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massimo musolino: mediaset spagna, la televisione è il più moderno mezzo tradizionale

Massimo Musolino, direttore generale di Mediaset Spagna

L'Italia e la Spagna si sono sempre reciprocamente guardate con stima e competitività, in un’ottica di buon vicinato ma anche di profonde e basilari similitudini. La comune latinità non solo si avverte, ma si vede in tv, in un palinsesto che va avanti da 25 anni attraverso i canali televisivi della Mediaset España Comunicación (prima Gestevisión Telecinco), nata nel marzo 1989 dal gruppo italiano Mediaset spa di Silvio Berlusconi. Oggi nella spagnola gli azionisti di maggioranza sono Mediaset Investimenti, società interamente controllata da Mediaset, con il 41,6 per cento del capitale, il resto è flottante.
In Italia, la storia del Gruppo Mediaset inizia nel 1978 con la fondazione della tv locale Telemilano, nel 1980 mutata in tv nazionale e, nel nome, in Canale 5, cui si affiancano poi Italia 1 (acquisita dall’editore Rusconi nel 1982) e Retequattro (acquisita dall’Arnoldo Mondadori Editore nel 1984). Nel 1984 il polo televisivo viene denominato Rti e si stabilizza con tre reti nazionali analogiche, affiancate da una concessionaria pubblicitaria esclusiva (Publitalia ‘80) e da due ulteriori società (Videotime, che esercita tutta l’attività tecnologica e di produzione Tv, ed Elettronica Industriale, che garantisce la diffusione del segnale televisivo attraverso la gestione della rete di trasmissione). Nel 1996 Rti, Videotime, Publitalia ed Elettronica Industriale sono riunite in un unico gruppo denominato Mediaset, che viene quotato alla Borsa di Milano, aprendo l’azionariato agli investitori istituzionali e ai piccoli azionisti.
È il 1997 l’anno in cui Mediaset si espande all’estero, acquisendo una partecipazione del 25 per cento dell’emittente privata spagnola Telecinco, nata in seguito all’apertura del mercato televisivo nazionale voluta dal premier socialista Felipe González in un momento in cui la tv spagnola offriva solo i canali pubblici Tve1 e Tve2 e le tv locali. Le tre licenze - due per canali analogici a livello nazionale in chiaro ed una per un canale criptato per la tv satellitare - sono aggiudicate ad Antena 3 e Telecinco, sorella spagnola dell’italiano Canale 5, creata da Silvio Berlusconi, che riveste per un periodo il ruolo di vicepresidente del canale e fornisce format italiani e stranieri di successo. Nel 2001, di fronte alla nuova possibilità attribuita agli stranieri di detenere la maggioranza assoluta come anche totalitaria di un canale spagnolo, l’italiana Mediaset aumenta la propria partecipazione in Telecinco e ne diventa azionista di riferimento con il 50,1 per cento di azioni. L’anno successivo la tv spagnola viene quotata alla Borsa di Madrid.
Il tarantino Massimo Musolino, direttore generale di Mediaset España, in Fininvest nell’89 e da 21 anni in Spagna con Mediaset, descrive il mercato televisivo spagnolo e spiega in che modo l’Italia è presente nella quotidianità della penisola iberica.
Domanda. Mediaset, un’italiana in Spagna. La prima idea che le viene in mente su questo collegamento?
Risposta. Devo essere sincero: anche se sono italiano e ho lavorato tanti anni in Italia, conosco meglio la tv spagnola. Sono in Spagna dal 1994, a parte un breve ritorno nel 2000, per questo la mia conoscenza della televisione italiana è un po’ datata, però è buona. In Spagna abbiamo importato il modello italiano di fare televisione, non ci siamo inventati niente anche perché abbiamo visto che funziona.
D. Qual è questo modo di fare televisione che funziona?
R. Non so se in assoluto Mediaset Italia è stata la prima televisione commerciale in Europa, ma sicuramente è stata quella che più ha innovato quando è nata. Si tende spesso a parlare di televisione «commerciale» dandole una connotazione negativa, ma in realtà con tale aggettivo si fa riferimento a una televisione che non pagano i telespettatori bensì le imprese attraverso la pubblicità, ossia una televisione fatta per stare vicino alle imprese e agli ascoltatori. Si tratta di un modello che deve essere sempre sviluppato; avendo presente il target: il pubblico spagnolo è differente da quello italiano, per cui anche i programmi sono diversi, e con i mezzi che offrono le ricerche di marketing oggi si riesce a fare una televisione molto vicina ai gusti della gente, tanto che sono 15 anni che Mediaset Spagna è il più rilevante network commerciale, prima con un canale, poi con tre, con quattro, con otto, e ora con sei. Abbiamo cambiato il numero dei canali molte volte, ma il gruppo è sempre riuscito ad occupare una posizione di leadership nell’ambito delle televisioni e dei gruppi commerciali spagnoli.
