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ADR, soluzione per una conciliazione «pacifica»

Lucio Ghia

Le ADR, acronimo di Alternative Dispute Resolutions, ovvero le soluzioni di superamento dei contenziosi senza ricorso al Giudice ordinario, dal 2010 anno in cui hanno fatto il loro ingresso nell’ordinamento italiano attraverso il decreto legge n. 28 del 2010, sta facendo notevoli passi avanti. Oggi siamo giunti ad oltre 500 mila procedimenti di conciliazione o di mediazione presentate nel 2016, ma questo dato confortante mette anche in luce quanto vi sia ancora, molto da fare.
Il pesantissimo arretrato giudiziario ci confina tutt’ora nella parte alta, alla 111esima posizione, della classifica sull’efficienza del sistema giudiziario, secondo il Doing Business della Banca Mondiale, per quanto attiene all’indicatore sul cosiddetto «enforcing contract». Infatti quanto a tempi e costi delle risposte giudiziarie e della loro esecuzione non siamo certamente competitivi con i Paesi nostri diretti concorrenti commerciali. L’attuale situazione dei giudizi civili pendenti è decisamente negativa, anche se presenta una notevole riduzione dai quasi 6 milioni di cause in attesa di essere decise degli anni precedenti, agli attuali 3,8 milioni, evidenzia un considerevole miglioramento dovuto a molti fattori.
Senza nulla togliere ai provvedimenti più recenti emanati dal Governo tesi a fornire risposte più efficienti da parte della giustizia ordinaria, quali l’introduzione dei tribunali delle imprese che forniscono una corsia più veloce per la definizione di giudizi propri dell’area commerciale, societaria, contrattuale e della tutela della proprietà intellettuale, così come l’avanzare del «processo telematico» e delle notifiche elettroniche, tutti fattori importanti di accelerazione per i nuovi giudizi, ma i 3,8 milioni di cause pendenti finiscono per imporre comunque tempi lunghi di definizione. Tale riduzione è dovuta anche alla diminuzione delle nuove cause, anche per l’aumento considerevole dei loro costi di introduzione.
Il cosiddetto «contributo unificato» che va versato all’inizio della causa agli Uffici Giudiziari, in molti casi risulta triplicato rispetto a qualche anno fa. Anche la più generale crisi che affligge il nostro Paese ha fatto la sua parte, provocando così una riduzione di circa il 20 per cento del numero delle cause pendenti. È necessario perciò dare la possibilità all’attuale complessa struttura giudiziaria di dedicarsi prevalentemente all’eliminazione dell’arretrato, quindi la via rappresentata dalle ADR è di vitale importanza perché il nostro assetto giudiziario si dimostri competitivo.
Questa via, come dimostrano molti Paesi in primis di cultura anglosassone, per dare i risultati da noi auspicati non può essere considerata una forma di giustizia subordinata, ma nella coscienza sociale, nell’immaginario collettivo deve essere metabolizzata come altrettanto meritevole, dignitosa ed onorevole rispetto al giudizio ordinario. Negli Stati Uniti il 90 per cento del contenzioso viene assorbito dalle ADR. Le parti possono rivolgersi a mediatori che spesso sono ex giudici iscritti in determinati albi pubblici, designati dall’organismo di mediazione via via che si manifestano le esigenze di dar corso ad una conciliazione, mediazione o arbitrato. Le ragioni di questa scelta sistematica hanno profonde radici culturali e giuridiche che ben rispondono a motivazioni socio-economiche. L’approccio negli USA è di carattere assolutamente innovativo rispetto al nostro più tradizionalmente orientato al giudice togato.
Infatti secondo il nostro ordinamento la scelta di soluzioni alternative resta condizionata dalla decisione operata dal legislatore, oppure dalla decisione del giudice. Infatti, oggi, il ricorso alle ADR in Italia segue questi due binari, o il legislatore ha deciso che per determinate aree di conflittualità riguardanti per esempio i diritti reali, le divisioni, le successioni ereditarie, i patti di famiglia, le locazioni, i comodati, ecc., si debba tentare una conciliazione o una mediazione, prima di ricorrere al giudice, prevedendo così una condizione di procedibilità del successivo giudizio ordinario; oppure è lo stesso giudice che può invitare le parti a rivolgersi a un conciliatore o ad un mediatore quando intravede a suo giudizio che vi possano essere margini per tentare una soluzione che non esiga una sua sentenza.
L’approccio americano è completamente diverso com’è emerso nella due giorni che ha avuto luogo a Villa Taverna, in una cornice davvero unica, su iniziativa dell’avv. John Phillips, ambasciatore USA in Italia. In questi due giorni si sono incontrati addetti ai lavori italiani, rappresentanti del Ministero della Giustizia, del Consiglio nazionale forense, avvocati, magistrati italiani con giudici e mediatori americani. Il confronto ha messo in luce come il ricorso alle soluzioni diverse da quelle della decisione del giudice è caratteristico di un percorso mentale, culturale, sociologico e valutativo, di particolare rilevanza nelle vicende economiche. Le parti contrapposte guidate dal mediatore cercano di trovare entrambe una soluzione che sostanzialmente le accontenti, seguendo il vecchio adagio: «la ragione non sta mai da una sola parte», da noi spesso dimenticato.
