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Le dichiarazioni anticipate non ne implicano il consenso né la sua ammissibilità

Maurizio De Tilla presidente dell’associazione nazionale avvocati italiani

Dal consenso informato e dal rifiuto delle cure discende come evoluzione naturale la piena legittimità del testamento biologico. Attraverso il testamento biologico e attraverso la compilazione di direttive anticipate, un individuo può liberamente indicare i trattamenti sanitari che vuole ricevere e quelli cui intende rinunciare quando non sarà più in grado di prendere decisioni autonomamente. E ciò anche per evitare che altri decidano per lui. Con il testamento biologico la scelta di fine vita viene intimamente collegata alle dichiarazioni anticipate di trattamento. Denominazione questa che, unitamente ad altre analoghe («living will», direttive anticipate, testamento di vita), fa riferimento «ad un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato».
È errato ritenere che le dichiarazioni anticipate implichino di per sé l’ammissibilità dell’eutanasia. Le dichiarazioni e l’eutanasia rientrano nella vicenda di fine vita, ma sono due problemi diversi, logicamente indipendenti, e vanno trattati separatamente. Le dichiarazioni anticipate servono a dare indicazioni in merito alla volontà del paziente, utilizzabili quando questi non può far valere di persona le proprie scelte. In questo senso esse sono uno strumento dell’autonomia dei malati e non hanno alcuna possibile implicazione eutanasica. Va chiarito che le dichiarazioni anticipate possono contenere anche indicazioni di una prosecuzione delle cure al di là delle cautele suggerite al medico affinché si eviti l’accanimento terapeutico.
Ancor più drasticamente si è sostenuto che quando si parla di dichiarazioni di volontà anticipate non ci si riferisce all’eutanasia, perché non si richiede né il comportamento attivo di terzi per ottenere il risultato di mettere fine alla vita, né si richiede la passiva partecipazione di terzi, in quanto oggetto di tali dichiarazioni è il rifiuto del trattamento medico. Anche se cristallizzato nel tempo, tale rifiuto vale ad esercitare il diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione, che può consistere, nel caso di adulti, nell’esercizio negativo del diritto. A prescindere dalle problematiche controverse sull’eutanasia, le dichiarazioni anticipate sono certamente un efficace strumento che rafforza l’autonomia individuale e il consenso informato nelle scelte mediche o terapeutiche, tanto più che, grazie alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (artt. 1 e 3) e alla Convenzione sui diritti dell’Uomo e la biomedicina (artt. 5, 6 e 9), questi principi acquisiscono nuovo e maggior rilievo, non soltanto coinvolgendo i doveri professionali del medico e la legittimazione dell’atto medico, ma dando sostanza al diritto del cittadino all’integrità della persona e al rispetto delle sue decisioni.
Vale la pena di ricordare l’intervento del Comitato nazionale per la Bioetica con il quale si è affermato che le «dichiarazioni anticipate di trattamento» si iscrivono in un positivo processo di adeguamento della nostra concezione dell’atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente. Le dichiarazioni possono essere intese sia come un’estensione della cultura che ha introdotto, nel rapporto medico-paziente, il modello del consenso informato, sia come spinta per agevolare il rapporto personale tra il medico e il paziente proprio in quelle situazioni estreme in cui non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere.
Uno dei principali problemi è che con il progresso della tecnologia medica ci si impone di prendere decisioni che non eravamo obbligati a prendere qualche tempo fa. E talvolta le decisioni andrebbero prese quando non si è, per incapacità, in grado di prenderle. Su questa preliminare osservazione vi è da segnalare che secondo un noto bioetico, David Lamb (nel libro «L’etica alle frontiere della vita», Il Mulino 1998), la sospensione o la mancata somministrazione di terapie di prolungamento della vita sono un normale esercizio dell’attività medica e non equivalgono all’eutanasia o al suicidio medico assistito.
In quest’ambito viene, tra l’altro, in evidenza il concetto di futilità medica. Per futilità si intende una terapia che non è in grado di portare un cambiamento fisiologico, ma anche una terapia che non è in grado di portare miglioramenti alla qualità della vita. Il ricorso al criterio della futilità del trattamento è usato frequentemente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Alla futilità si ricorre generalmente quando il medico e i familiari concordano di non utilizzare più una particolare terapia soprattutto quando si tratta di supporto artificiale di mantenimento in vita. In molti casi il ricorso a questo criterio è stato utilizzato come difesa contro l’accusa di omicidio o di terapie di mantenimento in vita. In molti casi la terapia del mantenimento in vita viene continuata contro la volontà del paziente in circostanze talmente gravi da far pensare che si stia negando al malato una morte dignitosa, prolungandogli una sofferenza ormai insostenibile.