D. E in rapporto alla tv di Stato?
R. Ci batteva, in passato, la televisione pubblica che però spendeva cifre esorbitanti. Quando è cominciata la crisi e si sono dovuti ridurre gli investimenti, sono andati automaticamente indietro.
D. In che senso parlate di «modello italiano»? Si tratta di una considerazione legata alla proprietà della vostra rete, ad altro, o a una combinazione di fattori?
R. Mediaset Spagna impiega un modello italiano, ma non per la componente soggettiva della proprietà. Sono pochissimi gli italiani che nel nostro canale ricoprono le posizioni principali, e per la maggior parte i dipendenti sono spagnoli. Mi riferisco invece all’indirizzo, al modo di vedere le cose, alla maniera di fare business. Il requisito commerciale di fare televisione per vendere la pubblicità che è nato dal modello italiano.
D. Non dalla sua creazione, ma solo dal 2002 Mediaset è la proprietaria della maggioranza assoluta del canale Telecinco con il 52 per cento, quando una legge del presidente di centro-destra José María Aznar consentì agli stranieri il possesso della maggioranza assoluta o totalitaria di un canale spagnolo, e da quel momento la rete è divenuta parte integrante del gruppo di Berlusconi insieme alle sue aziende interne. Ciò ha influito in qualche modo sull’evoluzione del modello? È cambiato qualcosa?
R. La legge prima di allora impediva a un gruppo straniero di avere la maggioranza di una televisione spagnola, ma certo non gli impediva di usare un modello di business straniero che funzionasse. È cambiata la composizione del consiglio di amministrazione, che sicuramente apporta le linee strategiche del gruppo, ma non è cambiato il modo di fare la televisione o di venderla, fondato sulla grande attenzione ai costi, agli obiettivi di ascolto e alla raccolta pubblicitaria, ossia ai tre pilastri di qualsiasi televisione commerciale. Riuscire a trovare un equilibrio tra costi e audience e tra audience e ricavi consente di lavorare nel modo migliore. Lo dichiariamo ogni anno: i nostri obiettivi sono essere primi negli ascolti, primi nella quota di mercato pubblicitario, ma soprattutto primi nella redditività. E negli anni in cui la Spagna andava particolarmente bene abbiamo raggiunto dei margini altissimi rispetto ai nostri fatturati netti.
D. L’andamento della politica italiana incide sulle quotazioni della Mediaset iberica per il tramite della sua compagine?
R. Direi che la politica influisce sull’andamento della borsa, non specificamente sul singolo titolo. Dal punto di vista della percezione, Mediaset Spagna è avvertita come una società spagnola, con un presidente spagnolo e un azionista maggioritario italiano, oltre ad alcune figure di riferimento italiane come l’amministratore delegato; ma stiamo parlando di un’impresa che ha 1.300 lavoratori tutti in Spagna. Non funzionerebbe mai una televisione commerciale percepita come straniera. È il modello di business che funziona, sennò in Spagna non ce l’avremmo fatta.
D. Come vi differenziate dagli altri canali iberici?
R. In televisione si può inventare qualsiasi cosa ma non si può impedire che gli altri te la copino, il segreto sta dunque nell’inventare costantemente e approfittare dell’innovazione fino a che, appunto, non sarà copiata. Noi abbiamo, nell’arco degli anni, preso delle decisioni strategiche dal punto di vista editoriale, caratterizzate da una costante innovazione, e ci ha aiutato molto l’esperienza italiana. Una tra le prime cose è stata quella di sviluppare una grande capacità di produzione interna, che abbiamo capito forse prima degli altri essere un asset utile a distinguerci rispetto non solo ai nostri concorrenti televisivi, ma anche rispetto ad altri tipi di comunicazione. Il fatto di avere tanta produzione propria, tanti contenuti originali che si possono vedere solo sulle nostre reti, è sicuramente un vantaggio. All’inizio abbiamo sviluppato molto la fiction spagnola, che poi si è venduta anche bene in Italia; penso ad alcuni grandi successi come «Médico de familia», tempo fa un grande successo sulle nostre reti, che poi in Italia è andato molto bene come «Un medico in famiglia». E penso non solo allo sviluppo dei formati, ma anche alla capacità produttiva: abbiamo comprato degli studi e li abbiamo preparati tecnologicamente. Inoltre siamo stati i primi ad eliminare i film durante il prime time e, piuttosto che offrire prodotti importati, come fanno ancora i nostri concorrenti dedicando due o tre serate, o alcuni pomeriggi di fine settimana alla programmazione di film americani, abbiamo puntato sul prodotto fatto in casa che, da un lato, caratterizza molto di più la rete rispetto ad altre, dall’altro ci permette di controllare molto meglio i costi. Produrre programmi d’intrattenimento e fiction locale consente, infatti, non solo di controllare i costi di produzione, ma anche di interrompere il programma se non va o estenderlo se invece funziona. Mentre di un pacchetto di film americani i costi sono incomprimibili, indipendentemente dagli ascolti raggiunti. Questo sicuramente ci ha differenziato rispetto ai nostri concorrenti.
