Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

L’attentato suicida: l’evoluzione della figura del kamikaze

Il martirio come sacrificio di sé per la realizzazione della «guerra santa» costituisce uno degli aspetti più inquietanti del terrorismo di matrice islamica. Nelle società musulmane il martire è considerato una figura intermedia tra l’eroe e il Santo. In versione sunnita, è colui che muore seguendo Dio, prendendo parte alla jihad. Nel caso specifico del terrorismo jihadista v’è la convinzione che l’azione violenta costituisca il solo mezzo utile al raggiungimento dello scopo, e che il sacrificio della propria vita sia un ritorno a un modello originario teo-teleologico verso il quale tendere, in cui la violenza è parte integrante dell’interpretazione religiosa.
L’attentato suicida resta, perciò, l’arma preferita dei qaedisti, sia che si tratti di operazioni dei singoli che di azioni di gruppo. La cronaca è piena di kamikaze che agiscono da soli e che, utilizzando spesso ordigni rudimentali, normalmente si fanno saltare in aria tra la folla. Altre volte il kamikaze agisce invece insieme ad altri militanti armati, usando esplosivo di tipo militare e colpendo obiettivi prescelti come ambasciate, aeroporti, hotel, sedi dei servizi di sicurezza e altri luoghi protetti.
In questa seconda categoria rientrano i terroristi che partecipano a quelle che vengono definite «missioni sacrificali» o «di non ritorno». In questi casi l’atto suicida non è immediato, ma viene conseguito con raid armati che non lasciano scampo ai partecipanti. Un chiaro esempio di partecipazione collettiva alla missione sacrificale è rappresentato dall’assalto agli hotel di Mumbai in India attuato nell’autunno 2008, nel quale è sopravvissuto un solo terrorista. Altri episodi che hanno una matrice comune con la strage indiana sono avvenuti in Pakistan, in Iraq e in Afghanistan.
In passato erano stati i palestinesi a farvi ricorso, negli anni 70 e poi durante la seconda intifada. Ma l’esempio più eclatante è rappresentato dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, ai quali sono seguite le stragi di Madrid e di Londra, rispettivamente dell’11 marzo 2004 e del 7 luglio 2005. Mentre la strage predicata da Abu Musab Al Suri, vero ideologo di questo tipo di lotta, e compiuta nella caserma di Fort Hood nel Texas il 5 novembre 2009 dal maggiore Nidal Hasan, rappresenta senza dubbio il punto di congiunzione tra lo «sparatore solitario» e il gesto jihad individuale, Ad essa sembra essersi ispirato, nel fallito attentato alla caserma di Milano dell’ottobre 2009, il libico Mohammed Game il quale, pur senza esperienza, si era documentato sui kamikaze, sulle tecniche e persino sul rituale.
Quanto alla partecipazione delle donne a queste forme di lotta terroristica, va ricordato che la prima donna kamikaze in assoluto è stata la diciassettenne Sanaa Muhaidily. Si fece saltare in aria, nell’aprile 1985, lanciandosi con la sua Peugeot bianca contro un posto di blocco israeliano a Batr Shaouf, uccidendo due soldati e ferendone altri due. Dopo quasi vent’anni Israele veniva colpita nuovamente da un’attentatrice suicida; infatti nel gennaio 2003 Wafa al Idris si faceva esplodere nel centro di Gerusalemme.
Ora, se si osserva nel suo evolversi la storia del terrorismo e dei gruppi terroristici di matrice islamica, si può notare come l’impiego delle donne può essere visto come la naturale evoluzione di una mutazione delle modalità di attacco, al fine di rendere più efficace la jihad. Il loro reclutamento procura, infatti, diversi vantaggi per la natura generalmente non minacciosa delle donne e per il maggior pudore e la maggiore sensibilità nel controllarle e perquisirle.
Si è detto che le nuove regine della jihad sono spesso donne occidentali convertite o donne musulmane che vivono o hanno vissuto in occidente. La tendenza è comunque cambiata: se per molto tempo l’ala più tradizionalista di Al Qaeda non ha voluto coinvolgere le donne, oggi si assiste a un cambiamento di metodo e di certo vi sono sempre più donne a disposizione dei gruppi terroristici.
Ma che cosa spinge una donna a diventare kamikaze? È opinione comune che alla base della scelta vi siano spesso motivazioni personali, quale un legame sentimentale con un membro di un gruppo terroristico, la morte di una persona cara che apparteneva a tale gruppo, essere state vittime di uno stupro. In Cecenia vi sono state molte donne che si sono fatte esplodere, motivate dalla perdita del loro uomo nel conflitto: sono le cosiddette vedove nere. In Israele e nei territori occupati sia Hamas sia la Jihad palestinese hanno utilizzato donne kamikaze per gli stessi motivi.
Nello Sri Lanka una delle principali ragioni che spingono le donne ad unirsi ai gruppi terroristici (le Tigri Tamil) è il fatto di essere state vittime di uno stupro. Questo rappresenta uno stigma sociale, una vergogna e un disonore personale e collettivo, che vieta loro pubblicamente di unirsi in matrimonio o di avere figli. Così il sacrificio di sé rappresenta un’occasione di riscatto dal disonore subito.
Sta di fatto che la drammatica decisione di diventare kamikaze, nelle donne come negli uomini, è particolarmente favorita da una cultura che esalta e idealizza il sacrificio e il martirio. Le donne, in particolare, ritengono che la jihad abbia anche un carattere difensivo a cui tutti i musulmani, senza distinzioni di sesso, hanno il dovere di partecipare. Se questo convincimento dovesse diffondersi ulteriormente, l’impiego delle donne potrebbe essere visto come una strategia legittima da radicare in tutti i luoghi e quindi anche in Europa.

Tags: donne terrorismo Antonio Marini Ottobre 2010

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa