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ANDREA PONTREMOLI (DALLARA): AUTO, INNOVAZIONE E COMPETIZIONE PER VINCERE

Andrea Pontremoli Dallara Automobili

In una canzone di una decina di anni fa Lucio Dalla mette in bocca ad Ayrton Senna, per molti il più grande pilota di auto da corsa di tutti i tempi, il racconto della sua ultima gara, avvenuta sul circuito di Imola il primo maggio 1994 durante il Gran Premio di San Marino di Formula 1, in quella che Senna-Dalla chiama «una terra di sognatori». Uno di questi sognatori, lucido e appassionato, calcolatore e avventuroso, innamorato tanto dei numeri quanto delle auto da corsa, si chiama Andrea Pontremoli: per 27 anni ha lavorato in IBM Italia cominciando, figlio di un mugnaio di Bardi nella Val Ceno in provincia di Parma, come tecnico della manutenzione, e compiendo tutto il «cursus honorum» fino a diventare nel 2004 presidente e amministratore delegato di un’azienda che solo in Italia conta 11 mila dipendenti.
Sei mesi fa la svolta: l’uscita dal vertice dell’emanazione italiana della Big Blue e il «ritorno a casa», nella sua Val Ceno, come socio di minoranza e amministratore delegato di Dallara Automobili: invenzione imprenditoriale dell’ingegner Gian Paolo Dallara che, dopo aver lavorato nelle più importanti case automobilistiche della zona (Ferrari, Maserati, Lamborghini, De Tomaso), nel 1972 si mise in proprio e fondò l’azienda che porta il suo nome a Varano de’ Melegari, dall’altra parte della valle del Ceno. Un’azienda che oggi si trova ai vertici internazionali dell’automobilismo sportivo e di altissime prestazioni. Un altro sognatore? «Forse–risponde sorridendo Pontremoli–, ma di quelli emiliani, concreti, che hanno, sì, dei sogni, ma poi sono capaci di realizzarli». Il sogno, divenuto realtà, di Dallara e Pontremoli è oggi un’azienda con 160 dipendenti, un fatturato annuo intorno ai 50 milioni di euro e la caratteristica, comune, con IBM Italia, di essere leader nel proprio settore: «Nel 2007–sottolinea con compiacimento il neo amministratore delegato–, Dallara ha vinto la classifica della prestigiosa rivista inglese ‘Professional Motorsport World’, che ha classificato Dallara come miglior costruttore di telai a livello mondiale, precedendo nomi come McLaren, Porsche, Lola, Ferrari e Bmw». Nel corso dell’intervista Pontremoli usa più volte le parole classifica, competizione, vantaggio, primato: «Perché nel mondo delle auto sportive l’unica cosa che conta è il tempo sul giro e arrivare prima degli altri, altrimenti si è fuori». Ma forse, ora che è finita un’altra competizione, quella elettorale, e che il Paese deve comunque rimettersi in pista, o almeno provarci, la sua testimonianza personale e imprenditoriale può assumere un significato più vasto: il «modello Dallara» può funzionare per l’Italia, e in che misura, per vincere quell’altra competizione, ancora più importante, dalla quale dipende il futuro economico dei suoi abitanti?

Domanda. Da manager a imprenditore, a capo di un’azienda con poco più di un centesimo di dipendenti di quella in cui ha precedentemente lavorato. Quali le differenze?
Risposta. Certamente le differenze sono grandi e numerose, ma vorrei partire dalle analogie che, peraltro, sono le ragioni alla base della mia scelta.

D. Quali sono queste analogie?
R. La principale analogia fra IBM Italia e la Dallara, come ho già accennato, è che entrambe sono leader mondiali nei rispettivi campi. E la leadership deriva dal fatto che tutte e due, pur con dimensioni non comparabili fra loro, ripongono la stessa, massima attenzione alle persone, considerandole come le proprie risorse principali. In una multinazionale come l’Ibm l’attenzione si traduce in meccanismi volti a riconoscere e a promuovere le capacità e i meriti, con la formazione permanente, l’istituzione di percorsi di carriera che premino i migliori, l’impiego di metodi di valutazione fra il manager e i propri collaboratori e viceversa. In un’azienda più piccola come la Dallara i meccanismi sono identici anche se meno strutturati, e identici sono gli obiettivi: permettere alle persone valide di guadagnare quanto meritano e di crescere professionalmente nell’azienda.

