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Victoria Deny Jewelry: da fuga dei cervelli a fuga dei gioielli

Valeria D’Andrea, designer creatrice del marchio Victoria Deny Jewelry

Dalla fuga dei cervelli alla fuga dei gioielli: l’Italia sta pagando cara questa sua predisposizione all’insalubrità laburistica. Prendiamo, ad esempio, Valeria D’Andrea, lombarda, designer, che ha studiato a Milano e, una volta laureatasi, dopo aver provato - nella città della moda - a crearsi una carriera, ha scelto New York per maturare lavorando (ossia: con un lauto stipendio, il contratto ed il visto, dalla cui esperienza ha tratto anche la Green Card americana, e non un posto da stagista senza stipendio), ha riprovato a passare per l’Italia (Padova, quindi Milano e Lago Maggiore) per poi «rifugiarsi» ad Ibiza (Eivissa, in catalano) dove, in poco meno di 5 mesi ha messo su il negozio del suo marchio, Victoria Deny Jewelry. Nella passeggiata principale del porto, in Carrer del Bisbe Torres, zona pedonale con la vista mare, sono ora esposti i suoi gioielli Deny. Finalmente. Una vera e propria fuga dall’Italia per una designer dall’alto livello artistico, creativo, qualitativo, che l’Italia non aiuta, anzi, ostacola come fa con tutti quei giovani adulti di larghi curriculum che costituiscono solo un costo troppo elevato. Meglio stagisti? Per questo non sono solo i cervelli a fuggire, bensì anche le menti: si fugge con la mente molto prima che con il corpo.
Gioielli di qualità e classe, l’eleganza italiana unita alle esperienze all’estero, una grande dose di creatività e di umiltà, ed ora un marchio proprio al porto di una delle isole più note nel mondo. Il mare entra da sempre nelle creazioni Victoria Deny: Deny, il nome della bisavola, e Victoria, «perché mi piaceva, e perché comincia con la v, proprio come me».
Domanda. Qual è la sua storia, che l’ha condotta fino ad Ibiza?
Risposta. Nasco e cresco sul Lago Maggiore, studio da geometra convinta o quasi che avrei fatto Architettura, poi mi faccio convincere a cambiare strada, avendo appreso che sono troppi gli architetti laureati per poter pensare ad una carriera redditizia. Così mi trasferisco a Milano e mi iscrivo all’Istituto europeo di design, che a quell’epoca proponeva un corso quadriennale in Design del gioiello. Allora mi sfogo a disegnare a mano libera e seguo ottimi seminari anche dedicati agli altri dipartimenti, come Arte e Fotografia, con i grandi esperti e professionisti noti del settore, come il fotografo Giovanni Gastel e la critica d’arte contemporanea Mariuccia Casadio, la quale riesce perfino a dare un senso alle tele di Lucio Fontana, quelle con il taglio...
D. Dopo la vita accademica, come hai cominciato la tua carriera da designer?
R. Comincio con una piccola azienda di Milano, un negozio e showroom in via della Spiga nel quale siamo io e il mio capo. Faccio di tutto, dal disegno alla prototipia, seguo la produzione e vengo a contatto con il mondo artigiano milanese, piccoli laboratori di due-tre persone che ancora oggi in parte sopravvivono, usano tecniche tradizionali di gioielleria: metodo a cera persa e microfusione, ogni pezzo è preso e lavorato a mano. Seguo anche la parte dedicata alla comunicazione, la produzione del materiale fotografico, anche seguendo i miei studi che mi hanno fatto comprendere quanto la fotografia mi sia sempre piaciuta: un modo efficace e «poetico» per descrivere la filosofia dei pezzi. Poi si gira per fiere ed eventi, veniamo pubblicati su Vogue, siamo alla fine degli anni 90 e ci creiamo un mercato di nicchia negli Stati Uniti, che apprezzano i piccoli designer e la manifattura italiana. Milano in quegli anni vive ancora sulla scia del fermento degli anni 80: Versace, Moschino, Armani. Milan l’ò un gran Milan, insomma.
