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caso stamina. compromesso tra la realtà e la scienza, un viaggio verso la verità

Il Parlamento ha approvato il decreto sul «caso Stamina» che offre due possibilità: continuare i trattamenti terapeutici in corso anche se non validati scientificamente o avviare la sperimentazione sull’uso delle cellule staminali per la cura di alcune malattie. Dopo un iter accidentato e conflittuale che per molti versi assomiglia a quello del caso Di Bella degli anni 90, con il decreto si raggiunge un compromesso tra le situazioni di fatto e le regole scientifiche da osservare, cioè tra essere e dover essere, tra empiria e criteri, tra disperazione umana e soluzioni possibili, tra verità credute vere in modo diverso da parte della società e da parte della scienza, alla ricerca della preziosa efficacia terapeutica. Se si guarda alla vicenda in modo filosofico, tutto assomiglia molto a un periglioso viaggio verso la conquista di una qualche verità.
Quale? Quella di scoprire e stabilire se un trattamento terapeutico che impiega delle cellule staminali, cioè che trapianta cellule donate da un corpo all’altro, ha effetti tali da poter dimostrare la propria utilità in medicina; cioè se funziona o no. Questo equivale a stabilire la verità delle cellule staminali. Il viaggio sembra appena cominciato e tutto lascia pensare che la sperimentazione troverà la verità che serve, bella o brutta che sia; la stabilirà emettendo la propria sentenza come se le cellule staminali fossero in un tribunale per essere giudicate. Ma stabilire la verità in generale non è così facile come si pensa, anche perché spesso quella che si sta cercando, come vedremo, è ritenuta il suo contrario, subdola, sfuggente, ambigua e in certi casi per niente inequivoca, luminosa, perentoria.
Però, qualunque sia quella che verrà fuori, è certo che una qualche verità è indispensabile per dirimere il conflitto che si è creato tra malati e scienza. In fin dei conti il decreto ha messo ordine nelle regole definite dalla scienza, perché fuori di esse non si può stare e l’ultima parola giustamente spetta alla scienza. Dire se una terapia funziona o meno è come affermare se «una verità alla quale si crede» sia vera o no. Quello che credono gli scienziati lo sappiamo, conosciamo il loro scetticismo, le loro ricerche, la loro avversità e contrarietà; per la maggior parte di loro si tratta di credere alla «non verità» dell’impiego di alcune cellule staminali (mesenchimali) in alcune malattie, di dimostrarlo con la sperimentazione, di liberare la medicina da inopportune invasioni di campo, da possibili truffe e speculazioni, da possibili inganni e improvvisazioni. Sappiamo anche cosa credono i malati e i loro familiari che, a dire il vero, non hanno molte possibilità di scelta.
Essi devono credere alla propria speranza, cioè vincere nella disperazione l’ostacolo dell’implausibile, dell’impossibile, dell’inconcepibile, aggrapparsi alla possibilità di un miracolo per quanto remoto esso sia.
Questa sperimentazione, quindi, si gioca tra scetticismo e ottimismo, tra naturale e sovrannaturale, tra inconcepibile e possibile. Si cerca una verità mentre sappiamo in partenza che le verità sono tante e che ciascuno conosce già la verità a cui credere e non credere. Si ricorre alla sperimentazione per confermare quello che sarà probabilmente disconfermato usando la dimostrazione della disconferma come una verità. La scienza ha le proprie credenze e le proprie convinzioni, quelle che fino ad un certo momento sono condivise dalla comunità scientifica; non è facile farle cambiare idea neanche quando le evidenze sono evidenti.
La storia della medicina è piena di evidenze non credute tali. Quindi si vedrà. Quel che è certo è che si tratta di una sperimentazione tutto sommato paradossale, molto diversa da quelle che normalmente si fanno nei laboratori e negli ospedali quando tutti operano per un risultato positivo, quindi sinergici, malati e scienziati, sperando nel successo e nel buon esito che, alla fine, è quello premiante. Qui si tratta di dimostrare, prima di ogni cosa, la «non verità» quindi di falsificare in senso popperiano una teoria terapeutica. Non è improbabile che la sperimentazione finirà nella polemica che non si placherà nel sospetto che non si riuscirà a scansare, perché si potrebbe avere da una parte la «verità» e dall’altra la «verità vera», cioè una verità più vera di un’altra verità, una scientifica e una sociale, ma soprattutto tante verità.
 
Lo scoglio della falsificabilità
Il nodo da sciogliere non è quello di «quale terapia cellulare», ma quello di falsificare il «metodo Stamina» perché gli scienziati sono convinti che sia fasullo. Supporre la «falsificabilità» di qualcosa significa dimostrare non qualcosa di vero, ma qualcosa di falso. Il termine falsificabilità si applica alle teorie, nel nostro caso alla terapia con le cellule staminali, che si credono vere ma che sperimentalmente possono essere non vere. Ci sono due modi di considerare la falsificabilità: quale fallibilità quindi vulnerabilità del metodo ammettendo un principio di correzione; in questo caso la sperimentazione dovrebbe spiegare le correzioni da apportare al metodo Stamina, quindi controllare che la teoresi di questo metodo non abbia contraddizioni nel corso della sua applicazione, ma controllare in questo caso non significa negare, semmai migliorare; quale confutazione, la sperimentazione confuta il metodo Stamina dimostrando, attraverso i dati della sperimentazione, che il metodo è inefficace.
