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Giancarlo Lehner: lenin, stalin, togliatti

Un volume alto vari centimetri per ricordarci personaggi storici troppo grandi un’epoca, troppo piccoli oggi. Che eppure potrebbero insegnarci tanto, come affrontare il futuro dell’umanità. Autore è Giancarlo Lehner, già direttore dell’Avanti!, storico e glorioso quotidiano del PSI, e nella seconda Repubblica fiero avversario delle deviazioni, corruzioni, malapolitica dei nuovi tempi del benessere ma anche della grave inaffrontabile crisi economica. Un libro o meglio un vero specchio per gli italiani.
Domanda. Nella situazione politica, economica, sociale e culturale dell’Italia di oggi, che effetto fa l’apparizione sul mercato di un libro con un titolo così appariscente, in un’epoca in cui i giovani non sanno nulla, non solo sul Fascismo ma neppure quello che è successo nella Prima Repubblica. È in pratica un sasso nello stagno?
Risposta. È un’opera storica che ha il pregio di avere parti del tutto originali e inedite, tratte dagli archivi russi, quindi anche sconosciute. E che ha anche una ricaduta sull’attualità politica odierna; direi che, paradossalmente, è funzionale al presidente del Consiglio Matteo Renzi perché in qualche modo spiega come in Italia sia mancato un riformismo autentico, che avrebbe potuto essere di un grande partito come quello socialista. Il libro racconta proprio questo: come fin dal colpo di Stato russo dell’ottobre 1917, che non fu una rivoluzione, non c’è mai stata nessuna rivoluzione. Fu un colpo di Stato e fin da esso l’idea fissa di Lenin era quella di frammentare, sbriciolare, annientare il grande prestigio, la grande compattezza e grande forza politica che, per esempio, aveva il PSI italiano.
D. Per quale motivo?
R. Il PSI era il più grande partito europeo coerentemente contrario alla grande guerra, mentre altri grandi partiti socialisti europei, in particolar modo l’SPD tedesco e il Partito socialista francese, votarono i crediti di guerra e quindi fecero prevalere l’idea di nazione sul socialismo internazionalista, contrario alla guerra borghese e imperialista. Quindi i socialisti italiani sono stati i puri, i più autentici, che hanno tenuto coerentemente fede alle basi fondanti dell’idealità socialista. Lenin aveva un problema, doveva giocare sull’internazionalismo perché aveva bisogno del consenso e del sostegno altrui, ma in realtà aveva l’idea di rafforzare il proprio potere e di asservire di fatto tutti gli altri partiti, che entreranno poi nella Terza Internazionale, alle urgenze di Mosca. Questo grande paradosso è anche pedagogico a proposito della forza dell’idea di nazione, a proposito della forza dell’idea di nazione, perché il colpo di Stato ottobrino, nato con l’illusione dell’internazionalismo e di una società di eguali che esso doveva poi estendere in tutto il mondo, rinnegò la nazione proprio come idea; anzi la demonizzò in foggia di origine di ogni male. Il grande paradosso è che quell’iter russo e comunista nacque contro l’idea di nazione, per l’internazionalismo, contro l’imperialismo, ma poi invece si organizzò per trasformare il comunismo internazionalista nel più impudente nazional-imperialismo russo.
D. Che cosa rappresentava, in quell’epoca, il PSI?
R. Era l’unico partito che aveva i conti in regola rispetto alla teoria e in più era organizzato in maniera capillare, con cellule, cooperative e sindacati. Il PSI sposò Marx ma soprattutto Engels, ossia un cammino gradualistico e di riforme in attesa che la società borghese giungesse al termine; intanto, si cercava di migliorare le condizioni di contadini, operai e lavoratori estendendone i diritti. Delle devastanti mire di Lenin si accorse in tempo reale Filippo Turati che, nel Congresso del 1921 a Livorno, avvertì: «Attenzione, questi ci vogliono sbriciolare»; quello che poi Lenin avrebbe fatto.