D. Come è arrivata a New York?
R. Un bel giorno vado a Nyc a trovare i miei cugini e porto dietro il mio book. Comincio a girare per gli uffici lasciando il mio curriculum e vengo assunta in un lampo, proprio grazie alla mia esperienza milanese, che loro apprezzano a differenza delle case di moda italiane che non danno seguito, seppur io avessi anticipato il loro fabbisogno di buttarsi progressivamente sull’accessorio.
D. In che modo l’esperienza americana ha accresciuto il suo patrimonio artistico interiore?
R. L’America mi ha dato tante emozioni: sono venuta a contatto con mille mondi diversi, aziende di ogni livello, «family owned» e non, fino alla bigiotteria mass-market e high-end. Sono sempre gli americani ad offrirmi un posto per disegnare la collezione di occhiali per il lancio di un paio di marchi americani tra cui David Yurman, colosso della gioielleria americana. Mi fanno sempre complimenti per il mio approccio anticonvenzionale e professionale al tempo stesso, anche i grandi capi designer, lo stesso David Yurman. Sebbene non sia facile lavorare con queste personalità, di contro gli americani insegnano l’etica, il rispetto per l’opinione altrui, il vero lavoro di gruppo, danno la possibilità di esporre la propria opinione e presentare il proprio lavoro, mettendoti sotto lo «spotlight» e facendoti crescere a 360 gradi.
D. L’Italia lo considera un Paese da Made in Italy fruttuoso, o no?
R. L’Italia ha grandi risorse manifatturiere e l’incapacità di sfruttare appieno il proprio potenziale, ma siamo fatti cosi, è carattere. Ed anche se la nostra moda è ancora apprezzata in tutto il mondo, rimaniamo a volte ancorati ad una realtà provinciale. Comunque di certo, non grazie alla nostra politica che affossa, abbiamo a tutt’oggi eccellenze come il gruppo Otb - Only the Brave di Renzo Rosso, abbiamo Ferragamo, Gucci e Pomellato, sebbene oramai anche questi marchi sono inglobati in grandi poli del lusso con indirizzo oltrefrontiera. Per non parlare dei poli dell’occhialeria, come Nasari in Italia ma sempre con sedi in tutto il mondo. I nostri politici sembrano non accorgersi neanche di quanto siamo validi e, tanto più lo siamo, tanto più fuggiamo altrove. Non se ne parla abbastanza, e invece noi produciamo produciamo produciamo...
D. Milano, città della moda, facilita il lavoro di designer?
R. In questo momento per i giovani designer, Milano o non Milano, non è facile: pagati poco o niente, e con aziende che assumono poco. Vero è che questi dati possono cambiare, ma altrettanto vero che Londra e New York, con le loro scuole di moda, sfornano talenti e li promuovono fino a farli diventare veri e propri marchi emergenti. Oltre a ciò da noi il sistema intero, includendovi la man forte del sistema di tassazione, non facilita la nascita di nuove realtà. E la gente se ne va altrove, con le proprie capacità. L’Italia ci educa, e nel momento in cui può trarre guadagno dall’investimento didattico, ci manda via quasi per direttissima.
D. Quali sono i progetti principali di vita che sta portando avanti?
R. Ho sempre desiderato vivere al mare e fare quello che faccio. Progressivamente nel tempo ho cominciato a dire che mi sarei traferita su un’isola, ho cercato molto, anche inconsciamente, e quell’occasione è arrivata davvero ad Ibiza, isola nella quale mi sono sentita perfettamente a mio agio, che mi ha dato quella sensazione che avrei davvero potuto provare a realizzare il sogno di aprire il primo negozio per il mio marchio di gioielleria Victoria Deny. Ad Ibiza c’è fermento, e ancora quell’aria del nuovo che sta prendendo il sopravvento sul vecchio, ma senza omologarsi ai marchi noti del lusso. Voglio vivere facendo quello che mi piace senza preoccuparmi troppo del futuro o del presente come avviene in Italia: il tempo vola, e ad Ibiza è come se in qualche modo esso sia un po’ piu lento, con una dimensione umana di gente più semplice che ama il sole e l’aria aperta, che si sveglia un po’ più contenta la mattina. Non parlo degli imprenditori, ma di tutti, anche se qui tanti italiani hanno trovato la possibilità di fare bene il loro lavoro: possibilità totalmente assente in Italia.
