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Si può credere in una crescita nella Casa comune europea?

maurizio de tilla presidente dell’associazione nazionale avvocati italiani

Qualcuno prevede ottimisticamente che «in Europa potrebbe fiorire una sorprendente primavera». Utopia? Certamente sì, se non si modificano le rigidità comunitarie e se non cambia la sostanza dell’Istituzione, da Europa economica a Europa dei popoli. Non basta, a tal fine, rendere più flessibile il limite del 3 per cento. Occorre affrontare, con determinazione unitaria e armonizzata, anche altri temi, quali i rapporti di lavoro, la previdenza, l’immigrazione, i diritti di cittadinanza, il superamento delle contrapposte identità nazionali.
Il Premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz critica duramente la politica dell’Unione Europea sull’austerità. Sono queste le sue parole: «L’Europa deve capire che deve dare spazio all’Italia perché possa crescere; solo così questa potrà imparare a ridurre il debito. Bisogna agire sul denominatore, cioè sulle dimensioni dell’economia che deve sostenere questo debito. Non certamente attraverso l’austerità del bilancio. Ciò che è accaduto dovrebbe aver insegnato qualcosa: si è cercato di ridurre il debito tramite il rigore di bilancio, ma l’economia è crollata del 25 per cento ed ora il debito rispetto al prodotto interno è più alto di prima».
La «lezione» negativa non è, quindi, stata recepita dall’Unione Europea. E sarebbe il caso che l’Italia si svincolasse autonomamente da una politica di austerità che ha causato nel Paese disoccupazione e aumento della povertà e delle disuguaglianze. Nel linguaggio corrente il giudizio sull’Europa coincide, infatti, con l’austerità e il sacrificio. Di fronte a quest’osservazione molti intendono ribellarsi. Si è scritto che non è sano vivere tutta la propria esistenza nell’autocritica o nell’espiazione pluriennale dei debiti.
È in atto un processo dilagante di sfiducia, specie verso i cicli economici. Sta forse finendo un’epoca felice che, per risorgere, ha bisogno di radicali cambiamenti in Europa, come in Italia. Paradossalmente si parla di stabilità e di credibilità europeista come fattori risolutivi dei problemi che affliggono l’euro, senza porre mano ai problemi più gravi quali la disoccupazione, lo stato di decozione del tessuto economico, la mancanza di credito alle imprese, l’impoverimento del tessuto economico.
Una iattura è l’aver accettato il «fiscal compact» che prevede, per gli Stati sottoscrittori, che il rapporto tra il debito e il prodotto interno si riduca in ciascun anno di almeno un ventesimo dello scostamento rispetto al 60 per cento del prodotto interno. L’applicazione di questa regola decorre per i singoli Stati dal momento dell’uscita dalla procedura di deficit eccessivo, con un periodo di transizione di tre anni. Per l’Italia la prima verifica è fissata nel 2015.
Secondo la maggioranza degli osservatori, la scelta del fiscal compact è autolesionista e peggiora la ripresa economica incrementando i fattori negativi costituiti dalla disoccupazione e dalle disuguaglianze che sono in aumento. Bisogna tener conto che la regola del debito del Patto di stabilità e crescita, che prevede un rientro del rapporto tra il debito e il prodotto interno al 60 per cento nei prossimi venti anni, è certamente di natura vessatoria. La percezione comune è che tra fiscal compact e fiscal diktat ci sia più di un’assonanza.
La verità è che il formulato programma di riduzione del debito non sarà realizzabile e, se si avvierà, determinerà con il rigore una catastrofe nella crescita non solo del nostro Paese, ma anche di altri Stati dell’Unione Europea. Mancando produttività e sviluppo, il nostro Stato, per fronteggiare il debito, dovrà aumentare le tasse, non essendo in grado di eliminare gli sprechi e la corruzione.
Intanto bisogna fare oggi i conti con il fatto che la forte disoccupazione sta determinando, in gran parte dell’Europa, un incremento della povertà. Si prospetta, quindi, un’istanza ancora più forte di reddito minimo garantito da prevedere nelle nuove forme di previdenza sociale. Una specie di sussidio universale da pagare individualmente a tutti i cittadini, variabile da uno all’altro dei Paesi membri dell’Unione Europea, a seconda delle loro specifiche circostanze. Da alcuni si parla di reddito di cittadinanza. Il che comporterebbe non poche esclusioni e discriminazioni.
Perché si possa realizzare in ogni Paese dell’Unione Europea un sostegno sufficiente e generalizzato si è proposto di impiantare un forte sistema di solidarietà «interstato». Ma non sappiamo se la Germania sarà d’accordo. Va anche considerato che la più profonda divisione in Europa è tra Nord e Sud. Philippe Legrain, sul Sole 24 Ore, ha fatto rilevare che il sistema bancario dell’Eurozona rischia di restare frammentato lungo linee nazionali e diviso tra un «centro» settentrionale, nel quale i Governi continuano a sostenere le banche locali, e una periferia meridionale, nella quale i Governi sono al verde.
Le banche dell’Europa settentrionale, che sono ancora sostenute dai Governi solvibili, riceverebbero un trattamento diverso da quello riservato agli istituti, a corto di liquidità, dell’Europa meridionale. In altri termini, la Germania può permettersi di salvare le proprie banche, l’Italia no. Le affermazioni di Legrain devono far riflettere sulla efficacia dell’Unione bancaria.
Altra critica alla politica europea è dovuta al fatto che manca, nella realtà, qualsiasi propensione ad accogliere le richieste di cittadinanza democratica per trasformare la solidarietà verso i marginalizzati in veri e propri diritti sociali. Esiste uno stretto nesso concettuale (e reale) tra «giustizia politica» e solidarietà. L’austerità non produce di per sé solidarietà, anzi è spesso il contrario se i sacrifici non danno corso ad una redistribuzione a favore dei ceti meno abbienti, senza il filtro di una politica che è spesso clientelare e talvolta corrotta.
Qualsiasi critica è definita, con spregio, populista. È fin troppo facile rispondere così alla fondatezza delle contestazioni sulla gestione dell’Unione Europea. In proposito va richiamato il libro «Democrazia ibrida» di Ivo Diamanti, che fa rilevare come il populismo è un concetto che non indica un solo significato, ma ne propone molti, fra loro differenti e talora divergenti.
La parola populismo viene, anzitutto, impiegata con un intento critico, definendo come populisti i responsabili di azioni, di iniziative, di ideologie deprecabili. Secondo una tale concezione, il populismo viene considerato come l’equivalente di un sistema poco liberale ed anzi tendenzialmente autoritario. Specificamente viene qualificata «neopopulismo» un’ampia serie di agenti dell’estrema destra antieuropea. Ed è altresì considerata populista la tendenza personale che finisce per caratterizzare i partiti.
È populista lo stile di comunicazione dei politici in questa fase. Da una parte i leader e dall’altra i cittadini la cui opinione viene quotidianamente manifestata dai mass media e da artificiosi sondaggi commissionati da soggetti interessati a far apparire situazioni diverse dalla realtà. Per fare ciò stanno scomparendo i confini fra intrattenimento e approfondimento.
Una miscela di informazione, divertimento, politica, nella quale personaggi e avvenimenti della politica, della cronaca e dello spettacolo si confondono. E vengono rielaborati, reintegrati, sceneggiati in «format» popolari ad alta diffusione. Infine, i discorsi e i soggetti definiti «populisti» vengono associati, in modo automatico, al concetto altrettanto suggestivo di «antipolitica».    

Tags: Ottobre 2014 Unione Europea Maurizio de Tilla

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