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No alla frattura tra lavoro e capitale

GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

Nell’Hotel Sofitel Legend Le Grand Amsterdam si è tenuta la prima assemblea della Fiat Chrysler Automobiles; vi hanno partecipato dieci azionisti. Gli interventi in italiano sono stati ammessi, ha detto il presidente John Elkan, solo in via eccezionale, visto che per la Fiat è la prima riunione fuori dall’Italia. Elkan ha anche sottolineato che con la nascita della Fca «tutto è cambiato per sempre». I soci hanno impiegato meno di due ore per approvare tutti i punti all’ordine del giorno, dai conti 2014 al rinnovo del consiglio. Exor - la holding quotata dalla famiglia Agnelli - che controlla la Fca con il 29,19 per cento del capitale Fca e il 44,31 per cento dei diritti di voto; grazie al meccanismo delle deleghe era presente il 59 per cento delle azioni ordinarie e il 68,5 per cento circa dei diritti di voto.
I soci di minoranza della Fiat Chrysler hanno bocciato la politica di remunerazione del gruppo e in particolare il superpremio assegnato a Sergio Marchionne. La votazione sui «premi per gli amministratori esecutivi» è stata infatti approvata con circa 919 milioni di voti a favore, pari all’80 per cento circa dei diritti di voto, contro 226 milioni di voti contrari; poiché Exor controlla circa 743 milioni di voti, il numero dei favorevoli tra i soci di minoranza è pari a 176 milioni. A fine 2014 il Consiglio di amministrazione aveva assegnato a Marchionne premi straordinari per un valore complessivo di 60 milioni di euro, parte dei quali incassabili a fine mandato.
Sergio Marchionne, il Ceo della Fca, nata dalla fusione tra Fiat e Chrysler, ha proposto, con un’iniziativa a sorpresa, un nuovo e moderno sistema di politica retributiva mettendo sul tavolo la fruibilità per i lavoratori dipendenti di seicento milioni di euro per premi di risultato. Un anno fa, a Detroit, dopo l’uscita della Fiat dalla Confindustria e dopo il trasferimento della nuova azienda, la Fca, ad Amsterdam e a Londra, si è impostato un nuovo piano industriale con ricadute sugli stabilimenti italiani degli investimenti e del rilancio per l’Alfa Romeo, accanto alla ripresa produttiva di Mirafiori e alla saturazione di Pomigliano. È decollata una nuova politica retributiva, basata su un duplice bonus. «Un sistema che riconosce la centralità dei nostri lavoratori–sottolinea Marchionne–per il raggiungimento degli obiettivi del piano industriale 2015-2018, ulteriore avanzamento del processo di modernizzazione delle relazioni industriali in Italia».
Tutto è cominciato–ricorda la Fca–con il contratto collettivo specifico di lavoro (Ccsl) sottoscritto nel 2011, «un significativo passo in avanti nel coinvolgimento delle persone per raggiungere i risultati previsti dal piano industriale». Nel dettaglio, il primo bonus è calcolato sui risultati di efficienza dei singoli stabilimenti produttivi, parametrati sul livello raggiunto rispetto al sistema World Class Manufacturing (Wcm). Il secondo bonus è invece collegato al raggiungimento dei risultati economici in area Emea, contenuti nel piano strategico per il 2015-2018. In questo secondo caso, la proposta prevede un anticipo di bonus riconosciuto trimestralmente a partire dal 2015, con il saldo nel 2019. In valore assoluto, in media il premio annuale varrà 1.400 euro a partire da quest’anno e per il 2016 e il 2017, per crescere a 2.800 nel 2018, con possibili aumenti, rispettivamente fino a 1.900 e 5 mila euro, in caso di risultati superiori alle attese. Per l’intero quadriennio la somma ammonta a 7 mila euro (6.500 se si guarda ai valori tabellari relativi agli operai non specializzati), 10.700 considerando performance superiori alle attese. In caso di mancato raggiungimento degli obiettivi, invece, l’erogazione sarà di 330 euro l’anno.
Cosa significa? Molto. Tutto. Il sindacato e le imprese hanno ora l’occasione di cambiare e, soprattutto, di imboccare la strada della partecipazione e del controllo. Non è più il tempo dell’antagonismo a prescindere. Non è però arrivato il tempo per ignorare il sindacato e per sostituirlo con concessioni unilaterali come, sempre di più, si accinge a fare il Governo Renzi con i bonus, con il Jobs Act, con i precari nella scuola e nella Pubblica Amministrazione. Torna di attualità la partecipazione dei dipendenti agli utili dell’azienda. La Fca ha adottato il sistema della Wca (World Class Manufacturing) che consente ai lavoratori di poter controllare la produttività e, in parte, la redditività economica dell’azienda in Europa. La partecipazione agli utili è del resto normale a Detroit e quindi anche alla Chrysler; è diffusa in Germania dove il profit sharing è prassi comune e dove i lavoratori hanno una rappresentanza di peso nelle decisioni aziendali con il meccanismo della codeterminazione.
Va superata la paura di proporre. Questo è un sintomo dell’invecchiamento del Paese. Si ha paura di tutto ciò che non si comprende, che è estraneo, almeno nell’immediatezza del momento: degli immigrati che parlano altre lingue, della tecnologia che sembra astrusa, della modernità nel suo complesso che mette in discussione certezze radicate e radicali. Sono necessarie le riforme. Ma le riforme non si invocano, si fanno. Non si può sopravvivere nella convinzione che sia possibile qualche piccolo intervento congiunturale per rimettere tutto a posto. Si approvano molte leggi che vengono presentate come risolutive. Invece rinviano i problemi. Per numero di iscritti il sindacato italiano è ancora il più forte, c’è un tasso di sindacalizzazione elevato; anche la Confindustria riesce a tenere nel proprio interno tutte le varie espressioni imprenditoriali. Ma a questa forza organizzativa corrisponde una debolezza politica straordinaria: o sono inermi o sono vulnerabili. Invece bisognerebbe uscire da questo cono di paura, bisognerebbe tornare a volare, tornare a formulare proposte veramente «alte», semmai anche rinunciando a qualche conquista di ieri per soddisfare le necessità di oggi.
Nel mondo globalizzato non ci sono più «luoghi mitici», tutto è frammentato, atomizzato, parcellizzato; il tempo ha una scansione diversa, i luoghi appaiono instabili. Perciò il sindacato deve ritrovare nelle viscere della società quella attitudine al cambiamento che ha sempre avuto e che dovrà sempre mantenere. È destinato alla sconfitta se si ostina a pensare che esista uno schema rigido capace di ridurre questa complessità a unità. In una società in cui i capitali viaggiano da un emisfero a un altro in una frazione di secondo, non si può pensare che la risposta sia nell’apertura di un duro contenzioso con la controparte per ottenere un cospicuo aumento salariale: di fronte a una richiesta considerata esosa, può avvenire che l’imprenditore chiuda la fabbrica e la trasferisca in un’altra parte del mondo, dove i lavoratori sono meno bravi, meno preparati, ma anche infinitamente meno costosi.
Non esiste più la società protettiva dei bei tempi quando al fianco del sindacato scendevano in piazza il vescovo e il sindaco. Poiché l’obiettivo non è più l’annientamento del capitalismo, bisogna percorrere la strada della collaborazione. Su alcuni temi la conflittualità resterà, su altri, invece, no. Sulla ripartizione degli utili le divisioni resteranno patologiche ma sull’efficienza e la competitività si deve trovare un terreno d’accordo su cui realizzare non solo incrementi salariali ma anche irrobustimenti dei livelli occupazionali. Il sindacato deve puntare oggi a realizzare qualcosa che assomigli a quanto previsto dall’articolo 46 della Costituzione; deve cercare di importare in Italia, con i necessari adattamenti, sistemi che hanno funzionato nei Paesi del Nord Europa rivendicando, costruendo e partecipando ad organismi di controllo che garantiscano il raggiungimento degli obiettivi per i quali è stata richiesta la collaborazione dei lavoratori.
