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Storia: l’attentato di via Rasella e l’eccidio delle Fosse Ardeatine

Via Rasella, parallela di via del Tritone, a due passi da Fontana di Trevi e Piazza di Spagna, centro di Roma e del mondo: strada decaduta che paga il prezzo al caro mattone e alla mutazione genetica della metropoli romana. Eppure le sue origini secentesche, sottolineate dall’originario nome «Via Rosella» per la presenza di proprietà della famiglia Roselli, sono nobilitate dalla presenza verso Via Quattro Fontane di Palazzo Tittoni, già Grimani, con annesso palazzotto tardo cinquecentesco costruiti sull’ex vigna del cardinale Domenico Grimani e sui resti di un’importante domus romana. Proprio palazzo Tittoni è stato al centro della tempesta più funesta della storia della città.
Ma ecco, risalendo il primo tratto di strada dal Traforo e alzando lo sguardo in alto a sinistra, quei segni loquaci, quelle ferite non rimarginate che squarciano il velo dell’anonimato e rompono l’atmosfera d’acqua passata imposta dalla tirannide del tempo e dalla scomparsa dei testimoni d’allora, ormai morti o emigrati altrove con la vana speranza di cancellare una tremenda esperienza. Due palazzi contigui, senza pretese architettoniche ed eredi di generazioni piccolo borghesi vissute lungo l’arco del Novecento, conservano intatte e inquietanti a futura memoria le tangibili prove degli avvenimenti che sconvolsero Roma e l’umanità in guerra il 23 e il 24 marzo 1944: l’attentato dinamitardo alla colonna tedesca che uccise sul colpo 32 militari, e l’eccidio per rappresaglia alla Fosse Ardeatine di 335 innocenti, diventato per sempre l’evento simbolo della ferocia nazista.
Un centinaio di fori, tondi e slabbrati, dai 5 ai 15 centimetri di diametro, provoca un effetto groviera nelle facciate dell’edificio al numero civico 139 e di quello d’angolo al civico 3 di via del Boccaccio, che guarda lo slargo di via Rasella con l’onnipresente fontanella dal nasone. Nelle ore successive all’attentato la rabbiosa reazione provocò una fitta sparatoria verso le finestre con armi di ogni calibro, soprattutto fucili mitragliatori. Una gragnola di colpi si abbatté sulle case delle famiglie che si erano rintanate dentro in preda al terrore. Molti proiettili si conficcarono nelle mura esterne, altri mandarono in frantumi i vetri delle finestre, altri penetrarono negli appartamenti e si infissero nei soffitti. Miracolosamente non ci fu una carneficina. Purtroppo, restò uccisa una donna, Fiammetta Baglioni, di 66 anni, che si era avvicinata incautamente a una finestra del terzo piano.
Quindici anni fa, il palazzo di via Rasella 139 è stato restaurato e le facciate sui due lati (la strada e lo slargo) sono state ripulite e intonacate con una pittura di un bel giallo vivo; ma i fori non sono stati tappati dalla calce. Con le mura rinfrescate risaltano più di prima e chiedono in bella vista di essere ricordati dai passanti. Li ha salvati la lungimiranza, il senso della storia e l’amore per Roma del proprietario, l’editore Victor Ciuffa, giornalista, per diversi lustri cronista di punta del Corriere della Sera.
E ne spiega il perché raccontando il suo rapporto con quegli episodi di 65 anni fa. «Da ragazzo vivevo a Montecompatri e dell’attentato e della rappresaglia di 10 italiani per ogni tedesco ucciso avevo avuto un vago sentore. Da quando con mia moglie abbiamo trasferito proprio qui al 139 la nostra casa editrice, quei buchi sono diventati la mia ossessione».
Poi continua: «Finché, il 23 marzo di 10 anni fa, conobbi un ex inquilino, il signor Vinci, un bambino a quei tempi, e che, sotto il peso dei ricordi, è tornato per l’anniversario, e ha rievocato davanti a me con gli occhi lucidi e commossi le scene agghiaccianti dei cadaveri straziati in mezzo alla strada, della reazione furiosa e violenta, dei rastrellamenti, e di intere famiglie schierate con la faccia al muro contro le case sotto la minaccia delle armi».