D. Quali altri sono i programmi che trasmettete oltre alle fiction di produzione propria?
R. Con il tempo siamo riusciti a raggiungere, con il telegiornale di Telecinco, i maggiori ascolti di audience; abbiamo sempre un reality show in onda, il «Gran Hermano», in Italia «Grande Fratello», o «Supervivientes», in Italia «L’Isola dei Famosi», e ancora «The Voice» ed altri, che ci permettono di riempire una o due serate del prime time e nello stesso tempo alimentare tutti i talk show che vanno durante il giorno. Soprattutto nel canale principale abbiamo il 93 per cento dei programmi fatti in casa, più della metà sono live, quindi in diretta, e il 55 per cento della nostra produzione la facciamo direttamente tramite società partecipate, quindi c’è uno stretto controllo anche sulla capacità produttiva e creativa dei contenuti che mandiamo in onda, e questo ce l’abbiamo solo noi. Gli altri lo copiano, o ci provano; sicuramente con la fiction ci sono riusciti perché non siamo gli unici produttori di fiction di successo, però sull’intrattenimento e sui reality nessuno riesce a produrre programmi con l’audience che abbiamo noi, e anche nelle news siamo leader.
D. Oltre alla tv che c’è?
R. C’è l’obbligo di legge, non esistente in Italia, di produrre e finanziare cinema spagnolo con il 3 per cento dei nostri ricavi. Nel 2014, con 4 nostri film, abbiamo raggiunto il 60 per cento del totale del box office dei film spagnoli. Significa che, anche se siamo «obbligati» a fare cinema, lo facciamo benissimo, prendiamo tutto molto sul serio, e questo vuol dire che chi lavora con noi ha una particolare capacità di interpretare i gusti del pubblico.
D. Il motivo di tale obbligo a carico delle tv sta nel fatto che il cinema spagnolo ha bisogno di finanziamenti?
R. È così, il cinema spagnolo era in grave crisi, soprattutto perché i grandi film e i «top movie» venivano dagli Stati Uniti. Molti produttori cinematografici non riuscivano a finanziare i loro film anche perché non facevano ascolto e box office, così si pensò bene di imporre alle tv l’obbligo di investire una parte di ricavi e non una parte degli utili, con il paradosso che negli anni in cui, per la crisi, si faceva fatica a far quadrare i conti, le televisioni hanno dovuto reinvestire parte dei ricavi altrove, obbligatoriamente.
D. Quindi in un’ottica concorrenziale, la crisi ha buttato giù la televisione commerciale, ma non solo: anche quella pubblica, la Tve, ne è stata colpita?
R. La crisi ha buttato giù tutti; il mercato pubblicitario della televisione è sceso del 50 per cento nel periodo intercorrente dal picco del 2007 al momento peggiore, che è stato nel periodo 2012-2013.
D. Come siete riusciti a fronteggiare il calo della raccolta pubblicitaria?
R. La prima azione, che è anche la prima di qualsiasi impresa e di qualsiasi famiglia, è quella della riduzione dei costi di fronte ad una riduzione delle entrate e dei ricavi. Abbiamo compiuto un grande sforzo anche perché non c’erano alternative, e siamo passati da una spesa di quasi mille milioni di euro del 2010, ai 780 milioni del 2014, con una riduzione del 20 per cento di cui siamo orgogliosi.
D. Tagliare le spese ha avuto ripercussioni per i lavoratori dell’azienda?
R. Siamo l’unica impresa nel settore comunicazione in Spagna che non ha attuato licenziamenti collettivi ed esternalizzazioni selvagge: siamo entrati nella crisi con circa 1.300 persone e ne usciamo con circa 1.300.
D. Non c’è stato nessun licenziamento legato alla crisi? Com’è possibile?
R. Abbiamo stretto accordi con i rappresentanti dei lavoratori e siamo riusciti a trovare una controparte intelligente che ha avuto il coraggio di accettare congelamenti. Siamo riusciti a ridurre tutto quello che si poteva ridurre, e ora che siamo «dimagriti» e c’è un principio di ripresa interessante, siamo nella posizione migliore per nuovi sviluppi. Il nostro è sostanzialmente un settore a costi fissi nel quale, non appena si recupera pubblicità, si torna ad essere competitivi. I dati dell’ultimo trimestre dello scorso anno hanno già rilevato margini significativi.
