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VINCENZO CAMPORINI: COME FUNZIONA L’UNIVERSITÀ MILITARE CASD, ALTI STUDI DIFESA

Vincenzo Camporini CASD

«Entrai in Aeronautica perché appassionato del volo, e subito constatai che l’ambiente era valido per crescere culturalmente e approfondire vari temi. Ho svolto un’attività di volo esaltante, ebbi un incidente nel 1973 dal quale uscii nel modo migliore quando esplose un aereo appartenente a quella sfortunata lista di F104. Trascorsi il periodo di comando come colonnello nel reparto sperimentale di volo di Pratica di Mare, il paradiso del pilota perché si volava con qualsiasi aereo, dagli elicotteri ai monoposto e ai velivoli da carico. Poi la mia carriera si è sviluppata nell’ambito della ricerca scientifica».

Questo racconta Vincenzo Camporini, arruolatosi nell’Accademia Aeronautica nel 1965, laureato in Scienze aeronautiche e in Scienze internazionali e diplomatiche, oggi con il grado di generale di squadra aerea, 2.500 ore di volo, un’esperienza di pilotaggio di 23 diversi tipi di aerei, di comando anche del 28° gruppo di Villafranca e del III reparto dello Stato Maggiore della Difesa e di sottocapo di quest’ultimo. Camporini si ritiene molto fortunato perché, precisa, «guidato nella vita da un filo sottile» che l’ha condotto nel modo migliore attraverso una serie di vicende. Un filo sottile fatto di massimo impegno in ogni circostanza, di rigore nello studio, nel comando, nei rapporti con subalterni, colleghi e superiori, di analisi attenta delle situazioni, di decisioni basate sulla competenza professionale. Oggi il generale di squadra aerea Vincenzo Camporini è ai vertici delle Forze Armate, presidente del Casd - Centro Alti Studi per la Difesa, che qualcuno ha definito l’università militare, con corsi proiettati anche sul versante sociale ed economico e non solo su quello strettamente militare, e con un ampliamento della formazione dei quadri intermedi e superiori delle Forze Armate giustificata dall’attuale quadro operativo.

«Siamo qualcosa di più di un’università, perché da noi vengono ufficiali già laureati–spiega–. Le nostre università sono le accademie militari, dopo le quali curiamo la formazione dei quadri intermedi: tenenti colonnelli, maggiori anziani prossimi ad essere promossi, che una volta frequentavano le scuole di guerra di Forza Armata oggi unificate nell’Issmi - Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze. Curiamo la formazione dei quadri in una logica di Forze Armate integrate e adeguate all’evoluzione strategica, in modo che i tenenti colonnelli abbiano una formazione il più possibile omogenea. È bene che l’aviatore conosca i problemi del fante, il marinaio quelli dell’aviatore e, chi dirige, quelli di tutti».

È l’esigenza imposta dal quadro strategico determinatosi in seguito alla caduta, nel novembre 1989, del muro di Berlino: «Fino a quel momento ciascuna Forza Armata aveva un quadro preciso nell’ambito di quello generale della difesa contro una possibile invasione operata dai Paesi del patto di Varsavia. Eliminato il muro, le nuove situazioni di crisi ai confini dell’Unione Europea hanno richiesto la partecipazione di forze il più integrate possibile, e nella prima metà degli anni Novanta abbiamo scoperto che le Forze Armate si parlavano poco e male tra loro. Oggi si possono immaginare operazioni in cui reparti dell’Esercito italiano operino con reparti francesi, inglesi o olandesi, come sta avvenendo in Afghanistan e in altri teatri operativi e come è avvenuto nei Balcani.

Domanda. Qual è l’attività del Centro Alti Studi per la Difesa?
Risposta. Oltre a quella dei quadri intermedi, il Casd cura la formazione dei futuri alti dirigenti della Forza Armata, quindi accanto al corso dell’Issmi abbiamo il corso dello Iasd - Istituto Alti Studi della Difesa, che provvede alla formazione dei generali, di un numero molto limitato e selezionato di colonnelli in promozione o di generali appena promossi. Costoro frequentano un corso seminariale di un anno affrontando i temi in un’ottica di grande strategia, con un’attenzione rivolta a temi di carattere non rigorosamente militare ma anche sociale ed economico. Questo perché un alto dirigente militare deve operare in una società complessa e articolata e conoscere il linguaggio degli altri attori che la compongono. Tale ampiezza di interessi giustifica il fatto che lo Iasd non è più rivolto soltanto alla formazione dei quadri militari ma si è aperto all’esterno.