D. Cosa ispira le sue creazioni? C’è New York, c’è la Spagna, c’è l’Italia? In che termini? E da quale altra località trae influenza nel suo design?
R. Sicuramente c’è New York e il suo fermento, la sua gente così diversa e sempre sorprendente. Ma ci sono anche le mie origini, la calma del Lago Maggiore; quindi il nostro bel mare, le lunghe camminate in spiaggia, l’orizzonte sgombro. La natura che ha queste forme incredibili e perfette, di conchiglie, fiori, foglie. La Spagna per ora è la mia base: anni fa ne ero già stata attratta visitando Barcellona, poi il destino mi ha portato altrove. So che bisogna sempre cercare, le cose non vengono da te semplicemente perché tira il vento, è necessario saper cogliere i segnali o per lo meno dar retta alle proprie sensazioni e lasciar andare la paura di non farcela. Mi dico sempre: tanto cos’ho da perdere?
D. A chi è rivolta la sua produzione? Qual è il target principale?
R. La collezione è rivolta a chi ama qualcosa di diverso, non griffato ma prezioso; a chi apprezza la qualità e ciò che è insieme facile da indossare. I Paesi anglosassoni sono di certo un target che metto a fuoco, inclusa l’America, ma è difficile inserirsi nel mercato che oggi vive grandi stravolgimenti e un clima generale di saturazione, quindi c’è riluttanza a proporre il nuovo. I miei amici hanno cominciato a comprare le mie cose nonostante io sia una pessima venditrice, e quindi mi sono detta: ci dev’essere qualcun altro, oltre loro, che si appassionerà alle mie creazioni, per forza.
D. Quali sono i principali marchi noti di riferimento della sua attività produttiva? Marchi noti?
R. Sicuramente tutto quello che è stato fatto negli 70 e 80, da Pomellato a Bulgari: l’oro e i grandi volumi. Ma, specificamente, per la mia collezione che ho portato qui ad Ibiza mi ispiro anche alla miriade di marchi emergenti americani e a qualche marchio italiano, se lo scopro. Ma gli americani hanno metodo, sanno dare vita al marchio a tutto tondo: Jennifer Fisher, Dezso Sara, Me&Ro, ce ne sono troppi. Inoltre Manhattan ha quei meravigliosi «deparment store» che propongono anche gli emergenti e una sezione dedicata solo al gioiello. Ora la Rinascente va dietro a questa modalità con circa 15 anni di ritardo.
D. Robert Redford ha indossato un paio di occhiali da lei disegnati: in quale occasione e come sono giunti sino a lui?
R. Un giorno nel mio ufficio di Manhattan feci scorrere la rassegna stampa del lancio della linea di occhiali Cole Haan, storico marchio americano, disegnati da me e prodotti in Veneto. Un bellissimo paio di occhiali «aviator», eleganti ma sexy, con lenti fumé e aste in vera pelle. E me li trovo li, indosso a una foto rubata a Robert Redford mentre parla per strada con Bono Vox, leggendaria voce degli U2, in occasione del famoso «Sundance Festival» fondato da lui. Uno dei miei idoli che indossa i miei occhiali, momento che mi ha riempito di orgoglio e felicità: per una volta tutto quanto quadrava.
D. Crede che la gioielleria sia un settore in crescita o in decadimento, con riferimento alla crisi?
R. La gioielleria «branded», ossia di marchio, è in crescita, è l’identità del marchio che conta e fa vendere, prende l’attenzione del cliente e lo porta sino al gioiello personalizzabile. Le grandi case sopravvivono perché sono «grandi»; ma gli anni 60 e le feste da mille e una notte sono solo un ricordo, almeno nel mondo occidentale.
D. Crede nel Made in Italy?
R. Credo che sappiamo «fare» molto bene le cose, ma che dovremmo purtroppo avere una visione più globale, più manageriale, altrimenti finiamo per fare da terzisti, e ciò va bene finché le aziende piccole e medie che producono possono sopravvivere. Possiamo e dobbiamo fare di più per promuoverci indipendentemente.    

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