D. Com’è strutturata oggi Dallara? Quali sono le sue linee di attività?
R. Le linee di attività sono tre. La prima è la progettazione e costruzione di auto da competizione, che vengono poi vendute alle scuderie impegnate in molti campionati sportivi di tutto il mondo: dall’Indy Car all’Indy Pro Series, dalla GP2 alle World Series Renault, dalla Formula 3 alla Grand Am nella quale rientra, fra le altre, la 24 ore di Daytona. La realizzazione di auto da corsa rappresenta circa la metà del fatturato dell’azienda. L’altra metà deriva, in parti grosso modo uguali, dalla consulenza sull’aerodinamica e sulla dinamica del veicolo fornita ad altre case automobilistiche sportive, ovviamente impegnate in competizioni diverse da quelle cui partecipa la Dallara, e dalla consulenza e dalla collaborazione con costruttori di auto commerciali ad alte prestazioni.

D. In che modo Dallara si è guadagnata la leadership nella realizzazione di auto da corsa?
R. Il meccanismo è sempre lo stesso: entriamo con una nostra macchina in una nuova competizione, dimostriamo che la macchina va forte e, così, invogliamo i team che vogliono vincere ad acquistarla, fino a diventare una sorta di monopolisti: posso già anticipare che, nella gara in programma a Indianapolis in questo mese, vinceremo sicuramente perché le 28 vetture che corrono sono tutte nostre.

D. Costruite le auto in toto?
R. Realizziamo tutto, ad eccezione del motore, che acquistiamo dai principali marchi del settore. Nelle prestazioni di una vettura da corsa il propulsore conta solo per il 20 per cento, mentre il resto dipende dal peso, dalla meccanica e dall’aerodinamica: noi lavoriamo su questo 80 per cento. Il nostro modello di lavoro è perciò diverso, ad esempio, da quello della Ferrari, che invece realizza in casa l’intera vettura da corsa e non la vende all’esterno ma affianca, all’attività sportiva, una forte presenza sul mercato commerciale.

D. Anche Dallara, fino all’inizio degli anni 90, è stata in Formula 1 come la Ferrari, ma poi ne è uscita. Per quale motivo? Questo fatto non l’ha penalizzata in termini di notorietà?
R. Per le case automobilistiche la Formula 1 è di per sé un’attività in perdita. E se molti grandi costruttori vi partecipano, è perché essa, oltre che un’ottima scuola per i loro tecnici e ingegneri, rappresenta uno straordinario strumento di marketing e di promozione del loro marchio, con forti ritorni commerciali in attività diverse dall’automobilismo sportivo. Per la Dallara, invece, le competizioni automobilistiche sono un’attività in sé, e perciò essa partecipa solo ai campionati che le consentono di ricavare un vantaggio economico immediato.

D. Non pensate anche voi, in futuro, di costruire auto per clienti che non siano team sportivi?
R. La scelta della Dallara è di rimanere un’azienda di nicchia con altissime competenze negli ambiti prima indicati. Non intendiamo costruire e proporre da soli macchine a livello commerciale.

D. E in collaborazione con altri?
R. Collaborare con altre case automobilistiche per ideare e costruire automobili ad elevate prestazioni è, come ho detto prima, uno dei nostri rami di attività. L’anno scorso, ad esempio, abbiamo realizzato insieme all’austriaca Ktm la X-Box, presentata al Salone di Ginevra; quest’anno è uscita la versione Dallara della stessa vettura, e il successo è stato straordinario: un’auto che ha lo stesso motore della Golf Gti, in pista tiene dietro a Porsche, a Ferrari ecc.