D. Partecipano ai corsi solamente le categorie che ha indicato?
R. Partecipano all’attività sia dell’Issmi sia dello Iasd un certo numero di ufficiali stranieri ma in entrambi gli istituti vi sono anche civili. Nel caso dell’Issmi si tratta di 18 neolaureati delle università Luiss di Roma e Statale di Milano che seguono, insieme a tenenti colonnelli, un corso di un anno valido come master in Scienze strategiche, nel quale si studiano i problemi dei militari nel modo più realistico possibile. Pensiamo di costituire un vivaio dei futuri ricercatori e analisti strategici italiani. Questi giovani potranno lavorare nei centri di ricerca e di studio dei vari Paesi dell’Occidente - Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Svezia -, dove si compiono analisi continue della situazione mondiale oppure nella libera professione come giornalisti e analisti. Ai corsi dello Iasd partecipa invece un numero selezionato di funzionari che frequentano una parte dell’attività, perché il dirigente di un’impresa nazionale non può assentarsi per un anno dal lavoro. Si tratta di funzionari della Camera, del Senato, di ministeri, di dirigenti del mondo imprenditoriale con preferenza di aziende operanti nel settore della Difesa come quelle del Gruppo Finmeccanica e altre che costituiscono o hanno interessi strategici, ad esempio i gruppi Eni o Telecom Italia.

D. L’apertura alla società indica che il settore militare sta acquisendo forme di gestione più manageriali?
R. Direi anche manageriali, perché non abbiamo perso le nostre caratteristiche, finalità e modus operandi militari. Il compito affidatoci richiede un atteggiamento particolare. Formiamo soldati disposti a correre dei rischi, ad assumersi responsabilità normalmente non presenti in altri settori, ma questo non può essere fatto se non con una preparazione ad ampio spettro che nel passato non era richiesta e che oggi è diventata un requisito imprescindibile perché le Forze Armate venivano considerate come una specie di polizza di assicurazione da pagare. Oggi questa polizza deve trovare una concreta attivazione in tutti i teatri operativi in cui siamo impegnati. Allora o siamo efficienti e spendiamo bene le risorse finanziarie, umane, infrastrutturali e strumentali affidateci, o andremo incontro a seri problemi.

D. Quale funzione ha il Centro Militare di Studi Strategici che fa parte del Casd?
R. Il Cemiss è il nostro terzo pilastro. È un centro di ricerca che, sulla base delle esigenze di analisi e di studio del ministero della Difesa, degli Stati Maggiori delle Forze Armate, dei comandi generali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, partecipa attivamente alle nostre attività, elabora ogni anno un programma di ricerche che vengono affidate a ricercatori impiegati a contratto, generalmente giovani formati nelle università o nei nostri corsi, a volte in associazione con istituti di ricerca stranieri. Ogni anno vengono effettuate una serie di pubblicazioni. Spesso un programma di ricerca viene avviato sulla base di un’esigenza immediata, ma trova poi sviluppo e compimento con la pubblicazione di uno studio completo in un congruo lasso di tempo. Cerchiamo di occuparci di problemi non contingenti, ad esempio la perdita energetica con la complessa strategia degli oleodotti, dei rapporti transatlantici, dei temi riguardanti l’Unione Europea, tutte le attività richiedenti al mondo politico e militare decisioni più adeguate se basate su analisi scientifiche.