Se sul caso Stamina si ha un giudizio preconcetto di non scientificità più che un controllo delle contraddizioni, si corre il rischio di imporre una confutazione semplicemente negativa. A questo punto per gli sperimentatori non sarebbe logico emendare una terapia inefficace. L’unica cosa che si può fare è accantonarla e sostituirla con la verità scientifica considerata vera: quella della scienza, che rimette a posto le cose secondo lo stato delle conoscenze fino a quel momento. Il principio di falsificabilità che tutti riconducono a Karl Popper, appartiene, da sempre, alla logica deduttiva classica e, più precisamente, alla categoria degli argomenti ipotetici (se P, allora Q) in uso fin dai tempi della medicina ippocratica: se la terapia con cellule staminali funziona, allora dovremmo avere dei benefici documentabili.
La forma generale di un’asserzione ipotetica è costituita da due enunciati posti in relazione dal connettivo «se… allora»: «se questo malato migliora allora la terapia funziona». Per la sperimentazione, il problema più grande è definire cosa significhi «miglioramento»; a parità di premessa terapeutica si possono avere più tipi di miglioramento, compresi tra il miglioramento di alcune funzioni, della qualità della vita, e la guarigione. Per cui la sperimentazione dovrebbe ricorrere a più forme ipotetiche, in particolare a due: la sperimentazione confermerà in positivo o in negativo la premessa terapeutica (modus ponens), se il malato migliora allora la terapia funziona, se il malato non migliora la terapia non funziona; la sperimentazione disconfermerà la premessa terapeutica (modus tollens) «se il malato è curato con cellule staminali, allora presenterà dei miglioramenti… se il malato non presenta miglioramenti allora non è curato dalle cellule staminali».
Questo è quello che Popper definisce il principio di falsificazione. Per la sperimentazione, quindi, si tratterà di ricorrere al modus tollens nel quale la stessa sarà semplicemente disconfermativa del metodo Stamina quale premessa terapeutica. Detto meglio: il modus tollens nella sperimentazione è fondamentale perché senza di esso non vi può essere la verifica delle ipotesi terapeutiche. Esso rientra nelle procedure di verificazione. Il termine «verificato», nella sperimentazione, può essere definito così: diagnosi sul possibile miglioramento o meno derivato da una premessa terapeutica, il metodo Stamina, attraverso relazioni di conferma e di disconferma della diagnosi stessa. Per la sperimentazione, tutti gli enunciati clinici devono essere riducibili agli enunciati metodologici della verifica, in modo che essi siano tutti decidibili, cioè sottoponibili ad un metodo effettivo, quello che si chiama «metodo sperimentale». Il metodo Stamina, quindi, non può essere accettato fino a quando non sarà verificato, cioè fino a quando esso resterà una pratica indecidibile e inverificabile.

Verificare che vuol dire?
In realtà, se proprio vogliamo riferirci a Popper, si dovrebbe distinguere verificazione da falsificazione per distinguere la logica (il modus tollens) dalla metodologia (la demarcazione), ma per la sperimentazione la logica e il metodo sono la stessa cosa. Distinguere logica da metodo è importante perché permette di demarcare (principio di demarcazione) teorie terapeutiche diverse senza discriminare teorie da altre teorie, ma solo distinguerle quali forme diverse di conoscenza terapeutica. Per la sperimentazione questa distinzione non è accettata, perché essa non è interessata a stabilire una pluralità di conoscenze, ma solo a circoscrivere ciò che è scientificamente rilevante da ciò che non lo è.
Se proprio volessimo riferirci a Popper, una proposizione terapeutica controllata sperimentalmente ha comunque un qualche significato, indipendentemente dal fatto se sia stata o meno verificata. È questo il senso di quella battaglia che propugna la necessità di rendere pubblico qualsiasi dato della sperimentazione, sia esso positivo e negativo, con ciò ammettendo una sorta di «principio di parsimonia»: della sperimentazione non si butta via niente. Insomma, detto in altri termini, in una sperimentazione la validità di qualcosa dovrebbe andare oltre la sua verifica.
Se la sperimentazione decretasse l’inefficacia terapeutica del metodo Stamina come probabilmente sarà, allora la terapia con cellule staminali dovrebbe essere considerata «altra conoscenza», il cui valore conoscitivo resta comunque importante. Nel momento in cui si sottopone a sperimentazione il metodo Stamina, si tratta certamente di confutarlo ma nello stesso tempo di garantirgli il diritto ad essere confutato senza preconcetti. E questo non sono sicuro che avverrà. Ribadisco: a me pare che la sperimentazione vuole falsificare più che verificare, cioè vuole dimostrare che il metodo non funziona. Punto.
