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Il nuovo diritto del lavoro articolo per articolo

Fabio Massimo Gallo presidente della Sezione Lavoro e Previdenza della Corte di Appello di Roma

Con l’approvazione da parte del Senato il 3 dicembre 2014, con un sofferto voto di fiducia, si è concluso il faticoso cammino della riforma del mercato del lavoro, preannunciata da Matteo Renzi con la sua eNews 381 dell’8 gennaio 2014 con il nome di «Jobs Act», palesemente ispirato al nome informale di un paio di proposte legislative contenute in un messaggio indirizzato dal presidente americano Barack Obama al Congresso nel settembre 2011. Esaminando brevemente il contenuto complessivo del duplice intervento legislativo, osserviamo innanzitutto un’interessante differenza tra le due procedure. La prima parte della riforma, relativa alla disciplina del contratto a termine e dell’apprendistato, ossia la flessibilità «in entrata», è stata adottata con procedura d’urgenza, con il decreto legge 20 marzo 2014 n. 34, convertito in legge n. 78 del 2014: il decreto legge è immediatamente esecutivo e la legge di conversione serve a renderlo definitivo, eventualmente con modifiche.
Invece per la seconda parte della riforma, quella appunto conclusa con il voto del 3 dicembre, è stata seguita addirittura la strada della legge delega, una legge che attribuisce al Governo il potere di emettere uno o più decreti legislativi (cinque nel nostro caso) in attuazione delle direttive e secondo i criteri e principi contenuti nella legge delega; il che significa che la riforma sarà effettivamente operativa solo con la promulgazione di detti decreti per i quali è previsto un termine di sei mesi dalla data di approvazione senza attendere l’entrata in vigore della legge stessa. Poiché è assai difficile credere che il diverso iter dipenda dall’attribuzione di una minore urgenza alle materie oggetto delle legge delega, è plausibile che siano stati il numero e la complessità degli obiettivi ad impedire il ricorso alla procedura per decreto e ad imporre un’operazione dai tempi di realizzazione così lunghi.

Le aree di intervento del «jobs act»
I principali punti di intervento del Jobs Act sono: contratto di lavoro a termine; contratto di apprendistato; semplificazione in materia di documento unico di regolarità contributiva; contratti di solidarietà (decreto legge); ammortizzatori sociali; contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti; esclusione della reintegrazione per i licenziamenti economici; revisione della disciplina delle mansioni; revisione della disciplina dei controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti di lavoro; tutela della maternità; possibilità di cessione di ferie o permessi (legge delega).

L’oggetto della legge 78/2014, di conversione del decreto legge 34/2014
Come cambia l’apprendistato? Come già accennato, con il decreto n. 34 il Governo ha affrontato i temi dell’apprendistato e del contratto a termine. L’apprendistato, che rappresenta il più antico strumento per l’accesso dei giovani nel mondo del lavoro, è già disciplinato dal codice civile (promulgato, giova ricordarlo, il 16 marzo 1942) negli articoli 2130-2133, che però si preoccupa esclusivamente di dettare norme a tutela del lavoratore, stabilendo limiti di durata, l’obbligo di formazione professionale, e l’applicazione delle norme sul rapporto di lavoro, in quanto compatibili. Negli anni successivi si è avuta una serie di interventi organici, dalla legge n. 25 del 19 gennaio 1955 sull’apprendistato, fino ai recentissimi interventi così come disciplinato dagli articoli 47 e seguenti del decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003, al contratto di inserimento previsto dagli articoli 54 e seguenti stessa legge.
Seguiva poi il nuovo Testo Unico sull’apprendistato, il decreto legislativo n. 167 del 2011, destinato a ridisegnare in modo organico l’intera materia, a sua volta ben presto modificato dall’art. 1, comma 16, della legge n. 92 del 2012, cosiddetta legge Fornero. A meno di due anni di distanza sopraggiunge il decreto legge n. 34, che per l’apprendistato introduce significative novità, dirette a rendere più appetibile tale contratto da parte del datore di lavoro.