D. Quale la prova che fin dall’inizio c’era l’intenzione di sbriciolare?
R. Lenin intanto faceva nascere la Terza Internazionale in fretta e furia senza attendere le delegazioni degli altri partiti, proprio per controllare ed egemonizzare. Chi furono i primi delegati? Si trattava di stranieri russificati, residenti in Russia da anni. In quel momento, appena usciti dalla prima grande guerra mondiale, arrivare in Russia era estremamente difficile, non funzionavano aerei o treni. L’Internazionale rossa Lenin voleva farla nascere in fretta, tanto che il delegato germanico del più grande partito socialista, cioè l’SPD, si oppose dicendo: «No, aspettiamo, bisogna far nascere in modo serio l’Internazionale, non possiamo improvvisare».
D. Poi che cosa avvenne?
R. Il delegato tedesco, che si chiamava Heberlein, dovette accettare ma in Germania capirono che Lenin in realtà voleva tutto il controllo e il dominio al servizio della Russia. La prima a denunciarlo fu Rosa Luxemburg. Lenin doveva imporre a tutti coloro che volessero entrare nella Terza Internazionale i 21 punti, molto severi solo con gli italiani: ecco la prova che egli considerava un avversario da battere il nostro PSI. Tali punti furono applicati alla lettera e duramente soltanto con il PSI, mentre con i socialisti francesi, ad esempio, si fecero eccezioni.
D. Perché i socialisti italiani andavano sbriciolati?
R. Perché erano un esempio di come, senza essere russi e senza essere stati con Lenin, si poteva essere coerenti e contrari alla guerra. Tra quei 21 punti che al PSI furono imposti tassativamente, figurava la follia dell’espulsione di Filippo Turati, e cioè di tutti quelli che in qualche modo incarnavano il gradualismo e il riformismo. Quindi il leninismo si configura subito come l’eversore del riformismo.
D. Riuscì ad ottenere, dunque, l’egemonia totale?
R. Ma sempre, però, con la falsificazione, perché Lenin si disse contrario al riformismo perché bisognava fare la rivoluzione, ma non era vero. Il fatto straordinario fu questo: l’internazionalismo era fumo negli occhi perché si stava avviando la costruzione di un grande impero, e tutti gli altri partiti entrati nell’Internazionale avrebbero dovuto essere al suo servizio anche in modo criminale. Questo asservimento sarebbe arrivato a tal punto che, quando nel 1939 fra Germania e Russia fu stretto il Patto Molotov-Ribbentrop, il leader comunista italiano Palmiro Togliatti, per essere ligio agli ordini di Stalin, per oltre un anno sprofondò nel filonazismo. Nessun libro in Italia ha raccontato quei mesi di vergogna; parliamo di oltre un anno perché il PCI e Togliatti scoprirono di essere antifascisti soltanto quando Hitler, con l’Operazione Barbarossa, nel giugno del 1941, attaccò l’Unione Sovietica, e a quel punto loro tornarono ad essere antifascisti.
D. Che altro dimostrò il Patto Molotov-Ribbentrop?
R. Su esso abbiamo documenti inediti secondo i quali Togliatti e i dirigenti comunisti italiani residenti a Mosca sciolsero il Centro estero di Parigi, perché avevano osato scrivere la verità, ad esempio che la Germania aveva invaso la Polonia. Il che dimostra come l’asservimento era giunto a dimensioni abnormi. Purtroppo, il PSI, accettando quei 21 punti, arrivò ad autosbriciolarsi; si ebbe prima la scissione di Livorno nel 1921, che fra l’altro fu sbagliata perché, mentre avrebbe dovuto uscire dal partito l’ala riformista, uscirono invece gli elementi più a sinistra, tanto che subito dopo si verificò una seconda scissione da destra (Filippo Turati e Giacomo Matteotti). A quel punto, a furia di scissioni, una piccola parte del PSI confluì nella Terza Internazionale insieme al PCI. Bisogna dar atto al giovane Pietro Nenni il quale, trovandosi ormai in una situazione disperata perché il fascismo era al potere, rifiutò di fondere quello che restava del PSI con il PCI. Fu antifusionista e così salvò il Partito socialista.
D. Però nell’immediato secondo dopoguerra non si stabilì un Patto di unità d’azione che diede vita al cosiddetto Blocco del popolo?
