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OUA, IMPUGNAZIONI, UN FILTRO CHE NON FUNZIONERÀ. UNA PROPOSTA RAGIONEVOLE

di MAURIZIO DE TILLA presidente dell’OUA, Organismo Unitario degli Avvocati

La riforma del processo civile contenuta nel decreto legge n. 83 del giugno scorso definito «Crescitalia», convertito nella legge n. 134 del 7 agosto e in vigore dal successivo 12 agosto, ha come principale ambito di applicazione le impugnazioni. Più in particolare, le norme introdotte nel Codice di procedura civile mirano a disciplinare il giudizio di appello prevedendo, nell’articolo 342, specifici requisiti di forma e contenuto del ricorso, mentre l’articolo 348 bis introduce una nuova, e per certi versi rivoluzionaria quanto eccentrica ipotesi di inammissibilità dell’appello stesso. È indubitabile che un intervento sul processo di appello fosse necessario e ineludibile, tenuto conto che la durata media di 7-8 anni del gravame si sta rivelando negli ultimi anni il principale collo di bottiglia che ritarda la definizione dei giudizi civili, esponendo il Paese alle frequenti condanne per violazione della legge Pinto nel cui ultimo rimaneggiamento, contenuto dei medesimi strumenti normativi indicati, si è codificata in due anni la durata massima del secondo grado di giudizio. Entrambe le disposizioni modificate dal Legislatore comportano gravi difficoltà interpretative sottolineate in modo abbastanza compatto dalla più autorevole dottrina, e, rispetto ai benefici immaginati dallo stesso Legislatore, rischiano di arrecare maggiori danni, compresi quelli «collaterali» argutamente segnalati da Tomaso Galletto con il titolo «Doppio filtro in appello, doppia conforme e danni collaterali» nel sito www.judicium.it. L’esperienza di questi anni, caratterizzati da un costante allungamento dei tempi del giudizio di appello, ha evidenziato che questo è contraddistinto da due soli momenti in cui viene effettivamente prestata attività giurisdizionale: l’udienza di prima comparizione che si tiene, salvo rare eccezioni, più o meno in prossimità di quella indicata dall’appellante nell’atto di impugnazione; e l’udienza di precisazione delle conclusioni che, invece, si tiene a distanza di molti anni, in alcuni casi anche 5 o 6, dopo l’udienza di prima comparizione. L’intermezzo fra queste due udienze è riempito da una lunga, inutile e snervante attesa, che si rivela particolarmente insopportabile quando l’impugnazione riguardi una sentenza emessa in primo grado con il rito di cui all’articolo 702 bis del Codice di procedura civile, improntato a sommarietà e ad estrema rapidità. Ulteriore e spesso eccessivo periodo di attesa si ha fra la riserva della causa per la decisione e la formale pubblicazione della sentenza. Per quest’ultimo problema, si rileva che la previsione di sanzioni esclusivamente di ordine disciplinare nei confronti del magistrato responsabile del ritardo nel deposito della sentenza e del sostanziale «annacquamento» dei relativi procedimenti disciplinari si è rivelata nel tempo strumento non adeguato rispetto all’obiettivo di rendere più cogenti i termini assegnati per lo svolgimento dell’attività in questione. In questa situazione, il recente intervento del Legislatore non pare cogliere nel segno perché, lungi dall’intervenire sulle due principali cause di ritardo nella definizione del giudizio ricordate - distanza temporale fra la prima udienza e quella di precisazione di conclusioni e fra il completamento dell’attività difensiva con il deposito delle difese conclusive e il deposito e la pubblicazione della sentenza - si pone come unico obiettivo quello di incentivare le ipotesi di declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione basata su due pilastri: il primo, costituito dal formalismo introdotto dall’articolo 342 nella redazione dell’appello; il secondo, costituito dalla previsione di una nuova ipotesi d’inammissibilità fondata sulle più o meno ragionevoli probabilità di successo o rigetto dell’impugnazione. Entrambe le due innovazioni hanno la caratteristica di impegnare, nella primissima fase del giudizio di appello potenzialmente destinata a seppellire l’impugnazione, il giudice nell’esaminare la sussistenza dei vizi di inammissibilità dell’impugnazione stessa, esame che, quanto meno in relazione al presupposto di cui all’articolo 348 bis, sconfina nella valutazione del merito della controversia, perché appare di tutta evidenza che nessuna prognosi