È, quindi, fuorviante parlare di «lasciar morire» quando si sottrae il paziente terminale a un trattamento ormai inutile. In alcuni casi, infatti, il medico si trova senza alternative. L’espressione «l’ho lasciato morire» avrebbe senso solo se vi fosse stata una qualunque possibilità di mantenere il paziente in vita, ma quando la morte è ineluttabile non si può più scegliere tra la vita e la morte; l’unica scelta possibile è «come» il paziente debba morire (David Lamb, op. cit., pag. 38). Come accertare la sua «vera» volontà quando è in condizioni fisiche e psicologiche tali che altra sarebbe la sua volontà in condizioni diverse? Quale peso dare alla sua volontà espressa al suo posto, o in conflitto con le sue, dai parenti più stretti? Esiste uno standard al quale fare riferimento per valutare la ragionevolezza di certe scelte, sia in ordine al tipo di intervento terapeutico che si è disposto ad affrontare, sia in ordine alla «qualità della vita» che si è disposti ad accettare?
Il testamento di vita può rispondere a questi interrogativi con l’indicazione di alcuni limiti o incentivi finalizzati ad un preventivo consenso o dissenso al trattamento sanitario. Non è da trascurare il rilievo che le discussioni sul peso morale da attribuire a eventuali atti o omissioni che rendono la vita relativamente più breve, oppure le discussioni sulla distinzione tra terapia straordinaria e ordinaria, poco importano ai fini della considerazione delle alternative per il trattamento di ammalati terminali.
Bisogna dire che «sospensione della terapia» non è sinonimo di «cessazione di ogni trattamento». Se viene inteso correttamente, il concetto capta quegli aspetti che rientrano nel buon esercizio della pratica medica, riconoscendo che vi sono stadi nei quali il processo di morte dovrebbe venir reso più «sostenibile» per il paziente. C’è un ampio consenso sul fatto che non vi sia alcun imperativo di ordine etico che imponga di sottoporre un paziente a ripetuti tentativi di rianimazione, ad un futile regime di alimentazione introvenosa, a dialisi, al mantenimento farmaco-dipendente della pressione sanguigna, a profilassi antibiotica, o al controllo elettrocardiografico del battito cardiaco, al mero fine di tenere in vita il malato terminale per un altro paio di giorni o una settimana. La cosa più importante da fare, in questi casi, è adoperarsi per dare sollievo al malato.
Capita in medicina, per esempio durante il trattamento di pazienti allo stadio terminale della malattia (o di neonati anencefalici senza speranza), che il trattamento in preparazione della morte sia l’unico intervento moralmente accettabile, mentre infliggere una qualsiasi forma di terapia per mantenere in vita il paziente nelle condizioni in cui versa appare moralmente ingiustificato. Numerose forme di sospensione della terapia, anche a rischio di mettere in pericolo la sopravvivenza del paziente, sono pur sempre compatibili con i principi di buona pratica della medicina e con il rispetto dell’individuo. Quando vengono rivolte nella giusta direzione, le decisioni per la sospensione della terapia dovrebbero poter soppiantare gli argomenti sull’eutanasia, in quanto il contenuto morale essenziale della questione si incentra su quale forma di terapia sia appropriata dal punto di vista etico, e non sul mero interrogativo se far continuare la vita sia eticamente appropriato.
Ma se l’eutanasia è incompatibile con i principi del buon esercizio della pratica medica (oltre che con i divieti della legge), infliggere una terapia per il mantenimento in vita con il solo risultato di aumentare la sofferenza del paziente è altrettanto deplorevole. Se l’argomento più convincente a favore dell’eutanasia è alleviare la persona da inutili sofferenze, gli oppositori dell’eutanasia sbagliano nella difesa a oltranza del mantenimento in vita di un paziente, anche a costo di infliggergli terribili sofferenze. Per comprendere meglio i termini del dibattito provo a riportare alcune argomentazioni di David Lamb secondo il quale la linea che divide l’interruzione della terapia dall’eutanasia risulta spesso poco chiara a causa della confusione che si viene a creare nel corso della discussione sul rapporto tra azioni che arrecano la morte (far morire) e le omissioni che portano alla morte (lasciar morire).