In quella occasione, il signor Vinci confida al giornalista la propria versione dei fatti sulla sparatoria contro i palazzi. Subito dopo l’attentato, i tedeschi cominciarono il rastrellamento, entrando con la violenza e armi in pugno in tutti gli edifici e i negozi della strada, perché Hitler in persona, o, comunque, il comandante in capo della piazza di Roma, il generale Maltzer, avevano deciso in un primo momento di far evacuare tutte le case e di radere al suolo via Rasella. Al numero 3 di via Boccaccio, una donna fece in tempo a scendere le scale, chiudere il portone sbarrandolo con due paletti di ferro. Una pattuglia tedesca tentò invano di sfondare il portone e allora cominciò a sparare all’impazzata contro le finestre.
Grazie a quell’incontro e a quella testimonianza, Victor Ciuffa ha maturato il proposito di farsi custode dei 100 fori di via Rasella sia al 139 sia in via Boccaccio convincendo gli altri condomini. Rimane aperto l’interrogativo perché finora non si è pensato di mettere una lapide rievocativa almeno per scacciare i cattivi pensieri dei turisti su Roma a rischio di attentati da parte di estremisti islamici.
Tanto accanimento contro i residenti non fu casuale, perché nella baraonda dei primi momenti, quando non erano ancora chiare le circostanze dell’attentato, il sospetto cadde su loro o come autori o, ad ogni modo, complici del misfatto. Peraltro, la dinamica dell’attacco si è sviluppata su due fronti per non dare vie di scampo e seminare morte e panico. Il principale era sotto palazzo Tittoni, dove il commando partigiano, guidato da Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balzamo, aveva collocato una bomba in un carrettino della nettezza urbana con doppio contenitore cilindrico come si usava a quei tempi. L’intento era quello di colpire la testa della colonna. Altri partigiani si incaricarono di sferrare l’attacco con bombe a mano contro la coda della colonna, sbucando dalle stradine collaterali appunto di via Boccaccio lato il Tritone per intendersi, e lato via dei Giardini, la strada che corre lungo le mura del Quirinale da via Quattro Fontane al Traforo.
Dodici partigiani parteciparono all’assalto, ritenuto una legittima azione di guerra con sentenza della Cassazione n. 1560 del 1999 che ha chiuso un lungo e travagliato capitolo di polemiche sul comportamento dei partigiani, che non avrebbero calcolato le conseguenze per la popolazione e che non si sarebbero consegnati al nemico scongiurando la rappresaglia.
Di certo, l’attentato era stato preparato fin nei minimi particolari dai Gap, i Gruppi di azione patriottica delle brigate Garibaldi, i quali dipendevano ufficialmente dalla Giunta militare emanazione diretta del Comitato di liberazione nazionale. Né era stata scelta a caso la data del 23 marzo, anniversario della fondazione dei fasci di combattimento. Confezionata con 18 chili di tritolo frammisto a chiodi e bulloni di ferro, la bomba era opera di più mani. L’esplosivo e le altre bombe lanciate in via Rasella erano state fornite dal Centro militare clandestino del generale Montezemolo (fonti ANPI). Collaborarono gli operai del Gazometro di via Ostiense. In quelle officine si fabbricavano anche i chiodi a tre punte che bloccavano le autocolonne tedesche e gli spezzoni usati dai Gap in diversi combattimenti.
Il carrettino-bomba era stato parcheggiato dai partigiani travestiti da netturbini poco oltre il portone di palazzo Tittoni, in via Rasella 155, verso via Quattro Fontane, per assicurare un’ agevole via di fuga. Che il posto dello scoppio sia quello c’è completa certezza anche se la mancanza di una lapide rievocativa e i restauri del palazzo nel 1967, che hanno cambiato la fisionomia dei luoghi, continuano a dare adito a dubbi. Comunque, sul palazzo di fronte, sopra il negozio del restauratore al numero 17, appaiono nel muro pochi ma inequivocabili segni provocati dalle schegge della bomba.
Il numero 155 fu una scelta solo strategica? A volte, la storia gioca brutti scherzi nei suoi corsi e ricorsi, e nel distribuire le pedine. Nel marzo 1923, esattamente 21 anni prima, Benito Mussolini, diventato capo del Governo, andò a vivere in un appartamento all’ultimo piano di palazzo Tittoni. Nel libro «Cesira e Benito, storia segreta della governante di Mussolini « (editore Rubbettino 2007), l’autore Gianni Scipione Rossi, storico e giornalista della RAI, scrive: «L’alloggio di via Rasella non poteva definirsi una reggia, ma con le sei stanze dagli arredi un po’ cupi non era neppure un semplice pied-à-terre, né una banale garconierre».