Vediamone alcune. Anzitutto scompare l’obbligo della forma scritta per il piano formativo individuale, sostituito dalla prescrizione di un’indicazione «in forma sintetica (...) anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali». La funzione formativa risulta, oggettivamente, largamente affievolita. L’obbligo di stabilizzazione viene limitato ai datori di lavoro che occupano almeno 50 dipendenti, e la percentuale da stabilizzare viene ridotta al 20 per cento degli apprendisti dipendenti nel precedente periodo di 36 mesi, contro il 50 per cento previsto dalla stessa legge Fornero.
Le ore di lavoro effettive sono retribuite nella misura del 100 per cento mentre quelle destinate alla formazione vengono retribuite nella misura del 35 per cento. È agevole prevedere che quest’ultima disposizione, indipendentemente da ogni considerazione di merito, è foriera di un notevole contenzioso legato all’individuazione delle ore effettivamente lavorative, come tali da retribuire in misura piena. Va comunque osservato che l’apprendistato, nonostante i numerosi interventi legislativi sopra ricordati, non rappresenta più lo strumento principe per l’accesso dei giovani al lavoro, ma sembra ormai scavalcato da altre figure contrattuali. Il mercato del lavoro offre invero un numero sempre più ampio di rapporti di lavoro a termine, nelle varie tipologie previste dal decreto legislativo n. 276 del  10 settembre 2003, attuativo della legge delega n. 30 del 14 febbraio 2003, cosiddetta legge Biagi, primo fra tutti il lavoro a progetto.
 
Il contratto a termine
Di gran lunga più rilevante è il contratto a termine, che rappresenta una delle tipologie più diffuse di contratto di lavoro subordinato (e una delle maggiori fonti di contenzioso a livello nazionale e comunitario). Occorre sgomberare subito il campo da un equivoco: il contratto a termine non è affatto meno costoso del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, il lavoratore subordinato assunto con contratto a termine ha diritto allo stesso trattamento retributivo e giuridico degli altri lavoratori dipendenti, mentre il lavoratore in somministrazione percepisce il medesimo trattamento ma costa ancora di più al datore di lavoro, che deve pagare anche il soggetto somministratore.
Il motivo principale per cui si ricorre a tali tipologie è dunque rappresentato dalla necessità di non assumere un lavoratore a tempo indeterminato, che potrebbe da un momento all’altro risultare in eccesso rispetto alle esigenze aziendali, o inadeguato o non più affidabile, ma il cui licenziamento potrebbe comportare problemi giudiziari ai quali molti datori di lavoro non intendono esporsi. La questione si intreccia dunque strettamente con il tema dei licenziamenti, su cui si tornerà appresso. L’istituto del contratto di lavoro subordinato a termine ha costituito oggetto di una serie di interventi legislativi nazionali e comunitari, e in tale contesto assume particolare rilievo la direttiva 1999/70/CE.
Il criterio guida, già presente nell’accordo quadro sui contratti a tempo determinato del 18 marzo 1999, afferma che «i contratti a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro»; ne discende che la relazione fra il rapporto a tempo indeterminato e determinato è quella tra regola ed eccezione. Da tale principio scaturiscono poi il principio di non discriminazione e la prevenzione degli abusi derivanti da una successione di contratti o rapporti a tempo determinato. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 41 del 2000, salvava la legge n. 230 del 1962 ritenendola compatibile con la direttiva 1999/70/CE. Successivamente comunque, con il decreto legislativo n.368 del 6 settembre 2001, in forza della delega contenuta nella legge n. 422 del 2000, il secondo governo Berlusconi dava attuazione alla direttiva comunitaria.