R. Questo avvenne dopo, io mi riferisco al 1923. C’era un altro aspetto molto rilevante: i comunisti italiani, influenzati e offuscati dal leninismo, consideravano avversari più pericolosi i socialisti, non i fascisti.
D. Erano quindi da contrastare in quanto concorrenti?
R. Sì, e fu una tragedia: quando si deve spiegare come nasce il fascismo, una causa fondante fu proprio questa confusione mentale, che dalla Russia giunse strumentalmente alle sinistre italiane. Ho riportato tutti i dati sugli agenti sovietici spediti in Italia a pilotare la scissione di Livorno; in una parte del libro indico tutti i nomi di quanti vennero in Italia, e cito anche episodi grotteschi. Il fondatore del PCI, Amadeo Bordiga, il cui nome, essendo un uomo libero, è stato cancellato, si rese subito conto di quello che stava succedendo. Nel libro sono contenute sue espressioni significative, tra cui l’episodio in cui addirittura affrontò in pubblico, a Mosca, Stalin, spiegandogli che i comunisti occidentali non potevano seguire pedissequamente quello che stavano instaurando in Russia. Disse a Stalin che, quando sorgevano problemi interni al partito russo, avendo tutti i partiti eguali diritti, anche le questioni russe dovevano essere dibattute con i partiti fratelli e decise non più solo dai bolscevichi.
D. Che altro rilevò Bordiga?
R. Essendo una persona straordinariamente intelligente, acuta e furba, notò un altro aspetto. Il bolscevismo nasceva dalla corruzione, e nella prima parte del libro è descritto il colpo di Stato ottobrino foraggiato dai marchi, poichè il Reich era interessato a far uscire la Russia dalla guerra, affinché tutto l’immenso fronte orientale si liberasse e la Germania potesse concentrarsi sul fronte occidentale. Ho elencato banche e cifre, quindi il regime sarebbe nato corrotto dal tradimento, perché quelli erano russi che prendevano denaro, per tradire la loro patria, dal Reich che era in guerra contro di loro. Poi la corruzione sarebbe diventata la regola. Nel libro ho citato per esempio che quelle scissioni dentro il Reich e dentro i partiti del PS europei e mondiali avvenivano con finanziamenti illeciti. In un documento, per favorire la scissione nel SPD in Germania, figura addirittura il ricorso allo spaccio di morfina; non c’era nessuna remora, tutto quello che rubavano, per esempio nelle chiese ortodosse, ai nobili russi e a chiunque custodisse valori in casa, finiva nel fondo per finanziare scissioni.
D. Come giudicavano la situazione i leader comunisti italiani?
R. Corruzione su corruzione, ve ne fu una che, notava Bordiga, era intrigante. Scherzosamente, ma in modo duro, egli stigmatizzava l’ennesimo segmento corruttivo attraverso il sesso: Lenin metteva a fianco di ogni esponente che arrivava a Mosca, dirigenti di primissimo livello ma anche di seconda fascia. Venivano chiamate così delle belle ragazze russe che potessero spiarli e riferire alla polizia segreta, ma anche condizionarli. Quindi si usavano anche le donne, ma l’unico che se ne accorse in modo chiaro fu proprio Bordiga, il quale scrisse ad Ambrogi, un italiano che nel 1922 stava a Mosca naturalmente a nome del partito. Ambrogi aveva l’abitudine di portare donne nell’Hotel Lux in cui alloggiava. Scrisse Bordiga: «Sempre di più ci viene fatto di chiederci a quale scopo abbiamo a Mosca una nostra rappresentanza politica; che state facendo là?». E aggiunse: «Per fare politica, occorre brandire una penna volgare, pestare su una macchina per scrivere e dare segno di vita al partito che vi ha delegato. Saluti comunisti e scusate lo stile dovuto al fatto che in questi giorni in Italia...».