Infine un’ultima osservazione. Nella riflessione dei filosofi sui problemi in generale della verifica e della falsificazione è emersa un’obiezione più importante, che potrebbe riguardare la sperimentazione del metodo Stamina: non è metodologicamente possibile dirimere la verità e la falsità di due conoscenze in competizione, perché in gioco non vi sono singoli fatti ma complessi «sistemi di proposizioni», per cui è necessario che la confutazione da parte della sperimentazione ricorra ad «ipotesi ausiliarie».
Potrebbero emergere in sede di sperimentazione singole contraddizioni senza che per questo si debba rifiutare un intero sistema teorico. È la tesi, cosiddetta «olistica» che nel nostro caso significa che, se non si definisce bene l’esito auspicabile con la sperimentazione, è possibile che si abbiano risultati minori, miglioramenti secondari e, in ogni caso, invarianze significative, o non peggioramenti. Può darsi che la sperimentazione non disponga di evidenze veramente evidenti, cioè di verità veramente vere. In questo caso sarebbe davvero importante assumere un approccio olistico che non butti via niente della sperimentazione fatta, anche se la falsificazione del metodo Stamina fosse indiscutibile. In questo caso la lezione di Popper sarebbe davvero importante, non dimentichiamo che abbiamo a che fare con persone e bambini gravemente malati, si tratta di ammettere la possibilità che esistano conoscenze positive o negative, indipendentemente dai metodi usati per verificarle. Conoscenze gap e conoscenze glup.

Gap e glup
Il caso Stamina, quindi, potrebbe trovarsi tra «gap» e «glup», vale a dire giudizi che ammettono gap di verità, «né veri e ne falsi» (truth value gap), e giudizi che ammettono glut di verità, «tanto veri quanto falsi», (truth value glut). Per quanto nella sperimentazione si tenda a definire evidenze sulla base di dati incontestabili, alla fine anche i dati possono risultare ambigui perché potrebbero dipendere dalle convinzioni di chi la giudica, dagli interessi in ballo, dalle esperienze personali. L’ambiguità dei giudizi, quindi, è il primo problema della sperimentazione e probabilmente la verità che si tirerà fuori sarà quella con un basso grado di ambiguità. La sperimentazione dovrà quindi destreggiarsi tra: indeterminazioni (dati non del tutto certi), sottodeterminazioni (dati insufficienti), sovradeterminazioni (dati abbondanti), quelli che riguardano i vissuti dei malati.
La sperimentazione, con tutto il peso della scienza, dovrà quindi assumersi la responsabilità di chiarire quella che tecnicamente si chiama «verità epistemica», cioè la responsabilità di dire con chiarezza nel bene e nel male non ciò che è vero, ma ciò che è ritenuto vero. Essa dovrà inevitabilmente implicarsi in un giudizio scientifico chiarendo a noi tutti i fatti, le famose evidenze, che ha considerato e sulla base dei quali spiegherà il proprio giudizio. In altri termini, la sperimentazione dovrà dimostrare di sapere qualcosa circa l’impiego delle cellule staminali, anzi molto anche se non proprio tutto, spiegare quale sia la verità. Il giudizio veritiero della sperimentazione dovrà andare oltre il gap e il glup, e quindi con una propria verità che, con ogni probabilità, sarà negativa.

Procedure di verità
È molto difficile che di una terapia si dimostri tanto l’inefficacia che l’efficacia assoluta. Agli occhi dello scienziato avere tante verità sullo stesso fenomeno è inaccettabile perché la verità è solo quella della scienza. Ma agli occhi di un filosofo questo è tutt’altro che implausibile, e non è per nulla contraddittorio, anzi il contrario. Oggi più o meno tutti sono concordi nel definire la verità come l’efficacia di un procedimento conoscitivo. Se la procedura conoscitiva decisa ha successo, allora si ha verità perché oggi definire la verità significa definire il criterio attraverso il quale essa viene definita. Definizione e criterio coincidono.
Ma se questo è vero, allora nel caso in cui la sperimentazione dimostrerà la non verità delle cellule staminali, chi ci dice che tale dimostrazione non sarà dipesa dal criterio e dalla procedura che si sono decisi? Cioè, chi ci dice che cambiando criterio e procedura non cambi anche la verità? Questo è il dubbio rimasto in sospeso dopo la sperimentazione del caso Di Bella. Ma è il dubbio che normalmente coglie il clinico mentre si prova a curare qualsiasi malattia. Se la verità di una terapia dipende oltre che dal principio attivo, anche dalle modalità terapeutiche, si comprende bene che, variando le modalità, è teoricamente possibile variare anche l’efficacia del principio attivo.
Questo per la scienza soprattutto farmacologica è faticoso da digerire, anche se gli oncologi conoscono bene i limiti dell’impersonalità dei loro preziosi algoritmi terapeutici. Gli oncologi, ma non solo loro, sanno quanto sia importante la modalità terapeutica, oltre a quella delle sostanze che trasferiscono nei corpi dei malati con la chemioterapia. Ma, nonostante tutti sappiano che la verità dipende dalla procedura conoscitiva che si impiega, in medicina ancora oggi qualsiasi terapia è misurata dall’impiego efficace o meno del principio attivo indipendentemente dalle modalità. Tuttavia la sperimentazione deve definirsi come una procedura, cioè deve definirsi quale modalità al fine, si dice, di garantirne la riproducibilità, come vedremo fra poco.