sulla probabilità di accoglimento o meno dell’impugnazione potrà essere eseguita dal giudice se non dopo approfondito esame del fascicolo del primo grado, oltreché degli atti del giudizio di appello: atto di appello, comparsa di costituzione e sentenza di primo grado. Nell’ipotesi in cui l’impugnazione superasse questo primo sommario esame, il magistrato (semmai diverso, per le più disparate ragioni, rispetto a quello che ha eseguito la valutazione sull’ammissibilità) sarà chiamato a riesaminare il medesimo fascicolo e quindi ad affrontare una seconda volta le medesime questioni giuridiche a distanza di molti anni, quanto meno nella prima fase di applicazione delle nuove norme. Il tutto anche in considerazione che lo svolgimento di attività istruttoria in secondo grado è ipotesi residuale e statisticamente irrilevante, il che implica che il «thema decidendum» è delineato sin dalla costituzione delle parti in giudizio. Ciò comporterà una duplicazione della più delicata attività del magistrato e cioè quella più strettamente «decisoria», nella quale si annidano i maggiori ritardi che contraddistinguono l’attuale crisi del giudizio di appello; si tratta di uno dei danni collaterali cui si è accennato innanzi. Soffermandosi sull’articolo 342, è facile individuare le lacune delle nuove ipotesi di inammissibilità che, seppur mutuate dal processo tedesco e illustrate da Remo Caponi ne «La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari» nel sito www.judicium.it, rischiano di trasformarsi in una nuova pericolosa mannaia che potrà abbattersi su un numero elevatissimo di appelli, non differentemente da quanto avvenuto dopo l’introduzione dell’articolo 366 bis nel giudizio di legittimità, nel quale molto spesso il formalismo ha prevalso sul buon senso e sul diritto. Sono due i requisiti richiesti dall’articolo 342, che peraltro vede sparire del tutto inopinatamente e inspiegabilmente l’utilissima, soprattutto per il giudice, «esposizione sommaria dei fatti»: l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge, e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. Se il primo requisito lascia solo qualche perplessità connessa al grado di formalismo con il quale i giudici si dedicheranno alla sua interpretazione, ben maggiori dubbi sorgono dalla lettura del secondo. Non appare chiaro, infatti, come violazioni di legge si possano legare a circostanze che non possono essere che di fatto. La violazione di legge è determinata da errata interpretazione o applicazione di norme, del tutto astratta e slegata alle circostanze di fatto. La norma in esame poi chiede, sempre a pena di inammissibilità dell’appello, che si indichi la rilevanza delle circostanze da cui deriva la violazione di legge. Ancora una volta l’espressione non è felice, perché a rilevare può essere tutt’al più la violazione di legge e non le circostanze che detto errore possano aver provocato. Tutto ciò si dice non già per desiderio, quasi accademico, di sottolineare l’inadeguatezza terminologica che contraddistingue questa norma, ma per evidenziare il rischio connesso alla grave conseguenza - l’inammissibilità dell’appello - che può derivare dall’eventuale violazione di una norma così mal scritta. Di fronte alla difficoltà dell’interprete di leggere e dare applicazione alla norma in questione, è evidente il rischio che differenti interpretazioni, semmai più restrittive da parte della giurisprudenza, possano condurre, come già avvenuto per il principio di diritto nel ricorso per cassazione, ad applicazioni formalistiche con risultanti aberranti e con conseguenze gravissime per le parti processuali e per i loro difensori; per questi ultimi anche sotto il profilo della responsabilità professionale. Rimane, infine, il dubbio se la declaratoria di inammissibilità dell’appello, per la violazione dell’articolo 342 e dei requisiti introdotti dalla novella, debba essere pronunciata con sentenza soggetta ad impugnazione ordinaria, ovvero con il medesimo strumento previsto dall’articolo 348 bis di nuova introduzione, cioè con ordinanza succintamente motivata non soggetta a gravame. Ancora una volta il buon senso lascerebbe preferire la prima soluzione, ma la mancanza di un’espressa previsione lascia spazio ad applicazioni diverse, che potrebbero condurre a conclusioni aberranti. (1) continua nel prossimo numero

Tags: Dicembre 2012 Maurizio de Tilla avvocatura

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