D. Qual’era la situazione in Italia?
R. C’era la marcia su Roma. Per questo, la lettera continua così «Abbiamo per le mani certi c... probabilmente ben diversi da quelli di cui costà si fa di grandissimo uso». E quindi che cosa state a fare là? Solo per fare sesso? Tuttavia, i vanitosi dirigenti del PCI pensavano di possedere un fascino irresistibile. In realtà erano oggetto di spionaggio e controllo. Passando all’oggi, l’attualità del libro è proprio questa: il PCI, che ha via via preso nome di PDS, DS, PD ecc. finalmente è guidato da un leader che non proviene dalla tradizione criminale dell’asservimento a Mosca.
D. E le vittime italiane del comunismo sovietico?
R. Nel libro reitero, pur solo con degli accenni perché si trovano in altri miei libri, tutti i morti che vanno addebitati a Togliatti, e racconto come il bolscevismo, il leninismo e questa corruzione mentale siano diventati una regola. Ormai vecchio, prima di morire Togliatti, che poi viveva tranquillamente in Italia da tanti anni e non doveva avere paura di nessuno, commise l’ennesimo delitto. Arrivò a un intellettuale italiano una richiesta di aiuto a favore di giovani scrittori ungheresi sotto processo perché non in linea perfetta con il partito: a chiedere aiuto per loro era nientemeno che il filosofo ungherese György Lukacs, che adesso è scomparso e nessuno sa più chi sia stato, ma ricordo che un tempo in Italia, stante l’egemonia comunista, se uno non aveva letto Lukacs non contava nulla. Quel mito della cultura comunista mondiale chiese aiuto, perché il PCI facesse qualcosa per i giovani scrittori magiari. La richiesta giunse a Togliatti. Il quale fece la spia. A Mosca, si incontrò con il segretario del Partito comunista ungherese e denunciò Lukacs. È documentato nel libro.
D. Chi ha rivelato l’episodio?
R. L’abbiamo conosciuto non da Togliatti, ma dal segretario generale del Partito comunista ungherese Janos Kadar; lo rivelò il 29 ottobre 1957, dopo aver sostituito Imre Nagy alla presidenza del Consiglio dei ministri ungherese, dopo la rivolta di Budapest dell’ottobre 1956 e l’invasione dei carri armati sovietici. Kadar, già segretario generale del Posu, il Partito operaio socialista unificato ungherese, fece una relazione sugli incontri a Mosca: «Ho conferito con il compagno Togliatti che aveva fatto sapere di volermi parlare; ha ricordato che un gruppo di intellettuali membri del partito italiano è venuto a conoscenza del procedimento penale in corso contro i giovani scrittori ungheresi tramite un messaggio di Lukacs»; e annotò: «È una cosa importante perché, se Lukacs ricomincia a essere attivo, occorrerà nuovamente occuparsi di lui».
D. La firma del Patto Molotov-Ribbentrop fu un momento fondamentale. Che rappresentò per i comunisti?
R. Umberto Terracini espulso: stando al confino in Italia aveva comunicato il suo disaccordo. Quel patto, fra l’altro, non solo apriva all’invasione e alla spartizione della Polonia tra tedeschi e sovietici, ma dava il via libera all’olocausto. Tanto che, a sigillo del Patto, Stalin fece un grazioso dono ad Hitler: prese tutti i comunisti ebrei che aveva fatto rinchiudere nei gulag e glieli regalò; riempì un treno di prigionieri comunisti tedeschi ebrei e glieli porse come carne da macello. Furono espulsi Terracini e tutti quelli in disaccordo.
D. Ad opera di chi? Di Togliatti?
R. Certamente. Togliatti li fece espellere. Ecco in che modo egli spiegò l’origine della seconda guerra mondiale: «Firmato il patto di non aggressione tra Urss e Germania, l’imperialismo inglese e quello francese si gettarono addosso al loro rivale tedesco»; quindi per Togliatti Hitler fu una vittima, era stato aggredito. Neanche i fascisti scrissero mai questa falsità. Fin dal 1934 ormai era chiaro a tutti quello che Hitler aveva in mente, e nel 1930, nel 16esimo congresso del PCUS a Mosca, Togliatti disse: «È motivo di particolare orgoglio per me avere abbandonato la cittadinanza italiana per quella sovietica; io non mi sento legato all’Italia come alla mia patria, mi considero cittadino del mondo, di quel mondo che noi vogliamo vedere unito intorno a Mosca agli ordini del compagno Stalin. È motivo di particolare orgoglio aver rinunciato alla cittadinanza italiana perché, come italiano, mi sentivo un miserabile mandolinista e nulla più. Come cittadino sovietico sento di valere 10 mila volte più del miglior cittadino italiano».