 Qualche volta raggiunto dalla moglie Rachele e dai figli, Mussolini vi dimorò fino al 1929 quando si trasferì a Villa Torlonia. Fu la sua governante tuttofare, Cesira Carocci, a convincerlo a cambiare casa. «Presidente–così si sarebbe espressa Cesira secondo il giornalista–, le sei stanze di palazzo Tittoni non bastano più, non abbiamo una cantina sufficiente per riporre le casse degli oggetti che arrivano da tutta Italia, dipendiamo per la cucina dal barone Fassini (il proprietario del palazzo, ndr), non godiamo neppure di una completa libertà per quel che riguarda il portone e le scale. Bisognerà cercare un nuovo alloggio. Così la signora (Rachele, ndr) e i ragazzi potranno venire a Roma e diminuiranno le spese».
Scipione Rossi fa un accenno alla singolare coincidenza del 23 marzo 1944, però, indicando «poco più a valle» il luogo dell’attentato. Un equivoco in cui cadono molti ai nostri giorni per via di quei fori senza alcuna iscrizione commemorativa. Sul capo del fascismo in via Rasella non ho trovato altre tracce nella pur ricca documentazione bibliografica delle tragiche vicende delle Fosse Ardeatine.
Nonostante avesse cambiato «casa», Mussolini tornò spesso e volentieri in via Rasella, avendo un debole per la cucina abruzzese di Remo Santucci, titolare della trattoria «L’Aquila» al numero 139 del palazzo al centro della sparatoria tedesca. Anche «L’Aquila» ha un posto nei misteriosi disegni del fato e nel legare, come poteva accadere nei giorni dell’occupazione tedesca, i destini della gente, dei persecutori e dei perseguitati. Nel marzo del 1944, il trattore nascondeva nelle stanze del retrobottega la famiglia di ebrei di Dino Terracina che, come vedremo più avanti, scampò fortunosamente all’eccidio perché i nazisti scambiarono per buone le sue false carte d’identità.
La Roma del 1944 era come una grossa città di provincia con in più le sofferenze per il peso della guerra, dei bombardamenti (non era spento l’eco di quello devastante del 19 luglio dell’anno prima a San Lorenzo), della fame, dell’occupazione straniera, del coprifuoco, dell’oscuramento ecc. Era sconsigliato e imprudente persino lo spostarsi da un quartiere all’altro. Via Rasella forse non era un’isola felice, ma vi si viveva senza particolari affanni, perché vi erano concentrati gli interessi e i commerci di prima necessità, e perché tutti conoscevano tutti. Lungo la strada si aprivano, sia a destra e sia a sinistra, botteghe di ogni genere: forno, alimentari, vini ed olio, calzoleria, tintoria, fabbro, monte dei pegni, ristoranti, pensioni, tipografia, tappezziere, restauratore di mobili, autoscuola, spedizioniere, magazzini della Croce Rossa, e persino un armiere.
Centro delle chiacchiere di rione era il frequentatissimo bar al numero 140 (accanto al portone dell’editore Ciuffa) di Romolo Gigliozzi (vittima delle Ardeatine), zio di Giovanni Gigliozzi, scrittore, giornalista, romanista e presidente dell’Anfim, l’Associazione tra le famiglie dei martiri della libertà, scomparso due anni fa. Purtroppo è andato perduto un film di Mario Mattioli girato in quei giorni nella strada, che ne ricostruiva l’ambiente e le scene di vita. Era la versione cinematografica di un varietà, «Il circo equestre Za Bum» con Isa Pola, Carlo Ninchi, Roldano Lupi, Luigi Pavese, Carlo Campanili e un Alberto Sordi alle prime esperienze.
L’attentato avvenne verso le 15.30, con un’ora e mezzo di ritardo sui tempi previsti dagli organizzatori a causa della cautela con cui procedeva la colonna tedesca. Per chi vuol saperne di più sulla tragedia di quei giorni culminata nella strage dei 335 alle Fosse Ardeatine, rimando all’abbondante bibliografia disponibile nella quale spiccano: «Operazione via Rasella» , Editori riuniti 1996, di Rosario Bentivegna (il capo partigiano) e Cesare De Simone; «Morte a Roma», il Saggiatore Milano 2004, di Robert Katz; «Stragi naziste in Italia», Donzelli 1997, di Lutz Klinkhammer; «L’ordine è già stato eseguito», Donzelli 1999, di Alessandro Portelli; «Le Dolomiti del terzo Reich», Mursia 2006, di Lorenzo Baratter; «l’enciclopedia elettronica Wikipedia». Anche il cinema ha fatto la sua parte con «Rappresaglia» , 1973, diretto da George Pan Cosmatos, con Marcello Mastroianni e Richard Burton; «Dieci italiani per un tedesco», 1962, diretto da Filippo Walter Ratti, con Gino Cervi; «La buona battaglia - Don Pietro Pappagallo», 2006, con Flavio Isinna.