D. Come promuovete maggiori rapporti con la società e le istituzioni?
R. All’inaugurazione dell’anno accademico ho spiegato quello che cerchiamo di essere con l’immagine della porta girevole di un grande albergo che consenta la circolazione delle idee tra i militari e la società, a beneficio di entrambi: i militari acquisiscono una maggiore consapevolezza dei risultati richiesti alla loro azione; la società una maggiore conoscenza di quanto può ottenere da questo strumento, che è costoso e deve essere utilizzato bene. È significativo il rapporto sviluppatosi negli ultimi 15 anni, dopo la caduta del muro di Berlino, con il ministero degli Esteri: prima i contatti erano pochi e puramente formali, da allora si è sviluppato un dialogo fecondissimo tra la Difesa e la Farnesina. Prima dell’attuale incarico ero sottocapo di Stato Maggiore della Difesa e i miei contatti, personali o telefonici, con alti funzionari della Farnesina erano quasi quotidiani. Almeno tre volte la settimana si svolgevano incontri per discutere l’impiego delle risorse nelle situazioni di crisi.

D. Fate conoscere la vostra attività?
R. È opportuno che il mondo conosca le potenzialità dello strumento militare. Tempo fa ho partecipato a un convegno di politici, diplomatici, economisti sulla crisi del Medio Oriente. Ho esposto un concetto estremamente semplice ma che ha suscitato sorpresa. Spesso siamo usati senza sapere quello che possiamo o non possiamo fare, ho osservato; durante la crisi bosniaca, quando ogni strumento politico parve esaurito, si alzò un grido: «Generali fate qualche cosa». Il che è un non senso perché siamo intervenuti, abbiamo congelato una situazione di grave disagio, bloccato le violenze, ma tutto questo è utile solo se esiste un disegno politico, se alla stabilizzazione forzata si fa seguire una soluzione permanente. L’intervento militare vale in una situazione di emergenza, ma non può costituire la soluzione della crisi. La vicenda del Kosovo è esemplare. Siamo intervenuti, abbiamo eliminato o ridotto al minimo le violenze inter-etniche, ma aspettiamo ancora una soluzione politica; finché non verrà, saremo costretti a presidiare l’area per evitare che torni la violenza. Il mondo politico e diplomatico deve conoscere cosa ci si può aspettare da noi, altrimenti poniamo un coperchio sulla pentola ma sotto resta il fuoco.

D. In una conferenza tra i Paesi mediterranei da voi organizzata i delegati palestinesi e israeliani erano seduti allo stesso tavolo, forse per la prima volta dopo la scomparsa di Yasser Arafat. Come si sono svolti i lavori?
R. Organizzare conferenze è una delle attività del Cemiss - Centro Militare di Studi Strategici. Lo scorso anno si è svolta la prima, destinata a completare il quadro emergente dalle riunioni dei capi delle Marine operanti nel Mediterraneo, indette ogni due anni a Venezia dalla Marina Militare italiana su temi di carattere operativo e di concreta collaborazione. Il fine era quello di compiere un’analisi ad ampio spettro economico, politico, strategico, con tutti i Paesi che si affacciano o hanno un interesse nel Mediterraneo. Un’impresa, mai tentata prima, quella di mettere tutti intorno a un tavolo. Esistono varie iniziative settoriali; lo stesso Processo di Barcellona dell’Unione Europea non riguarda i Paesi balcanici, che si affacciano comunque sul Mediterraneo, perché il loro mare è l’Adriatico. La nostra idea è stata recepita positivamente anche dalla Farnesina, per cui la riunione è stata realizzata d’intesa con il ministero degli Esteri; nella presidenza sono stato affiancato dall’ambasciatore Claudio Moreno. Sono intervenute 24 delegazioni di tutti i Paesi rivieraschi, inoltre della Giordania che in qualche modo si richiama al Mediterraneo, della Mauritania che vi ha il baricentro di interessi e del Portogallo che, pur avendo sponde atlantiche, è considerato dei nostri. E le delegazioni dell’Unione Europea, della Nato, dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea costituita ad Helsinki nel 1975. È stato un incontro a porte chiuse, senza rilievo politico, nel quale ciascun Paese ha avuto la possibilità di manifestare la propria posizione e di confrontarla con quelle degli altri. Erano presenti un rappresentante palestinese e uno israeliano e delegati di altri Paesi arabi. Ciascuno ha sostenuto le proprie tesi con vigore, ma senza toni aspri; alla fine è stato elaborato un documento contenente tutto quello che la presidenza ha tratto dal dibattito: i dodici punti discussi, le indicazioni per il futuro, le valutazioni comuni; è stato accolto con favore e soddisfazione da tutti.