D. Togliatti fu accusato di aver fatto liquidare tanti comunisti italiani che erano nell’Unione Sovietica?
R. Non solo quelli che erano lì. Nel libro c’è un’ultima parte di documenti inediti grazie ai quali abbiamo la certezza che, essere servi sciocchi con Stalin, serviva poco perché si rischiava di finire comunque dinanzi al plotone d’esecuzione. Fu un rischio che corse pure Togliatti. Parlo di un’istruttoria aperta su di lui, perché sia gli eredi di Antonio Gramsci sia soprattutto i comunisti spagnoli gli muovevano seri rimproveri. Pochi sanno che dal 1940 non ricoprì più alcuna carica e perché sotto processo: fu salvato perché Hitler attaccò l’Unione Sovietica nel momento in cui quell’istruttoria doveva andare in porto. Nel libro è riportata l’istruttoria; Stalin e gli altri avevano altro cui pensare, ed essa rimase sospesa. Rimase però aperta quando Stalin fece nascere il Cominform, ma siamo ormai nel secondo dopoguerra. Chiese che Togliatti fosse il capo del Cominform, ciò per portarlo a Mosca, ma Togliatti prese tempo e fece in modo di non accettare: se fosse andato l’avrebbero ucciso. Era il periodo in cui era molto amico di Rudolf Slansky, dirigente del Partito comunista cecoslovacco, ucciso nel 1952. Era anche amico di Tito che, dopo, venne demonizzato da Mosca. Dato che conosceva bene la situazione, Togliatti non accettò mentre i suoi, come Luigi Longo e Pietro Secchia, erano favorevoli alla sua andata al Cominform, perché avrebbero preso in mano il partito.
D. Quindi l’interesse russo prevaleva su tutto?
R. Anche quando favoriva Mussolini; quando ci fu il caso Matteotti, Mussolini era in bilico, poi ne uscì alla grande ma Turati scrisse alla compagna Anna Kuliscioff che Mussolini sarebbe caduto; erano tutti sicuri, e comunisti e antifascisti erano pronti a far festa. Che fece l’ambasciatore sovietico a Roma? Invitò Mussolini nella propria ambasciata e spiazzò tutti. L’interesse russo prevaleva su tutto; quando se ne accorse nel 1926, Gramsci scrisse la famosa lettera di critica al PCUS; gli unici grandi che si accorsero dell’inganno sovietico furono i pochi uomini intellettualmente onesti: Gramsci, Bordiga, Tasca, tutti poi cacciati o, come Gramsci, lasciati nelle mani della polizia fascista. Il PCI fu modellato sulla mediocrità; i grandi cervelli che aveva, e che si accorsero che l’Urss in realtà era una potenza imperialistica e che non c’entrava nulla né con il comunismo né con il socialismo, né con l’internazionalismo, furono espulsi; eppure, ai sovietici il PCI aveva dato filo da torcere: Terracini contestò Lenin nel 1921; Bordiga fece impazzire Stalin, Gramsci poi con la lettera del 1926 denuncia con trent’anni di anticipo i metodi stalinisti. Tutti i comunisti pensanti si accorsero, chi prima chi dopo, che a Mosca stavano operando esclusivamente per la Russia; e il primo fu Bordiga, che parlò di una via asiatica al socialismo. L’inganno del bolscevismo prova che l’idea di nazione, con tutti i suoi difetti, è però radicata e fin qui ineliminabile. Poi, nel libro c’è tutta la parte nella quale spiego come il terrore fu ripreso e ampliato da Stalin, ma il suo primo teorico fu proprio Lenin.
D. La sua è un’opera eccezionale perché non solo ristabilisce la verità ma la ricrea. Purtroppo, la massa è soggetta ai racconti di pseudo storici fatti in tv.