Tale decreto innovava la disciplina del contratto a termine, sostituendo all’elencazione tassativa delle «ragioni oggettive» una formula aperta, consentendo l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato «a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo», da specificare per iscritto, passando così dalle «causali» a quello che è stato chiamato il «causalone». Venivano però nel contempo previste varie ipotesi di preclusioni, con riguardo a determinate situazioni (di scioperi, di licenziamenti collettivi avvenuti nei 6 mesi precedenti salvo le previste eccezioni, o di sospensioni e riduzioni di orario con diritto all’integrazione salariale sempreché riferite alle stesse mansioni, di imprese prive della prevista valutazione dei rischi).
Pur non essendo esplicitamente stabilito che in assenza di tali ragioni oggettive il contratto dovesse considerarsi a tempo indeterminato, tale conseguenza emergeva dall’intero contesto, e divenne ben presto «ius receptum» in giurisprudenza. Non veniva previsto in generale un termine massimo di durata, previsto invece per la proroga, ancora praticabile «con il consenso del lavoratore (...) una sola volta e a condizione che (...) si riferisca alla stessa attività lavorativa», ma «solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni», sicché «esclusivo riferimento a tale ipotesi, la durata complessiva del contratto a termine non potrà essere superiore ai tre anni». La condizione richiesta per la proroga non era più costituita «eccezionalmente (...) da esigenze contingenti ed imprevedibili», ma, in analogia con il cosiddetto causalone, da «ragioni oggettive».
Il decreto legislativo n. 368 del 2001 comportava indubbiamente un’estensione delle possibilità di ricorso al contratto a termine, per contro la giurisprudenza adottò prevalentemente un indirizzo restrittivo del causalone, richiedendo la temporaneità se non addirittura l’eccezionalità ed imprevedibilità delle ragioni; parte della dottrina e alcuni settori politici ritennero che la magistratura arrivasse a sindacare le stesse valutazioni relative alla conduzione dell’impresa e all’attività aziendale.
Sotto il profilo delle relazioni industriali, l’introduzione del causalone da una parte faceva venir meno l’esigenza di una flessibilizzazione contrattuale dell’elencazione tassativa delle causali, dall’altra rafforzava l’opportunità di un’individuazione contrattuale delle quote di contingentamento. Non subiva sostanzialmente modifiche la precedente disciplina dei rinnovi. L’articolo 10, comma 1, lettera a, del decreto legislativo n. 368 escludeva espressamente l’applicazione del decreto stesso ai contratti di lavoro temporaneo di cui alla legge n. 196 del 24 giugno 1997, e successive modificazioni, ovvero al contratto di prestazioni di lavoro temporaneo, il cui regime restava così separato d quello del contratto a termine.
 Il decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 non ha agito sul contratto a termine, anche se in qualche modo il contratto d’inserimento andava a riempire, in favore dei soggetti deboli, l’area di inutilizzabilità del contratto a termine. Segue una serie di singoli interventi tutti diretti in varia misura ad estendere le possibilità di ricorso al contratto a termine, tra cui di particolare importanza il comma 1 bis aggiunto all’art. 2 del decreto legislativo n. 368 dall’art. 1, comma 558, della legge n. 266.
Tale norma, che ha esteso alle imprese concessionarie di servizi nei settori delle Poste la disciplina già prevista dal primo comma dell’art. 2 per le aziende di trasporto aereo o aziende esercenti i servizi aeroportuali, ha dato origine ad un contenzioso di dimensioni incalcolabili, al quale la giurisprudenza ha dato risposte di segno differente, prima di arrivare ad una sostanziale unicità di orientamento per effetto delle più recenti pronunce di legittimità. L’ampio contenzioso scaturito dai contratti a termine delle Poste italiane, in particolare, è sfociato in numerose pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione europea, le quali hanno sostanzialmente sempre riaffermato il principio che l’obiettivo della direttiva 1999/70/CE è il contrasto all’abuso del contratto a termine, e dunque alla reiterazione indiscriminata di tale tipo contrattuale, più che la limitazione delle ragioni giustificatrici del primo, singolo contratto (sentenza Adelener, sentenza Mangold).
