna, Cuore, Neurologia - con l'obiettivo finale di offrire un'assistenza sempre più avanzata e di qualità in un quadro di equilibrio economico.
D. Cambierete anche le dotazioni tecnicali?
R. Cito soltanto qualche intervento: stiamo investendo in Chirurgia robotica, Radioterapia avanzata, Diagnostica per immagini; operiamo per lo sviluppo di tutte le aree perché un ospedale universitario come il Gemelli non può non avere tassi di innovazione rilevanti se vuole essere un punto di riferimento regionale, nazionale e internazionale.
D. Sono previsti tagli dei livelli occupazionali?
R. Non abbiamo attivato alcun processo di mobilità e sono certo che riusciremo ad evitarli. Mantenendo sempre aperto il dialogo con i sindacati, abbiamo fatto ricorso ad ammortizzatori sociali come la cassa integrazione straordinaria per 160 dipendenti e abbiamo rinnovato i contratti con i medici e con il comparto dei dirigenti sanitari e amministrativi, il tutto in un clima di rispetto e di alto senso di responsabilità, riuscendo a ridurre i costi del lavoro per circa 45 milioni di euro; stiamo recuperando altri 25 milioni di euro rinegoziando i contratti con i fornitori. Continuando su questa strada siamo fiduciosi che raggiungeremo il riequilibrio dei costi. Nostro obiettivo, però, è investire negli operatori e nei professionisti compiendo oculate operazioni di reclutamento, e nella ricerca. Abbiamo infatti creato un importante centro per la sperimentazione clinica, che dovrebbe attrarre risorse dall'industria farmaceutica; stiamo inoltre avviando una struttura che fornirà prestazioni anche in ambito privato, offrendo servizi e prestazioni ai cittadini titolari di fondi assicurativi e integrativi.
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