D. Perché mancano le posizioni di Cipro, Libano e Libia?
R. Nonostante fossero sollecitati, non tutti hanno preso la parola; evidentemente non c’è stata la volontà di esporsi da parte di quei Governi, comunque è stata positiva la loro presenza. Non hanno presentato formalmente un testo, hanno partecipato alla discussione il giorno successivo. A porte chiuse è più facile parlare. Desideriamo che l’incontro non resti unico, l’idea è di renderlo biennale, alternato con quello di Venezia. Tutti gli altri incontri sull’area mediterranea non riescono a raccogliere consensi né a produrre documenti significativi.

D. È normale che l’evento sia stato organizzato da un organismo militare anziché diplomatico o politico-economico?
R. Il Casd è uno snodo militare con forti agganci nel mondo diplomatico e accademico e questo ci permette una flessibilità che altri non hanno. Agiamo su più fronti e troviamo ascolto su problemi d’attualità, come le crisi nel Medio Oriente che non riguardano solo Israele e la Palestina perché i problemi della costa orientale del Mediterraneo coinvolgono più Paesi. Contiamo di organizzare una serie di seminari nei prossimi due anni in preparazione della seconda conferenza.

D. Come definirebbe il Mediterraneo che bagna le coste di venti Paesi in cui agiscono molti fattori, aggravati da terrorismo, integralismo e antiamericanismo?
R. Quando mai il Mediterraneo non è stato così? È sempre stato una fucina di idee, istanze, civiltà, popolazioni che si mescolavano e si combattevano. Sono convinto che continui a essere l’ombelico del mondo anche se oggi si guarda ad altre grandi realtà, Cina e Sudamerica. Ma il crogiuolo di idee costituito da questo bacino è unico; dalla loro sintesi nascerà il futuro. L’unico timore è che l’Europa sia frenata proprio dalla paura del futuro.

D. Quali saranno i prossimi impegni?
R. Una delle nostre ambizioni è formare ufficiali e funzionari consapevoli delle potenzialità dell’Unione Europea nell’ambito della politica estera di sicurezza e difesa comune; potenzialità oggi bloccate per la bocciatura del referendum sulla costituzione in Francia e in Olanda e per i problemi di budget annunciati. Possono essere momenti di crisi feconda che porteranno a utili approfondimenti. In questo quadro siamo uno dei candidati più autorevoli per contribuire alla formazione della nuova classe dirigente dell’Unione Europea. Si sente parlare di decadenza dell’Italia ma si dimentica che abbiamo la responsabilità di comando in Afghanistan, in Kosovo, in Bosnia; nessun ufficiale di un altro Paese si sente oggi menomato perché deve ubbidire a un generale italiano. Abbiamo una assoluta parità con i nostri alleati. Ci sono affidati compiti di grande responsabilità e prestigio: presidente del comitato dei capi di Stato Maggiore della Difesa dell’Unione Europea è il generale Rolando Mosca Moschini. È una realtà che va conosciuta e che non riguarda solo il mondo militare: primeggiamo in molte attività, se abbiamo problemi nei campi tessile e calzaturiero, nell’alta tecnologia le imprese collegate con la Difesa sono al primo posto. Gli elicotteri prodotti a Cascina Costa sono i migliori del mondo. Durante la gara per la commessa di quelli destinati al presidente degli Stati Uniti, un dirigente dell’azienda concorrente, l’americana Sikorsky, ci disse: «Ma voi pretendete che il nostro presidente viaggi a bordo di una Fiat?». Rispondemmo che poteva anche viaggiare a bordo di una Ferrari.

D. Forse una gran parte della nostra industria è abituata ad essere protetta, e non sa affrontare il mercato?
R. Abbiamo molta capacità, inventiva e spirito di emulazione; capacità di organizzarci in un sistema efficace. Ma ribadisco che il potenziale è assai elevato; occorre anche voglia di mettersi in discussione, non rifugiarsi in false sicurezze protezionistiche, sfruttare le flessibilità che la società in evoluzione offre e lavorare con passione e determinazione. Il successo sarà la naturale conseguenza.

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