Il fenomeno dei contratti a termine non riguarda solo il settore privato bensì anche quello pubblico, e del resto il decreto legislativo n. 368 tendeva a fornire una disciplina omogenea nei due settori, fermo restando il divieto di accesso alle dipendenze della Pubblica amministrazione a tempo indeterminato se non attraverso concorso pubblico (art. 97 della Costituzione) con il conseguente divieto di conversione del rapporto a termine eventualmente illegittimo; non sono mancate tuttavia decisioni di merito, invero alquanto isolate, nel senso della conversione del rapporto anche alle dipendenze della Pubblica amministrazione.
Tuttavia si è verificata, per effetto della legislazione successiva al 2001, una progressiva diversificazione tra i due settori, a partire dal decreto legislativo n. 276 del 2003 rivolto unicamente al settore privato. Nel settore pubblico il fenomeno ha assunto dimensioni incontrollabili con il precariato nella scuola, per le supplenze sia del personale docente che del personale Ata (amministrativo, tecnico, ausiliario) cui ha fatto ovviamente riscontro un contenzioso parimenti mastodontico, e parimenti pervenuto all’esame della Cgue, come vedremo tra poco.
Un intervento legislativo di notevole importanza è rappresentato dalla legge n. 183 del 2010, soprattutto laddove ha esteso all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro l’applicazione dei termini di decadenza già previsti per l’impugnativa del licenziamento, ed ha limitato il risarcimento del danno, nei casi di conversione a tempo indeterminato, stabilendo un’indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto; in precedenza il risarcimento poteva essere pari a tutte le retribuzioni maturate dalla data della cessazione del rapporto a termine (o della messa in mora) detratto eventualmente l’aliunde perceptum. Tale norma ha superato il vaglio di costituzionalità, con la sentenza n. 303 del 2011 del giudice delle leggi. Con la recente sentenza Carratù la Cgue ha ribadito a sua volta la conformità all’ordinamento europeo dell’art. 32, commi 5 e 7, della legge n. 183 del 2010, rilevando che l’illegittima apposizione del termine e il licenziamento illegittimo non sono situazioni comparabili, il che esclude che il trattamento delle relative conseguenze economiche debba essere identico.
Quanto agli insegnanti, va segnalata la recentissima decisione della Cgue in data 26 novembre 2014 (Mascolo ed altri contro il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca) che - preso atto dell’esclusione dell’applicazione dell’art. 5, comma 4 bis, del decreto legislativo n. 368 (trasformazione in contratto a tempo indeterminato) alla scuola statale, ha stabilito che la mera possibilità di trasformazione della supplenza in contratto a tempo indeterminato per effetto dello scorrimento delle graduatorie «non può essere considerata una sanzione a carattere sufficientemente effettivo e dissuasivo ai fini di garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro». Di conseguenza, la questione ritornerà alla Corte Costituzionale che dovrà dettare i criteri per adeguare la legislazione italiana ai principi comunitari. In attesa di questa pronuncia, centinaia di procedimenti in primo e secondo grado vengono rinviati per essere decisi alla luce delle statuizioni della Consulta, e migliaia di rapporti, anche non ancora portati alla cognizione dei giudici, attendono una soluzione. Infine, sul contratto a termine è intervenuto in modo significativo il decreto legge n. 34.
In sostanza, il provvedimento in esame, incidendo radicalmente sul sistema delineato dal decreto n. 368, ha eliminato completamente qualsivoglia ragione per il ricorso al (primo) contratto a termine; la durata è portata a 36 mesi, comprese eventuali proroghe; l’art. 2 della legge di conversione ha poi esteso la acausalità al contratto di somministrazione. Il decreto legge n. 34 del 2014 ha limitato al 20 per cento dell’organico la percentuale per i contratti a termine, prevedendo però, come sanzione per il superamento di tale tetto, una mera sanzione amministrativa, in luogo della conversione fin qui operata. Traspare complessivamente la volontà legislativa di favorire, e non certo limitare, il ricorso a tale tipologia contrattuale; scelta che, nell’intento del Legislatore, tende ad agevolare il funzionamento delle imprese producendo così nuovi posti di lavoro.