 Se consideriamo che ogni individuo è un «caso» in senso clinico, se consideriamo che criteri e mezzi terapeutici hanno effetti diversi sui casi diversi e se consideriamo l’enorme variabilità di tali casi, per un filosofo non solo è possibile che nello stesso tempo vi siano verità più vere di altre e verità meno vere di altre, ma è normale che vi siano tante verità e tanti gradi di verità. Per quanto non possa piacere a certi rigoristi della scienza, in medicina senza essere filosofi si sa che intorno ai malati, cioè ad esseri umani resi ancor più complessi da fenomeni patologici, si hanno sempre tante verità, grappoli di verità, tante personali verità.
Altrimenti non si capirebbe come mai a parità di malattie e a parità di farmaco le persone hanno reazioni diverse. Come mai il placebo funziona come se fosse un farmaco. Come mai i farmaci generici, cioè con lo stesso principio attivo dei farmaci di marca, sembrano meno efficaci. Tale complessità filosofica, per ragioni non solo pratiche ma anche regolamentari, la scienza è costretta quasi ad ignorare, pena il rischio di accettare l’idea che per ogni caso vi sia una verità, quindi sprofondare nel relativismo più estremo e sostanzialmente rinunciare ad un qualche criterio di verità oggettiva.
 
Evidenze e verità tra oggettività e convenzioni
Per la scienza è del tutto ragionevole stabilire una verità standard, una verità media, una verità oggettiva, alla quale ricondurre l’enorme variabilità dei casi umani attrezzandosi a recuperarne gli scarti e a correggere il tiro delle scelte terapeutiche. Uno dei metodi più impiegati dalla clinica è quello per «tentativi ed errori», proprio perché il malato è tutto meno che una trivial machine, cioè una lavatrice programmabile ed obbediente, semplificabile nello scambio prevedibile input/output. I malati non sono lavatrici e spesso agli input che prescriviamo loro non corrispondono gli output previsti. Per tutte queste ragioni le verità della scienza in genere sono «verità convenzionali», nei confronti delle quali vi saranno sempre tante verità verosimili più che assolute, e come tali provvisorie, rivedibili e falsificabili.
Ma intanto, finché non sono falsificate, quelle sono, e con quelle dobbiamo arrangiarci. La sperimentazione approvata dal Parlamento per il «caso Stamina» obbedisce filosoficamente a una sorta di «teoria della corrispondenza» tra le terapie tentate e i loro esiti; in questo caso il criterio di verità è rappresentato dalla famosa evidenza scientifica che può essere tanto negativa quanto positiva, il che vuol dire che l’esito della terapia sarà l’evidenza che deciderà la verità o il suo contrario. Nell’evidenza dell’esito è come se si sintetizzassero tante forme di verità e non verità: corrispondenza, rivelazione, conformità ad una regola, coerenza e utilità. L’evidenza dell’esito si propone, quindi, comunque come una «verità forte». Ma oggi, soprattutto nell’ambito della filosofia contemporanea, le teorie forti di verità sono oggetto di molte critiche e, alla fine, costituiscono una minoranza.
Oggi nei confronti delle verità scientifiche della medicina la società, per tante ragioni alle quali accenneremo tra breve, si dimostra sempre più disincantata e sempre meno subordinata ma, soprattutto, tutt’altro che passiva. I casi Di Bella e Stamina ne sono la dimostrazione, ma non solo essi, ormai tutte le malattie sono considerate dall’esigente, cioè dall’ex-paziente, non più come delle verità assolute e incontrovertibili, ma come delle verità tutto sommato relative, con le quali accordarsi e sulle quali esprimere la propria opinione. Per gli scienziati l’opinione non ha un grande valore, eppure oggi essi devono farci i conti. O, meglio, le loro verità si devono confrontare con le opinioni delle persone.
Oggi la società definita post-moderna, diversamente dalla scienza medica, guarda alle verità non come a un valore dogmatico immune da contraddizioni, da fragilità, da incertezze, ma come verità discutibili, cioè sempre verità ma non più assolutamente indiscutibili. Ciò non significa mettere tra parentesi le verità della medicina, ma accettarne semplicemente la sua natura complessa, cioè la sua discutibilità. Alla fine, la verità medica discutibile, cioè confutata dall’opinione del malato, sia essa sperimentale o meno, tende ad essere un altro modo di dire la verità sulla verità. Cioè la discutibilità riguarda non tanto i valori assoluti delle verità cliniche, ammesso che esistano, ma i modi di essere verità.
Ancora i modi, ancora i criteri, ancora le regole, ancora le procedure. Per questo in medicina è difficile che vi sia una verità assoluta, per questo le evidenze statistiche dell’ebm (medicina basata sull’evidenza) che ambiscono ad essere verità assolute, in realtà sono verità più vere e verità meno vere, cioè tante verità. Ribadisco che questa pluralità di verità in medicina è favorita dall’enorme variabilità degli individui e dall’enorme varietà delle specificità individuali, a partire ad esempio dal patrimonio genetico di ognuno di noi.