Come visse quei momenti di terrore la gente di via Rasella? Chi finì alle Ardeatine, chi si salvò, come ha sopportato e reagito a quella sconvolgente esperienza? Per dare agli interrogativi una qualche risposta sulla base delle testimonianze mi sembra opportuno presentare un’essenziale ricostruzione dei fatti.
Di ritorno da esercitazioni al poligono del Foro Mussolini, l’undicesima compagnia del 3° battaglione del reggimento «SS polizei Bozen», attraversando le vie del centro, risaliva ogni pomeriggio la strada verso via Quattro Fontane diretta alle caserme di Castro Pretorio. Secondo le fonti dell’Anpi, dipendeva dal comando delle SS in Italia e a Roma da Kappler e la colonna, composta da più di 150 altoatesini tra i 30 e i 40 anni, era armata e scortata in testa e in coda da pattuglie con mitragliatrici su motocarrozzette. In via Rasella erano abituati a vedere o sentire il loro passaggio, perché i soldati marciavano a passo cadenzato cantando «Hupf mein model!...Salta ragazza mia..».
Al segnale convenuto di un altro gappista di vedetta, Rosario Bentivegna, nei panni di netturbino, diede fuoco alla miccia, e fuggì verso via Nazionale dove l’attendeva Carla Capponi. Dopo 50 secondi, l’esplosione seguita in via Boccaccio dall’attacco del commando partigiano. 32 militari rimasero uccisi sul colpo dilaniati dalle bombe, molti altri feriti dieci dei quali moriranno nei giorni successivi.
La sentenza della Cassazione sulla legittimità dell’azione ha stabilito anche che ci furono due e non otto, secondo le polemiche trascinatesi per anni, le vittime fra i passanti inconsapevoli di quello che stava accadendo. Sono Francesco Iacquinti, di 46 anni, e Piero Zuccheretti, un ragazzino di 13 anni, che aveva atteso il passaggio delle truppa e fatto un'orribile fine.
Lo stato di assedio di via Rasella cominciò poco dopo. I tedeschi piombarono in forze con la prima intenzione di mettere a ferro e a fuoco l’intero rione. Bloccarono gli accessi alla strada con i cavalli di frisia e intrapresero un radicale rastrellamento, prendendo a viva forza tutti gli abitanti e i negozianti della zona, compresi bambini, donne e anziani, nonché i passanti persino lungo tutta via Quattro Fontane. Centocinquanta furono addossati contro i cancelli di palazzo Barberini, un altro centinaio concentrato nello slargo di via Rasella contro le serrande chiuse del negozio di vini ed olio al 141 e al 142 e dietro la fontanella. Nel corso dei rastrellamenti furono fucilati a sangue freddo Pasquale di Marco, di 34 anni, ed Erminio Rossetti, un poliziotto autista del questore collaborazionista Caruso.
Dei morti e dei rastrellamenti, le SS scattarono una serie di foto in un piccolo laboratorio fotografico lì vicino. In epoca successiva, il fotografo consegnò le copie a Guido Mariti e Leonardo Mayone, titolari della tipografia al numero 20, quasi di fronte a palazzo Tittoni. Quelle fotografie finirono sulle pagine dei giornali e fecero il giro del mondo. I tipografi se l’erano vista brutta, perché la frettolosa perquisizione fra le lynotipe non portò alla scoperta della matrici dell’«Avanti!», l’allora foglio clandestino del partito socialista.
Rinchiusi nei sotterranei del Viminale, gli ostaggi trascorsero una notte di violenze, torture con il terrore di finire fucilati. L’indomani, quel tragico 24 marzo, vennero liberati tutti tranne una decina di politicamente compromessi che furono destinati alle Fosse Ardeatine. Tra essi il barista Romolo Gigliozzi, due fratelli, Angelo e Umberto Pignotti, il cugino Antonio Prosperi e un altro parente, Fulvio Mastrangeli, tutti orginari di Poli. Proprio davanti a palazzo Tittoni aveva casa e bottega (una lavanderia gestita dalla moglie) il muratore Celestino Frasca, il cui figlio aveva allora un anno ed è oggi l’unico testimone di quei tempi che è rimasto a vivere in via Rasella. Finì alle Fosse Ardeatine con l’unica colpa di abitare davanti al teatro dell’esplosione.