Gli obiettivi della legge delega. Punti fondamentali della riforma
Tra i vari obiettivi della legge delega che ha portato a completamento (parziale) la riforma del Jobs Act, in attesa dei decreti legislativi delegati quelli più rilevanti e di maggiore interesse appaiono certamente l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti; l’esclusione della reintegrazione per i licenziamenti economici; la revisione della disciplina delle mansioni e la revisione della disciplina dei controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti di lavoro.
La tutela della maternità e la possibilità di cedere parte delle ferie o permessi in favore di altro lavoratore che ne abbia necessità per ragioni familiari, aspetti certamente assai rilevanti sul piano sociale, appaiono poco decisivi nell’ambito di un provvedimento che si propone essenzialmente di produrre posti di lavoro, modificando la disciplina del mercato del lavoro e del rapporto di lavoro; inoltre, l’effettiva portata delle previsioni in materia di strumenti di sostegno in costanza di rapporto di lavoro e in caso di disoccupazione involontaria, appare fortemente limitata dal tetto delle risorse finanziarie a disposizione.

Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti
Sul piano concettuale, l’innovazione più eclatante è costituita dall’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. L’art. 1, 7, lett. C, stabilisce «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».
La prima parte della norma prevede quindi un istituto completamente nuovo nel nostro ordinamento (con qualche precedente simile nel sistema giuslavoristico del Regno Unito), che aggancerà le tutele all’anzianità di servizio. Non sappiamo come opererà in concreto la relativa delega, né quali siano le tutele crescenti (il plurale incuriosisce, dovendo evidentemente escludersi, ad esempio, quelle concernenti il diritto alla salute, alla libertà sindacale ecc.), ma è probabile che tale norma sia destinata a creare per anni una situazione di confusione poiché coesisteranno diverse aree di tutela differente, per giunta con qualche rischio di costituzionalità sotto il profilo della disparità di trattamento in presenza di situazioni uguali.
Inoltre, non si può astrattamente escludere il rischio che, prima che le tutele del lavoratore diventino troppo stringenti, qualche azienda decida di liberarsi del lavoratore con un livello di tutela ancora non dissuasivo, per sostituirlo con un altro a costo contenuto, e così via ripartendo ogni volta da zero. Tale rischio appare ancor meno fantasioso se si legge l’intero testo della norma, che comprende la contestuale restrizione dell’area di operatività della reintegrazione.

Limitazione delle ipotesi di reintegrazione del lavoratore
Un altro caposaldo della riforma è infatti l’ulteriore ridimensionamento dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, già abbondantemente affievolito dalla riforma Fornero. Nel testo tuttora vigente (in attesa dei decreti legislativi) l’art. 18, riformato dall’art. 1, p. 42 della legge n. 92 del 2012, prevede ancora la generalizzata nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, o inefficace perché intimato in forma orale, con integrale risarcimento del danno. La reintegrazione permane poi nelle ipotesi di annullamento del licenziamento non ricorrendo «gli estremi del giustificato motivo soggettivo, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa (...)», prevedendo però in tal caso un limite all’entità del risarcimento non superiore a dodici mensilità. Nelle altre ipotesi (ossia quando l’illegittimità del licenziamento non deriva dalle suesposte carenze) il giudice «dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria» da un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità. Analoga soluzione è prevista per il licenziamento dichiarato inefficace per mancanza di motivazione, ma l’indennità è ricompresa tra sei e dodici mensilità.