La cultura della cura
Ma, a rendere ancor più complesso il lavoro della medicina, non ci sono solo le peripezie dell’idea di verità, ma anche grandi cambiamenti culturali sulla definizione di cura. Da oltre mezzo secolo la nozione di «cura» nella nostra società è cambiata diventando il mezzo per «poter essere» e quindi per «rimediare» a qualsiasi forma relativa di finitudine e di decadimento. Il «poter essere», che è un’idea esistenzialista che ci ricorda Heidegger, dipende dalla cura che l’uomo ha di se stesso, cioè dall’uso proattivo e rivendicativo che egli fa della medicina quando è ammalato.
Non è un caso se oggi aumentano i conflitti legali tra cittadini e medici, se i cittadini, specie se vittime di certe malattie rare o di malattie croniche, diventano veri co-terapeuti se non ricercatori, e se i cittadini in generale sono sempre più insofferenti nei confronti del proceduralismo scientifico, cioè se le loro tragedie si scontrano contro i tempi e i metodi della scienza. Cioè se le loro verità personali si scontrano con le verità della scienza. Il caso Di Bella ieri e Stamina oggi sono l’espressione di inediti conflitti tra società e scienza, che probabilmente sono destinati a crescere nel tempo.
Entrambi i casi sono: terapie alternative a quelle scientificamente ammesse, cocktail a dosaggi variabili scarsamente verificabili, fenomeni mediatici strumentalizzati dalla politica, oggetto di conflitti tra magistratura e medicina ecc. Entrambi si rifanno a malattie molto gravi, anche se con un’incidenza epidemiologica diversa e con una forte implicazione morale esposte a un forte rischio di speculazione. Il caso Di Bella costituisce una delle pagine più nere della medicina contemporanea. Nel 1999 ci obbligò a una sperimentazione che ne sancì l’inefficacia terapeutica sospendendo per molti malati il trattamento chemioterapico, ma compromettendo fatalmente l’esito delle loro curve di sopravvivenza.
Oggi abbiamo il caso Stamina pieno di ambiguità e di forzature, nel quale le «verità di fatto» dei malati diventano antagoniste delle «verità di ragione» degli scienziati. Ma tanti casi simili si hanno tutti i giorni nei confronti dei comuni trattamenti per comuni malattie. C’è chi dice che il trattamento non sperimentato funziona, e chi dice che, in base alle conoscenze disponibili, il trattamento non può funzionare. Ma oggi i malati contrattano le verità dei loro trattamenti, e questa è indubbiamente una novità. La cosa drammatica è che questo contrasto tra scienza e società, se non governato, finisce per deflagrare diventando un fenomeno mediatico.
Nel caso Stamina, come nel caso Di Bella, il sistema sanitario-autorizzativo pubblico è andato in tilt: autorizzazioni contro autorizzazioni, famiglie incastrate tra magistrati e ospedali, decreti e contro decreti, e il tempo che nella coscienza dei malati scorre come «sprecato»; poi «l’effetto Celentano», il classico «deus ex machina» che fa trovare le soluzioni che sembravano non esserci, cioè quelle legate al buon senso quindi alle visioni non burocratiche del mondo.
Un’altra novità del nostro tempo è che lo scontro tra verità ormai diventa inevitabilmente un fenomeno mediatico che, in quanto tale, ha due implicazioni: una negativa, perché tende a subordinare la decisione scientifica alla decisione sociale, cioè a delegittimare la scienza in quanto tale; una positiva, perché la pressione mediatica induce la scienza ad essere meno burocratica, a confrontarsi con le complessità sociali, a verificare quelle che altrimenti non sarebbero neanche degne di meritare una sperimentazione.

Smoke and mirror
Il caso Stamina ha suscitato la ribellione degli scienziati in tutto il mondo. «Smoke and mirror» è il titolo ormai diventato famoso di «Nature», a partire dal quale la scienza internazionale ha condannato il decreto Balduzzi sul caso Stamina. Smoke è metafora di incoerenza, di andamento caotico, di inconsistenza, e si riferisce all’implausibilità scientifica di una terapia che impiega, per certe malattie, le cellule staminali mesenchimali. Mirror in genere è metafora di vanità, di superficialità, di apparenza, di narcisismo, di ostentazione, che si riferisce ai comportamenti opportunisti delle persone e che rappresenta bene, secondo me, un ministro che, candidato alle elezioni politiche in campagna elettorale, di fronte al caso Stamina, si mostra più preoccupato per la propria immagine personale che per le sorti della scienza. Un ministro che tra la scienza e i media ha scelto «le Iene», Celentano e l’intramontabile Lollo. Sarebbe da manuale la sua incredibile malleabilità alle ragioni extra scientifiche.