Oggi assistiamo di nuovo ad una delle conseguenze concrete della fine del monopolio della rappresentanza: «Aumentare la parte variabile del salario, in relazione all’efficienza degli stabilimenti e alla redditività dei gruppi, è una tendenza globale, quantomeno nel settore auto–dice in un’intervista al Foglio Giuseppe Berta, docente della Bocconi–. Grazie al sistema di gestione delle fabbriche World Class Manufacturing, prestazioni ed efficienza di ogni stabilimento diventano trasparenti». Precisa ancora Berta che «il Fordismo, con l’idea che il lavoratore consegni semplicemente le proprie braccia al datore di lavoro, che poi può farne quel che crede, è ormai vetusto. Oggi dai lavoratori ci si attendono elementi di partecipazione attiva». Nel senso, per esempio, che ai vari team leader che guidano i gruppi di lavoro in Fiat si richiede di «presidiare il flusso produttivo», e a ogni singolo «la responsabilizzazione nei confronti della squadra in cui è inserito o che guida».
«A questo punto il sindacato italiano dovrà cambiare marcia–conclude Berta– abbandonando la convinzione che esista una frattura insanabile tra lavoro e capitale. Per l’IGMetall in Germania e per l’UAW negli Stati Uniti o per i sindacati giapponesi, la partnership fra impresa e sindacati fa largamente aggio sul conflitto. Che comunque, quando si manifesta, non è un conflitto sociale ma di interessi, quindi più facilmente conciliabile».
La Fca vuole la fine della contrapposizione tra capitale e lavoro che ha caratterizzato e caratterizza le relazioni industriali in Italia. La partecipazione agli utili riduce lo spazio del sindacato conflittuale. L’iniziativa di Marchionne abbinata a quella di Renzi stringe sempre di più il sindacato in una morsa. L’uscita della Fca dalla Confindustria e dalla Federmeccanica da una parte; Renzi dall’altra (con il bonus di 80 euro, con gli incentivi per l’assunzione a tempo indeterminato, con il contratto a tutele crescenti con la probabile introduzione di un corrispettivo orario minimo applicabile ai rapporti di lavoro subordinato e fino al loro superamento ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nei settori non regolati dai contratti collettivi nazionali) pongono ed impongono ai sindacati interrogativi sul loro futuro. Se rimangono fermi, se si limitano ad esprimere opinioni, se non sono più in grado di rivendicare, se cercano solo di difendere ciò che la globalizzazione rende indifendibile, quale sarà il loro futuro? Quale sarà la loro funzione? Quale sarà il ruolo delle Confederazioni? Come potrà sopravvivere ancora la tripartizione sindacale? Sono interrogativi che non si possono più ignorare.
Marchionne ha avviato la riforma; Renzi la estende sul piano nazionale; la Merkel la realizza sul piano europeo. I sindacati devono aprire gli occhi, devono rivedere molte funzioni e prassi consolidate, devono tornare a progettare, a pensare, a riconquistare solidarietà e consensi. Lo scenario che si preannuncia offre grandi possibilità: svalutazione dell’euro; diminuzione crescente dei tassi di interesse; abbassamento costante dei prezzi delle materie prime. Se non ci saranno i corpi intermedi, e i sindacati tra questi, le disuguaglianze sono destinate a crescere e il lavoro sarà sempre più mercificato e precarizzato. Aumenteranno le domande di solidarietà, di coesione, di azione: occorre saperle capire per coglierle e indirizzarle ad uno sbocco positivo e propositivo.
Il modo peggiore per affrontare i cambiamenti in corso nel mondo del lavoro è pensare che si possa rimanere fermi, o che, peggio, si possa tornare indietro. Di fronte ad una rivoluzione in corso si deve assolutamente cambiare la propria capacità di rappresentanza e le proprie linee di politica rivendicativa. È necessario instaurare relazioni industriali collaborative, più in linea con quelle dei Paesi con cui l’Italia compete, a cominciare dalla Germania. Fra azienda e sindacato la divergenza di interessi è naturale e fisiologica. È però la cornice all’interno della quale si negozia che fa la differenza. Deve esserci una consapevolezza dei vincoli e delle opportunità di mercato, il desiderio condiviso di rispettare i primi e di sfruttare al massimo le seconde. Ecco perché, in conclusione, la cornice non può più essere quella novecentesca dello scontro di classe.        

Tags: Maggio 2015

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