D. Come riuscite a vincere così tanto?
R. Alla base dell’azienda e dei suoi risultati c’è la volontà di innovare continuamente, di rischiare, di cercare nuove competizioni quando nelle precedenti si è raggiunto il massimo, per non sedersi e trovare ulteriori stimoli. L’ingresso da quest’anno nella Grand Am è stato deciso per queste ragioni: in quattro mesi abbiamo costruito un’auto completamente nuova, la Daytona Prototype Dallara con motore Pontiac, spendendo 3 milioni di dollari: se va bene, ci siamo detti, i team la compreranno, altrimenti avremo perso un bel po’ di soldi.

D. Come sta andando al momento?
R. Oltre le più ottimistiche previsioni. La prima gara era in programma a Miami la domenica dopo Pasqua: abbiamo finito di assemblare e di spedire la vettura in America il giovedì precedente, senza avere il tempo non solo di effettuare i test preliminari ma neanche di verniciare la livrea, operazione che abbiamo compiuto solo una volta sbarcati in America. Ci siamo qualificati in prima fila e in gara eravamo al comando finché un corridore, doppiato, ci ha tamponato. Insomma la vettura ha suscitato grande sensazione, ma la soddisfazione più bella l’abbiamo avuta al ritorno a casa.

D. Che cosa è successo dopo?
R. L’ingresso nella Grand Am doveva, nelle nostre intenzioni, creare entusiasmo fra tutte le persone dell’azienda, chiamate ad impegnarsi in un nuovo progetto che dimostrasse ancora una volta la nostra bravura tanto a noi stessi quanto agli altri. Tornati a casa, abbiamo visto che tutti gli screen saver dei pc dei dipendenti avevano la foto della Daytona Prototype Dallara.

D. Sono imminenti altre sfide?
R. In questo mese è in programma l’inaugurazione della nostra terza galleria del vento, sulla quale abbiamo investito 10 milioni di euro. Sono un quinto del nostro fatturato annuo, ma abbiamo deciso di spenderli per mantenere la nostra posizione di avanguardia in Europa negli studi aerodinamici e della dinamica dei veicoli. Solo innovando velocemente e continuamente si può rimanere competitivi: ogni settimana si corre in pista, e l’unica cosa che conta è che il nostro tempo sul giro sia il migliore, e continui ad esserlo.

D. La «ricetta Dallara», fatta di specializzazione, innovazione, capacità decisionale e rapidità realizzativa, può valere per aziende più grandi?
R. Da manager di IBM Italia mi è capitato di partecipare a numerosi convegni per spiegare perché e in che modo introdurre innovazione in Italia. Molti ribattevano che per me era facile parlare, in quanto lavoravo in una grande azienda sinonimo di innovazione tecnologica. Una ragione per cui ho deciso di impegnarmi con la Dallara è la volontà di dimostrare che l’innovazione può, e aggiungo deve, essere praticata anche dalle aziende piccole e medie. Anzi nel loro caso tutto può avvenire più rapidamente rispetto a una multinazionale.

D. L’imprenditoria italiana è capace di battere la concorrenza dei Paesi stranieri? Che cosa serve per recuperare la competitività perduta dal Paese negli ultimi decenni?
R. Per ragioni di lavoro ho girato e giro tuttora il mondo, e posso tranquillamente concludere che l’Italia ha risorse straordinarie, anche se non le usa in maniera sistematica. Gli elementi principali di un successo imprenditoriale sono tre. Il primo è avere nello stesso tempo il coraggio e la voglia di faticare: non basta concepire un’idea buona o innovativa, occorre avere il coraggio di portarla avanti ed essere disposti a lavorarci sopra senza risparmio. Il secondo elemento consiste nell’essere unici in ciò che si fa: non si può competere dicendo «questo lo faccio anch’io» ma dicendo invece «questo lo faccio solo io».