 «Entre le cristal et la fumée» è il titolo di un libro del 1979 di H. Atlan, che propone un compromesso tra l’idea di ordine e quella di disordine, tra la regolarità delle leggi di natura e la casualità dei fenomeni naturali, e quindi tra un’idea di scienza razionale e un’idea di scienza ragionevole nei confronti della complessità, della varietà e unicità degli eventi.
Il ministro Balduzzi tra il «cristallo e il fumo», come scrive «Nature», avrebbe quindi scelto lo «specchio» e, come lui, addirittura un pezzo di Parlamento, nonostante i tanti «scienziati» che contiene. Il pastrocchio che solo di recente è stato corretto con un decreto completamente riscritto dimostra come il caso Di Bella non ci abbia praticamente insegnato nulla, nonostante costituisse una delle pagine più vergognose della nostra medicina contemporanea.
Con il decreto Balduzzi è come se la politica avesse scalzato la scienza autorizzando nel pubblico un trattamento scientificamente non provato per ragioni mediatiche. Basta questo a farci considerare dal mondo come un Far West e hanno ragione coloro che dicono che, se non avessimo aggiustato il tiro, avremmo corso il rischio di essere estromessi dai circuiti internazionali della ricerca scientifica. I compromessi da fare, tra il cristallo e il fumo, a parte accantonare lo specchio (infrangerlo porta male), riguardano semplicemente l’umanità della scienza che, di fronte alla disperazione umana, deve essere tanto razionale quanto ragionevole, quindi accettare l’idea che non può essere la disperazione a doversi adattare al suo proceduralismo ma il contrario, senza per questo venire meno alla propria ortodossia scientifica.
Umanità vuol dire che, di fronte a casi circoscritti, si definiscono, ad esempio, speciali concetti di «beneficio terapeutico relativo», limitatamente alla gravità della malattia, alle presumibili attese di vita, in luoghi delegati che attuano procedure ad hoc, cioè pensate appositamente per terapie che si sa essere sottodeterminate e paraconsistenti, con tempi e modalità ben definite, il tutto in un assetto rigorosamente sperimentale.
La scienza in questi casi speciali deve semplicemente verificare delle plausibilità, cioè occuparsi delle lacune epistemiche delle teorie terapeutiche, degli errori categoriali dei trattamenti, delle presupposizioni che mancano alle tesi in campo, e imparare a dialogare con la società. Come fu per il caso Di Bella, anche nel caso Stamina la scienza sembra contrastante la società. Nel caso Di Bella l’oncologia perse una grande occasione di dialogo sociale, si arroccò nel proprio scientismo, non riuscendo a sintonizzarsi con la disperazione umana, finendo con una sperimentazione sulla quale davvero dobbiamo stendere un velo pietoso.
Nel caso Stamina oltre le ragioni dell’evidenzialismo scientifico, troppe sono quelle da parte degli scienziati che tradiscono preoccupazioni per lesa maestà, per i domini violati, per le prerogative da difendere, tutte cose giuste ma che dimenticano che la condizione di fondo della scienza è la sua fallibilità e umiltà, e quindi che è possibile, anche se con margini infimi di probabilità, che dalle verità di fatto sia possibile, dopo verifica accurata, ricavarne delle verità di ragione. Quindi è l’umanità il vero compromesso tra il cristallo e il fumo e tra il fumo e lo specchio. Ma il grande ostacolo a questa visione neo umanitaria della medicina viene dal suo storico scientismo. Che cosa è?

Il problema dello scientismo
«Scientismo», «scientisti»: per alcuni sono parole che suonano sgradevoli. Forse è quel suffisso «ismo» che suona male. Ha un sapore un po’ dispregiativo che evoca cose come nazismo, economicismo, meccanicismo, marxismo, ma che nella nostra lingua è semplicemente la derivazione di una categoria di nomi comuni: alcolismo, turismo, metabolismo, strabismo, ottimismo, automobilismo ecc. Lo «scientista» è uno che ha un certo atteggiamento dogmatico nei confronti della scienza, considerata come unica forma valida di sapere e quindi superiore a qualsiasi altra forma di conoscenza. Per lo scientista il sapere scientifico è ad un solo tipo di razionalità, in generale quella positivista della fine dell’800, quindi per lui la scienza finisce per essere sostanzialmente una «definizione chiusa» che, in medicina, purtroppo non funziona e crea un mucchio di problemi.
Meglio quindi le definizioni aperte nelle quali le razionalità si confrontano con altre razionalità, le conoscenze sono molteplici e i modi di conoscere diversi. In medicina, a parte il caso Stamina, normalmente è d’obbligo tanto la razionalità che la ragionevolezza, cioè una visione non rigida della scienza che sappia, oltre che applicare ovviamente conoscenze scientifiche, anche dialogare con le situazioni, le contingenze, le complessità, le specificità di un malato. In medicina, il valore della scienza non è in discussione, del resto, come si potrebbe? La scienza in medicina, se usata in modo dogmatico, ha nefasti effetti collaterali. Per cui non è in discussione il suo valore, ma il modo di usarla. I malati sono più complessi degli elettroni.