In Via Rasella non c’è stato mai un vero ritorno alla normalità. Nel corso degli anni, l’hanno abbandonata in molti e non soltanto per le ragioni fisiologiche che hanno cambiato il volto del centro. Troppo forti e violente sono state le emozioni che hanno traumatizzato soprattutto i bambini, come si intuisce dalla testimonianza di Giuliana Gigliozzi, figlia di Romolo e nipote di Giovanni. Allora aveva tre anni e così ricorda quel pomeriggio: «Quei soldati passavano tutti i giorni da via Rasella. Noi bambini li seguivamo. Ero con mio fratello Silvio che aveva 10 anni. Vedemmo due uomini risalire la strada vestiti da spazzini. Uno dei due, l’ho saputo poi, era Rosario Bentivegna... Andate via bambini!, ci dissero. Venne una spinta da qualcuno che ci scaraventò nel negozio del calzolaio. Subito dopo l’esplosione mio padre corse fuori del bar e si mise a cercarci. Non tornò più...».
Guido Mariti, scomparso da qualche anno, ha raccontato dell’irruzione nella tipografia: « Con le armi puntate ci cacciarono in strada, ci misero in fila con gli altri, e ci spinsero fino a Via Quattro Fontane. Arrivò anche Kappler che ci disse che ci avrebbero liberati se si fosse rivelato il nome del colpevole dell’attentato. Poi ci rinchiusero negli scantinati del Viminale e trascorremmo una notte intera sdraiati per terra in mezzo alle urine. Alle tre portarono via alcuni di noi con destinazione Fosse Ardeatine, come venimmo a sapere in seguito».
Nel 1996, la rivista «Shalom» ha pubblicato una lettera inedita di Dino Terracina, ebreo sopravvissuto alla retata e scomparso agli inizi degli anni Novanta. Questa la sua testimonianza: «La mia famiglia ed io eravamo sistemati presso la trattoria di Remo Santucci in via Rasella 139, che ci affittò anche i letti. Quel pomeriggio eravamo raccolti ad ascoltare alcuni dischi: avevamo deciso di non uscire essendo una ricorrenza fascista. Ad un tratto due tremende esplosioni ci fecero trasalire, molti vetri caddero infranti, la casa tremò dalle fondamenta. Mi affacciai dalla finestra e vidi con raccapriccio un groviglio di uomini immersi nel sangue. Poi cominciò la sparatoria. Alle ore 18.30 la nostra abitazione fu invasa da molti tedeschi e anche da italiani. Noi uomini fummo fatti uscire, percorremmo Via Rasella con le mani alzate, passammo tra i morti e brandelli di morti e sul sangue. Avevano gettato dell’acqua che aveva formato, ai lati della strada, due rigagnoli rossi. Ci portarono in camion al Viminale e, davanti alle SS schierate con le mitragliatrici, credemmo giunti ormai i nostri ultimi istanti. Ci chiesero i documenti, fortunatamente noi ebrei ci eravamo procurati delle false carte d’identità...».
Dopo la descrizione di una notte di terrore, di botte e di insulti, le memorie di Terracina rievocano l’imprevisto finale: «Alle 12 del giorno seguente, arrivò il momento decisivo: un ufficiale cominciò a leggere un foglio in tedesco. Credemmo che fosse la sentenza di morte, ma l’interprete tradusse: avendo trovato e catturato gli autori dell’attentato abbiamo deciso di mettervi in libertà».
E, invece, in quelle ore si stendeva l’elenco dei 335 da massacrare. Solo la metà erano partigiani o aderenti a organizzazioni clandestine. 75 erano ebrei e gli altri cittadini di ogni età e di ogni mestiere, uno spaccato della popolazione degli anni Quaranta. Li trucidarono uno ad uno a colpi di pistola nella nuca dentro le cave di pozzolana delle Ardeatine che poi furono fatte saltare con l’esplosivo. L’esecuzione si consumò 23 ore dopo l’attentato.
La mattina del 25 marzo, i giornali pubblicarono il seguente comunicato del Comando tedesco: «Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito in Via Rasella. In seguito a questa imboscata 32 uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti-badogliani. Sono ancora in atto indagini per chiarire fino a che punto questo fatto è da attribuirsi ad incitamento angloamericano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati, perciò ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato 10 comunisti-badogliani saranno fucilati: questo ordine è stato eseguito».
Il laconico «l’ordine è stato eseguito» gelò il sangue nelle vene degli ignari romani, ma presto il tam-tam della gente di via Rasella, dei reduci della notte infernale al Viminale, circolò per la città, sollevando un’ondata di rabbia e di indignazione.   

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