Così molti simpatizzanti dell’eutanasia descrivono la distinzione fra eutanasia attiva e passiva, far morire e lasciar morire, come moralmente irrilevante, e su questa linea proseguono, equiparando sotto l’aspetto morale l’eutanasia all’interruzione della terapia di sostegno vitale. Il puro richiamo alle conseguenze dei vari tipi di azione, astratto dal contesto nel quale la terapia viene applicata, negata o interrotta, servirebbe solo a farci capire che tale distinzione è in realtà squisitamente semantica. Al contrario, attraverso uno sguardo più attento al contesto nel quale vengono prese le decisioni riguardo alla terapia da effettuare, si evince che molti argomenti ed esempi che vengono citati per far ricadere l’attenzione sulle conseguenze di un atto o omissione sono di scarso rilievo morale, rappresentando spesso e volentieri l’intrusione forzata di un semplicistico dogma filosofico nell’etica medica.
Esistono motivi convincenti perché l’atto col quale si nega l’applicazione di una terapia di mantenimento in vita e l’atto col quale si causa il decesso del paziente vengano distinti. È importante avere la consapevolezza che la discussione intorno al tipo di terapia che si nega o si applica appartiene ad una categoria morale ben diversa dagli argomenti relativi all’atto di «consentire» o «causare» la morte (David Lamb, op. cit., pag. 52). Nell’ambito delle tesi che favoriscono l’introduzione negli ordinamenti giuridici di norme che disciplinano il testamento biologico è agevole affermare che ogni persona ha diritto alla non interferenza sulle scelte che riguardano gli aspetti più intimi della propria vita, fondamentali perché concernono il valore centrale del benessere del paziente.
La salute e il prolungamento della vita non sono infatti dei valori in sé, ma solo in quanto facilitano il perseguimento del proprio piano di vita: perciò, «in molti casi la decisione di quale tra i trattamenti alternativi, compresa la scelta di nessun trattamento, promuova meglio il benessere di un paziente non può essere determinata oggettivamente, indipendentemente dalle preferenze e dai valori del paziente stesso». In prossimità della morte sono particolarmente forti, da un lato, il pericolo di andare incontro a sofferenze incoercibili, dall’altro quello di perdere il controllo su di sé e di vedere perciò compromessa la propria dignità; dunque, l’affermazione di un «diritto di morire» equivale a riconoscere a individui autonomi, in possesso delle proprie facoltà, la libertà di decidere che la loro qualità di vita è così fortemente compromessa da rendere privo di senso continuare a vivere (Massimo Reichlin, «L’etica e la buona morte», Edizioni di Comunità, Torino 2002, pag. 109).
Va segnalato che in alcuni Stati americani si fa ricorso a una procura speciale, attraverso la quale il rappresentato nomina un procuratore affinché agisca per suo conto in un qualsiasi momento successivo alla perdita della propria capacità di autodeterminazione. Sotto taluni aspetti l’istituto del fiduciario per così dire «della salute» è un meccanismo che mette il paziente in grado di indicare al medico chi dovrebbe essere il proprio delegato o sostituto. Si ritiene che l’efficacia giuridica di tali strumenti sia superiore a quella del testamento di vita. L’autorità del procuratore può, infatti, prevalere sulle obiezioni sollevate dai familiari.
Accomunate in un’unica categoria, il «testamento di vita» e la «procura per la salute» rientrano nella categoria delle «direttive anticipate». Nel Regno Unito l’opinione dei giuristi è leggermente diversa da quella prevalente negli Stati Uniti. La Law Commission of England interpreta le direttive anticipate come decisioni anticipatorie, distinguendole dal testamento di vita che essa definisce come «la direttiva anticipata concernente il rifiuto di procedure per il mantenimento in vita nel caso eventuale di uno stadio terminale della malattia». Ma tanto negli Usa quanto in UK la legittimazione morale delle direttive anticipate consiste nel promuovere l’autonomia individuale, e sebbene il documento possa talvolta indicare la scelta di ricevere o meno specifiche forme di terapia, le direttive anticipate, secondo il senso comune, sono associate all’opportunità di rifiutare l’ultima terapia di fronte alla percezione del timore di un accanimento terapeutico, come del resto si evince da molte argomentazioni volte a promuoverle.   

Tags: Marzo 2016 Maurizio de Tilla suicidio eutanasia

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