Il medico non è mai solo scienziato, è anche un filosofo, un pragmatista, un tecnico, un eticista, un ermeneuta, cioè è uno che se la deve vedere con una complessità scientifica e non solo, che nonostante tutto resta poco riducibile. Un medico non può essere né scientista né relativista (colui che nega i valori assoluti delle verità oggettive), deve stare in equilibrio, quindi stemperare l’assolutismo delle oggettività senza cadere nelle trappole del relativismo velleitario, che nega nelle sue forme estreme alle oggettività i valori delle evidenze. In un malato le oggettività e le soggettività della malattia non sono separabili. Ma fare questo non è facile. Gli errori, gli abbagli, gli equivoci sono costantemente in agguato. La medicina nella sua storia ha sempre cercato solide verità scientifiche, di essere il più possibile una scienza il più possibilmente esatta, e a volte ha rischiato di cadere in tentazioni scientistiche. Anzi la sua storia spesso è storia di scientismi.
Un esempio è la «evidence based medicine« (ebm) prima citata, oggi molto criticata ma fino a ieri considerata proprio, dalla logica sperimentale, una verità indiscutibile. Essa ambisce a dedurre la decisione clinica dal valore apodittico dell’evidenza statistico-epidemiologica quale prova di scientificità. Purtroppo le malattie delle persone non sono facilmente riducibili a statistica, ogni malattia è un caso a sé. Questo non vuol dire che non esistono evidenze scientifiche, e meno che mai che l’ebm sia inutile, tutt’altro, ma solo che bisogna fare molta attenzione nel loro uso quindi non essere scientisti. Oggi i clinici avanzano critiche interessanti ad un certo proceduralismo, cioè ad un modo predefinito di conoscere la malattia «basato» proprio su evidenze statistiche, e riabilitano i criteri osservazionali-empirico-fattuali, le intuizioni, le sensibilità, il buon senso, l’esperienza, l’opinione del malato.
I clinici oggi parlano di «malato complesso» per dire che, nei suoi confronti, non si può essere scientisti ma abili e saggi ragionatori. Abbiamo detto che nel 1999 con il caso Di Bella l’oncologia perse una grande occasione di dialogo sociale, proprio perché si arroccò nel proprio scientismo, non riuscendo a sintonizzarsi né con la disperazione umana né con i nuovi significati culturali di cura.
Certamente i principi attivi impiegati in quel trattamento risultarono inefficaci alla sperimentazione ma, come hanno dimostrato tante innegabili testimonianze, il modo di curare di quel trattamento, la personalizzazione delle terapie, la conoscenza minuziosa del malato, il suo coinvolgimento, la filosofia terapeutica di fondo, avrebbero meritato più scienza e meno scientismo e, quindi, più attenzione da parte degli oncologi. Cosa impediva all’oncologia di trasferire quel patrimonio di esperienza alle cure oncologiche a comprovata efficacia terapeutica? Una terapia non è fatta solo da sostanze o da cellule, ma anche da modi di curare. Oggi la cura è molto di più della terapia, oggi il rimedio è molto di più di un farmaco. Oggi è importante, al pari della terapia, la relazione terapeutica.

Verità gappy    
«Stamina», «Di Bella» e tantissimi altri casi patologici si inquadrano in quel genere che i filosofi chiamano «gappy», cioè verità «non designate» sulle quali non abbiamo informazioni sufficienti per stabilire se sono vere o false. Verità gappy e disperazione umana fanno una miscela esplosiva. Le verità gappy non sono ricusabili a priori ma debbono essere verificate, perché da esse potrebbero nascere altre verità o essere smascherate come non verità. Gli scientisti pretendono che le loro verità siano sempre vere in qualsiasi circostanza empirica, ma fuori dai laboratori esiste un’altra complessità.
I patrocinatori del metodo Stamina ritengono che il loro sia una specie di panacea. Se non si dispone di prove a favore di una certa tesi, non si può concludere, come fanno alcuni scientisti, che la tesi è falsa tout court, o dedurne un meccanico principio precauzionale di pericolosità, ma nello stesso tempo, senza prove, non si può dire che una tesi sia vera; per negare una tesi non si può screditare chi la propone; anche se ha dubbia credibilità morale, bisogna confutare la tesi indipendentemente da chi la propone, quindi sperimentare; è normale che si tenda a fidarci dell’autorità scientifica, ma in linea teorica anch’essa ha dei limiti di conoscenze per cui esiste la possibilità che la scienza sbagli. Insomma, se disperazione umana, scientismo e opportunismo politico sono inconciliabili, è meglio lasciare a casa i dogmatismi, i pregiudizi, le riserve mentali e andare in chiaro.

Analogie e specificità
Ma in cosa consiste il compromesso adottato dal Parlamento italiano? In realtà i compromessi sono due: il primo, come abbiamo detto, fa coesistere il trattamento terapeutico, ancorché non comprovato, con la procedura sperimentale, cioè i bambini non interrompono i trattamenti in corso; il secondo è tutto interno al mondo scientifico, cioè si considerano le cellule staminali un farmaco assimilando il trapianto terapeutico da sperimentare ad una sperimentazione farmacologica, sottoponendo l’uso delle cellule staminali alle regole e ai principi della metodologia farmacologica e alle relative autorità scientifiche preposte.