D. Che significa ciò nel concreto?
R. L’Italia non potrà mai competere sul piano dei costi dei prodotti o delle economie di scala, perché non ha i numeri sufficienti. Può vincere solo nei campi in cui presenta delle unicità di prodotto o di processo, o anche di storia e di cultura. Un esempio di queste parti è il Parmigiano Reggiano: poiché è prodotto solo a Parma e a Reggio, in un territorio, con ingredienti e secondo tecniche non riproducibili altrove, malgrado tutti i tentativi non potrà mai essere copiato o imitato pienamente.

D. Qual è, infine, il terzo elemento?
R. La qualità delle persone. Gli uomini sono innovativi, non le aziende: il compito di chi gestisce un’azienda è quello di costruire le persone e di farle crescere professionalmente. Una delle maggiori difficoltà di un’azienda come la nostra sta nel trovare figure preparate: la scuola, la formazione, l’educazione sono basilari per lo sviluppo dell’economia di un Paese.

D. Dove e come Dallara trova le persone di cui ha bisogno?
R. La gran parte dei nostri dipendenti sono ingegneri meccanici e aeronautici, che cerchiamo nelle migliori università, non solo italiane: arrivano da noi inglesi, americani, ma anche francesi, tedeschi, belgi ecc. Dallara ha bisogno, nello stesso tempo, di multidisciplinarità e internazionalità per il tipo di attività che svolge e per la forte proiezione verso l’estero, dove totalizza circa il 90 per cento del proprio fatturato.

D. Ma l’Emilia-Romagna non è la terra italiana dei motori per eccellenza?
R. Certamente lo è, ma le due cose non solo non si escludono, ma si rafforzano l’una con l’altra. A un’ora di strada da qui si trovano, oltre al nostro, gli stabilimenti di Ferrari, Lamborghini, Maserati, Ducati e così via. Ma ciò accade perché nella nostra zona si è venuto formando nel tempo un «ecosistema» che, partendo dall’esperienza condotta dalle aziende più anziane, ha dato vita ad ambiti di specializzazione molto elevati e, contemporaneamente, capaci di collaborare e di integrarsi vicendevolmente. Da tutto ciò nascono prodotti automobilistici di altissima qualità, che competono con successo nell’ambito mondiale.

D. Questo vale anche per Dallara?
R. Certamente. Gian Paolo Dallara, prima di fondare la propria azienda, ha lavorato per tutti i principali marchi automobilistici emiliani; e oggi Dallara oltre che ai propri dipendenti dà occupazione a molte altre centinaia di persone: alcune costruiscono i telai, altre le monoscocche in carbonio; qualcuno realizza le ali, qualcun altro i freni, i cambi, le sospensioni ecc.

D. In qualità di amministratore delegato quale contributo specifico pensa di portare in Dallara?
R. Gian Paolo Dallara è un genio o meglio, un ingegnere che è riuscito a realizzare il proprio genio; ma ha anche saputo comprendere di quali competenze, diverse dalle sue, l’azienda ha bisogno. Ci conoscevamo da molti anni, essendo tutti e due di questa valle; ne abbiamo discusso più approfonditamente negli ultimi due e oggi devo dire che ci completiamo perfettamente: Non posso insegnare come costruire macchine da corsa, anche se ne sono da sempre un grande appassionato, ma con la mia esperienza manageriale intendo contribuire allo sviluppo dell’azienda nell’organizzazione dei processi produttivi e nella gestione dell’attività commerciale e di promozione del marchio. Un marchio che, malgrado o forse proprio per i suoi numerosi successi internazionali, è forse più noto all’estero che in Italia.

D. Obiettivi a breve scadenza?
R. Io e Gian Paolo Dallara abbiamo un sogno: far nascere a Varano de’ Melegari una «università dell’aria», vale a dire il più qualificato master internazionale in aerodinamica, destinato ai migliori studenti di tutto il mondo. Vogliamo creare ingegneri che siano capaci di continuare e sviluppare ulteriormente una tradizione che oggi è all’avanguardia. E quando abbiamo un sogno, prima o poi lo realizziamo.

Tags: ibm innovazione auto ingegneria parma sport Giugno 2008 settore aeronautico Dallara

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