D. Quindi state uscendo da questa crisi in maniera indolore?
R. Il 2014 è stato un anno buono, e il 2015 è cominciato sotto questi auspici, con audience quotidiane molto alte e un mercato pubblicitario che sembra in soddisfacente crescita. Se il Paese va bene, se le imprese che sono capaci vanno bene, se il Paese va male anche le imprese più capaci soffrono. Le previsioni dicono che, dopo la Germania o con la Germania, la Spagna è tra i Paesi europei che più cresceranno durante il 2015. La televisione è più viva che mai, sebbene tutti la diano per morta, ma essa è, tra i mezzi tradizionali, l’unica che sia riuscita realmente a reinventarsi, che di fatto si reinventa continuamente, tecnologicamente passando dall’analogico al digitale, con televisori di ultima generazione. Cambiando la tecnologia cambiano i programmi. Francamente ho difficoltà ad immaginare una casa senza televisore.
D. La Mediaset italiana nel 2008 faceva causa a YouTube per violazione dei diritti d’autore chiedendo un risarcimento di 500 milioni di euro affermando che le tre reti televisive italiane del Gruppo avrebbero perduto 315.672 giornate di visione da parte dei telespettatori, oltre alla mancata vendita di spazi pubblicitari sui programmi illecitamente diffusi in rete. In Spagna è successa quasi la stessa cosa: Telecinco ha vinto una causa contro il portale ottenendo la rimozione dei video non autorizzati ma non il risarcimento economico. Internet è un concorrente o un supporto della televisione? Una piattaforma alternativa o di appoggio?
R. Internet non è un’alternativa alla televisione. Abbiamo vissuto in questi anni il grande sviluppo di internet senza che la televisione perdesse uno spettatore. In Spagna, nel 2014, ogni spagnolo medio ha visto 239 minuti di televisione, una cifra alta, nonostante lo sviluppo di internet, tablet, telefonini, smartphone, streaming. Chi ha perso con internet è la stampa purtroppo, non la televisione, che tra i mezzi tradizionali è il più moderno.
D. Nel maggio del 2014 sono stati oscurati 9 dei 24 canali nazionali spagnoli della piattaforma digitale terrestre, in esecuzione della sentenza del Tribunale Supremo del dicembre 2012 che ha giudicato nulla la procedura di assegnazione delle frequenze fatta nel 2010 dal Governo Zapatero, senza gara pubblica, dopo lo spegnimento del segnale analogico. Mediaset ha dovuto chiudere due canali - LaSiete, dedicato alle telenovelas, e LaNueve, dedicato al pubblico femminile - e per reazione ha prodotto uno spot che ha fatto discutere, in cui si vede la «famiglia Mediaset» vittima di un incidente stradale, con la conseguente morte di una donna e di una ragazza, che rappresentano LaSiete e LaNueve. L’associazione vittime d’incidenti stradali ha chiesto il ritiro dello spot per mancanza di sensibilità e la compagnia ha tagliato la scena. Come commenta?
R. Eravamo arrivati ad avere 8 canali, quanti ne aveva anche il nostro concorrente principale, il gruppo Atresmedia, che ha televisioni e radio. La causa della chiusura dei canali è dovuta a un errore del Governo precedente, il quale doveva concedere i canali agli editori esistenti secondo un programma stabilito e poi cambiare la legge audio-visuale. Ma si è invertito l’ordine e sul bollettino ufficiale si è pubblicato prima la nuova legge e sono state concesse le nuove frequenze il giorno dopo, con la differenza che in tale nuova legge le frequenze dovevano essere attribuite per concorso e non per attribuzione diretta. Un ricorso non ad opera delle parti lese, che ha portato all’annullamento dell’assegnazione di quei canali. Siamo stati obbligati a spegnere due canali, peraltro dopo averli sviluppati, inventato il brand, fatto studi di marketing e di posizionamento, e speso molti soldi.
D. Siete riusciti ad inserire la programmazione altrove?
R. Sì, ma se la strategia multichannel consente di porsi nel mercato coprendo tutti i target, abbiamo dovuto scegliere e sacrificare due canali, e quindi abbiamo dovuto riporci nel mercato con gli altri canali, in modo da ricoprire anche i due target di riferimento di LaSiete e LaNueve. Lo spot era una forma educata e corretta di protestare; quando abbiamo lanciato i nostri 8 canali avevamo assegnato ad ognuno di essi un personaggio della famiglia che rappresentava il target specifico di ciascun canale; nella campagna mediatica successiva alla decisione abbiamo mostrato la morte dei 2 canali, che vengono investiti da un’auto ufficiale. Ora sembrerebbe che essi verranno riassegnati, e parteciperemo al concorso convinti di avere i requisiti per vincerlo.   

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