Complessa e delicata la disciplina del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo: infatti il giudice, nel caso in cui accerti la manifesta infondatezza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, può disporre la reintegrazione e il risarcimento con il limite delle dodici mensilità. Siamo dunque in presenza di due variabili, necessariamente rimesse alla valutazione del giudicante: decidere se l’insussistenza è manifesta, e se in tal caso applicare la disciplina di cui al quarto comma. Nelle altre ipotesi il giudice deve applicare la disciplina di cui al quinto comma («dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria» da un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità). Come si vede, l’attuale testo dell’art. 18 rappresenta da un lato una notevole riduzione delle ipotesi tutelate con la reintegrazione, e non sempre sostenute da un risarcimento pari a tutte le mensilità maturate medio tempore, dall’altra lascia ampi spazi decisionali al giudice, con oggettivi margini di oscillazione nelle risposte giurisprudenziali.
I criteri indicati dal punto 7 lettera c) escludono completamente la possibilità di reintegrazione per i licenziamenti che chiama economici, lasciando sopravvivere la tutela reale unicamente per i licenziamenti nulli e discriminatori e specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato. Nulla è previsto circa l’entità del risarcimento spettante in caso di reintegrazione, né su come vadano individuate le specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato. La stessa norma stabilisce che debbano essere previsti termini certi per l’impugnazione del licenziamento, ma poiché tali termini già esistono, si deve ritenere che tale previsione contenga in realtà una riduzione dei termini stessi.

Controllo a distanza e mutamento di mansioni
Interessante anche la prevista revisione dei controlli a distanza, evidentemente destinata a battere in breccia il vecchio art. 4 dello Statuto dei lavoratori, strumento prezioso ma invero un po’ farraginoso nel concreto; comunque il decreto attuativo dovrà anche coordinarsi con i principi generali del Codice in materia di protezione dei dati personali, decreto legislativo n. 196 del 30 giugno 2003. Particolarmente rilevante, anche alla luce dell’abbondante contenzioso in materia, si presenta infine la revisione della disciplina delle mansioni. Allo stato, la norma chiave è rappresentata dall’art. 2013 del Codice civile comma 1 (come sostituito dall’art. 13 della legge n. 300 del 1970): «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione». L’interpretazione giurisprudenziale di tale norme è stata prevalentemente molto rigorosa nel senso di ravvisare il demansionamento anche in caso di attribuzione di mansioni formalmente di pari livello, ma ritenute concretamente inferiori o comunque tali da non consentire al lavoratore di utilizzare il proprio bagaglio professionale già acquisito. Così, la Cassazione del 21 agosto 2014 n. 18121 ha affermato che sussiste il demansionamento anche allorquando l’adibizione a mansioni inferiori sia temporanea, o effettuata solo per il tempo occorrente alla realizzazione di una nuova struttura produttiva.
La Cassazione con sentenza del 4 marzo 2014 n. 4989 ha ribadito che al prestatore di lavoro non possono essere affidate, anche secondo un principio di equivalenza formale, mansioni sostanzialmente inferiori rispetto a quelle in precedenza disimpegnate, dovendo il giudice accertare in concreto se le nuove mansioni siano aderenti alla competenza professionale specifica del dipendente, e garantiscano nel contempo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali; né tale criterio può essere disatteso in sede di contrattazione collettiva, per effetto del cosiddetto riclassamento di talune mansioni. Nello stesso senso la Cassazione 5 agosto 2014 n. 1762.
Più attenta al bilanciamento degli interessi sembra invece la decisione della Suprema Corte n. 11395 del 22 maggio 2014, secondo la quale «la disposizione dell’art. 2013 del codice civile va interpretata alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, con la conseguenza che, nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti tra l’altro interventi di ristrutturazione aziendale, l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse, ed anche inferiori a quelle precedentemente svolte senza modifica del livello retributivo, non si pone in contrasto con il dettato del codice civile.
L’art. 1, parte 7 lettera d) della legge delega mira dichiaratamente a tale bilanciamento, e contiene un’apertura alla contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, restituendo un certo ruolo alle organizzazioni sindacali, per altri aspetti molto ridimensionato nella legge in questione.

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