Nel nostro Paese seguiamo la logica del processo ordinario che vede un vinto e un vincitore, un perdente il quale, naturalmente, è molto difficile che accetti la sua sconfitta e quindi darà luogo ad un secondo grado di giudizio, e poi «andrà in Cassazione», per poi sovente tornare innanzi alla Corte d’Appello. Così facendo trascorrono 7-8 anni e si affrontano notevoli costi legali. Questo risultato, secondo la logica e l’approccio americani che presiedono alla conciliazione ed alla mediazione, è da respingere perché inconcepibile e controproducente specie se le due controparti appartengono allo stesso mondo degli affari. Non solo la matrice culturale è comune, ma lo sono i rapporti socio-economici e di vita, ambedue avvertono la necessità di guadagnare tempo, perché negli affari si sa il tempo è denaro, così come l’obiettivo di spendere il meno possibile e spesso la speranza di ritornare ad essere partners» commerciali.
Le reciproche concessioni alla base dell’accordo, nella maggior parte dei casi, si raggiungono attraverso l’opera del mediatore che naturalmente deve avere uno «skill», un profilo professionale più che adeguato. Molti mediatori e conciliatori americani sono ex giudici ci ha detto il giudice, oggi mediatore, Diane Wayne, che devono essere capaci di ricreare il dialogo interrotto dalla lite, la loro imparzialità deve essere pari alla loro determinazione nel ricercare una soluzione negoziata tra le parti.
Mentre l’avv. Kimberly Taylor, vicepresidente e chief operating officer della Jams, associazione che gestisce 25 centri di ADR nel Nord America e attraverso la Jams Internazionale con sede a Londra, che si occupa di regolamenti e procedure di mediazione e di soluzioni negoziate di controversie anche internazionali nel settore commerciale e societario, ha insistito sui profili fiduciari che il buon mediatore deve rivestire in termini di indipendenza e di assenza di conflitti d’interessi.
Questi ultimi, ha sottolineato l’avv. Taylor, costituiscono un fattore prioritario da accertare accuratamente, con riferimento anche ai parenti, agli affini ed agli amici del mediatore. Infine il giudice, oggi mediatore, Rebecca Westerfield anche lei facente parte della Jams ha illustrato la sua esperienza nei casi più disparati, dimostrando come negli USA le ADR riescano a ricomprendere tutte le tipologie di contenzioso, dalla rottura di contratti, alla diffamazione a mezzo stampa, alla responsabilità per danni da prodotti farmaceutici, da malpractice, medica e legale, da inquinamento, etc.
Anche il giudice Westerfield ha vinto l’Award di «Top California Neutral» dal Daily Journal negli anni 2002 e 2011 e come il giudice Diane Wayne, «leading judge» della California-Los Angeles, dopo aver vinto molti prestigiosi awards come giudice, tra i migliori conciliatori e mediatori, è celebrata come una «Top California Neutral» dal Daily Journal negli anni dal 2003 al 2009 e nel 2012.
L’impostazione italica, invece, fatta di guelfi e ghibellini, di Montecchi e Capuleti, di bianchi e neri, aggiornando tale analisi ai nostri giorni, autorizzava il grande giurista scomparso, Arturo Carlo Jemolo, a dire che: «la controparte in un giudizio, si tratta come il nostro peggior nemico, senza alcuna esclusione di colpi». C’è quindi in radice, alla base della nostra diffusa visione del processo, la «perpetuatio» della lite, vissuta come «guerra all’ultimo sangue», una sorta di «ordalia» tra i due contendenti. D’altronde anche Cicerone vedeva nel processo il mezzo affinché i litiganti «in guerra» non prendessero le armi l’uno contro l’altro: «nè cives ad arma veniant».
Tutto ciò oggi è incompatibile con la civiltà di internet che ha realizzato obiettivi non più irrinunciabili nel campo della velocità nei rapporti umani e commerciali, il che esige libertà decisionale e rimozione di inutili condizionamenti anche mentali. Infatti, la pendenza di un giudizio comunque «occupa e preoccupa», costituisce un grave problema italiano che necessita di una pronta soluzione verso la realizzazione di un moderno punto d’incontro tra giustizia ed economia. Le nostre tre mediatrici americane hanno anche dimostrato cifre alla mano, nell’incontro di Villa Taverna, per quanto riguarda il profilo economico, una mediazione negli Stati Uniti, rispetto ad una causa ordinaria costa molto meno, ed agli avvocati conviene di più in termini di velocità della sua conclusione e dei relativi pagamenti. I mediatori così come gli avvocati che assistono le parti in questi procedimenti vengono pagati ad ora 400 dollari circa.
La comune volontà delle parti che dovranno sopportare i costi del procedimento, evidentemente, è di concludere nel minor tempo possibile. Le riunioni tra le parti, gli avvocati, i mediatori possono durare anche 4-5 ore e si concludono normalmente in due, tre giorni; tutto il procedimento occupa meno di 10 giorni di lavoro per il mediatore. La filosofia generale è imperniata sul cosiddetto win-win, ovvero con queste soluzioni negoziate, tutti devono portare a casa un risultato utile.
L’ambasciatore Phillips ha sottolineato che il suo compito come ambasciatore degli Stati Uniti in Italia è anche quello di canalizzare il maggior numero possibile di finanziamenti dagli Stati Uniti verso il nostro Paese oltre che, ovviamente, aiutare gli imprenditori italiani ad investire negli Stati Uniti. Gli investimenti provenienti dagli USA realizzati in Italia, rappresentano attualmente il 25 per cento di quanto gli Stati Uniti investono in Germania ed il 50 per cento di quanto investono in Francia. Questo dato, considerato che il nostro Paese è il secondo Paese manifatturiero d’Europa, lascia davvero sconcertati. La risposta principale di questa resistenza ad investire in Italia è basata proprio sull’inefficienza in termini di lunghezza dei processi e della relativa fase esecutiva, cioè quella legata all’effettiva realizzazione di quanto stabilito nelle sentenze.            

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