Le preparazioni cellulari autorizzate ad entrare nei centri di trapianto devono possedere specifici, accertati requisiti di qualità e di sicurezza e rispettare le indicazioni di legge. «Non sarà possibile–conclude la nota–ad un centro di trapianto utilizzare i prodotti Stamina perché, date le modalità di preparazione, devono essere rispettate le norme di qualità farmaceutica, come appare del tutto evidente in questo caso». Il decreto non fa altro che recepire queste direttive europee: «La sperimentazione clinica del metodo Stamina partirà dal 1° luglio 2013 e per 18 mesi anche in deroga alla normativa vigente, a condizione che i medicinali, per quanto attiene alla sicurezza del paziente, siano preparati in conformità alle linee guida di cui all’articolo 5 del regolamento europeo 1394 del 2007».
Infine il decreto specifica che, per garantire «la ripetibilità delle terapie, le modalità di preparazione sono rese disponibili all’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) e all’Iss (Istituto Superiore di Sanità)», che cureranno anche la valutazione della sperimentazione. L’Iss farà anche «un servizio di consulenza multidisciplinare di alta specializzazione per i pazienti arruolati». A scanso di equivoci, dichiaro subito che, se ci sono regole internazionali, esse vanno rispettate almeno fino a quando non saranno ridiscusse.
Da filosofo dico tuttavia che una cellula staminale e un farmaco corrispondono di solito a due ontologie diverse, per altro ben chiarite prima di ogni altra cosa dalle definizioni scientifiche (Oms per esempio). La prima è un piccolissimo organismo vivente, il secondo è rispetto, ad essa, una sostanza in grado di influenzarlo. La prima è un sistema organico a complessità superiore, la seconda è «sub-stantia» quindi sempre e comunque subordinata al sistema organico. Le differenze ontologiche, come sanno tutti gli scienziati, sono decisive per definire le tassonomie, cioè le classificazioni, in ragione delle quali una cellula staminale dovrebbe essere classificata tra gli organismi viventi, mentre la sostanza che compone il principio attivo di un farmaco dovrebbe essere classificata tra i componenti della chimica organica, o farmacologica, o biochimica.
Nel momento in cui si decide, per diverse ragioni, di ridurre una cellula ad una sostanza, si rischia di ridurre una tassonomia ad un’altra tassonomia, e quindi un modo di conoscere ad un altro modo di conoscere, e infine un modo di agire scientifico, quindi una prassi, ad un’altra prassi. Mi pare di capire che, a livello internazionale, per tante buone ragioni si sia deciso di usare rispetto a certi trattamenti che impiegano cellule staminali, l’analogia equiparando una cellula a una sostanza. È il classico esempio di verità convenzionale, legata al contesto di conoscenze disponibile e, come tale, rivedibile e provvisoria. Ma se l’uso dell’analogia aiuta la scienza nel suo lavoro tassonomico e non solo, l’analogia non annulla le differenze ontologiche che pur esistono tra una cellula e una sostanza.
Se poi da queste differenze vengono a dipendere le prassi terapeutiche o quelle sperimentali, e quindi le metodologie che si impiegano per rispondere alla disperazione umana, si comprende l’importanza di connotare l’analogia quanto meno con delle specificità. L’ornitorinco è un mammifero che allatta i propri piccoli, ma che fa le uova, cioè è un «quasi mammifero» e un «quasi uccello». Se l’ornitorinco non si può classificare ne tra i mammiferi né tra gli uccelli, allora si tratta semplicemente di riconoscerne la specificità, cioè di non negarne l’ontologia. L’ornitorinco è ornitorinco. Quindi, se le regole della scienza ritengono opportuno dichiarare delle analogie sapendo che le analogie non sono eguaglianze, le regole devono essere così sagge da non cancellare le specificità.
Una cellula staminale e una sostanza sono analoghe non perché lo sono davvero, ma solo perché convenzionalmente la comunità scientifica ha deciso che sono «ontologie quasi analoghe», cioè una «quasi» cellula e una «quasi sostanza». Per cui ciò che sarà vero per la procedura farmacologica, sarà vero anche per la procedura trapiantalogica. Cioè una verità sperimentale circa le cellule staminali sarà vera per analogia con i criteri della sperimentazione farmaceutica.
Se dovessimo dedurre meccanicamente dall’analogia cellula/farmaco la metodologia sperimentale che normalmente si usa per i farmaci, non sono sicuro che avremmo la verità che si cerca. Ma ora non si può dire. Vedremo. Il bello dell’ornitorinco, ma anche delle cellule staminali, è di costringerci a ripensare le classificazioni e quindi la visione del mondo che noi credevamo perfetta. Il caso Stamina può essere una bufala, una deprecabile speculazione, oppure una nuova possibilità terapeutica, e la scienza deve aiutarci a capirlo come si diceva una volta per la medicina, in «scienza e coscienza».   

del prof. Ivan Cavicchi, docente di Sociologia dell’organizzazione sanitaria di Filosofia della medicina dell’università di Tor Vergata

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