R. Ci sono pseudo storici che in tutta la vita non sono mai entrati in un archivio, si tratta di sedicenti storici. Da parte mia, voglio precisare che non sono uno storico revisionista, ma che riporta alla luce tutte le pagine sbianchettate che ho ritrovato. Non sto revisionando, sto portando alla luce quello che hanno coperto e sbianchettato, il mio lavoro è sempre stato questo. Hanno coperto che sono stati filofascisti, che hanno scritto ai «fratelli in camicia nera» nel 1936; il PCI lo scrive, ma non per sbaglio, perché era il Comintern che lo ordinò. Non c’era autonomia alcuna, facevano parte della macchina, vivevano grazie a Mosca, ricevevano i soldi grazie a Mosca, erano in grado di editare riviste e giornali e credevano di contare qualcosa. Anche dopo la fine della guerra il PCI continuerà ad ottenere finanziamenti, il famigerato oro di Mosca.
D. Che pensa del film recentemente realizzato su Enrico Berlinguer?
R. Ma si sono resi conto che, mentre Berlinguer poneva la questione morale, seguitava a prendere soldi dalle società di import-export con l’Est, dalla Stasi attraverso l’Eumit, società facente parte dell’arcipelago finanziario e industriale controllato dal generale capo della Stasi, il servizio segreto della Germania dell’Est che era peggio del KGB? Anche in altri libri riporto che sotto Berlinguer, nel 1976, grazie al senatore Ugo Pecchioli furono inviati alla Lubjanka, cioè presso sede del KGB, ad imparare come mettere le bombe e falsificare i passaporti, giovani comunisti italiani, pionieri dell’esercito illegale, clandestino, paramilitare, la nuova Gladio Rossa. Berlinguer, altro che questione morale, quando si accorse che volevano farlo fuori, fece lo strappo da Mosca. Il suo segretario particolare, Antonio Tatò, parlando con uno storico della Fondazione Gramsci, disse che Berlinguer aveva dovuto parlare di strappo per questioni di politica interna, ma che era chiaro che «noi siamo sempre uniti all’Unione Sovietica».
D. E nel più remoto passato?
R. Torna di stretta attualità il finanziamento che, allo scoppio della prima guerra mondiale, il Kaiser fece ai movimenti pacifisti perché l’Italia non era ancora entrata in guerra. Quando finanziò Lenin, promise in nome della pace che, se fosse riuscito ad andare al Governo, avrebbe realizzato campagne pacifiste per l’uscita dei russi dalla guerra; per questo Lenin venne finanziato. Il golpe di ottobre nacque dal vecchio vizio che hanno continuato ad avere, fino all’altro ieri, del pacifismo a senso unico, finanziato e promosso da un altro impero; quando i russi attaccarono l’Afghanistan, niente pacifismo a senso unico. A eterna vergogna dello stalinismo travestito da agnello, basti ricordare i partigiani della pace degli anni 50.
D. Ad aumentare la conoscenza di questi avvenimenti non pensano le istituzioni, la scuola è assente, la tv non fa mai nulla o lo fa in modo strumentale, sbagliato, conformista. Dopo il 1917 la situazione politica ha visto il 1922, poi la guerra e, dopo, il 25 aprile. Quindi il 1992 e adesso siamo nel 2014 con la crisi che ha cambiato integralmente la situazione. Perché i politici attuali non sanno assolutamente nulla, non gliene importa niente, pensano a tutt’altro? Quali ipotesi potrebbe fare sul futuro?
R. L’evoluzione potrebbe essere positiva, se qualcuno rileggesse Cuoco, che ci ha insegnato molto, anche sul futuro. Parlando della rivoluzione illuminista del 1799, Cuoco disse che il politico che vuole dare un futuro al popolo deve soprattutto conoscerlo e conoscerne bisogni, usi, cultura, mentalità, psicologia; non può rinchiudere la complessità della natura umana nel piccolo spazio del proprio cervello, delle proprie idee. Non può procedere con i propri schemetti mentali, deve ampliare la propria visione con la conoscenza del popolo che deve governare. Massimo Gorkij disse che «la vita nella sua complessità è estranea a Lenin, il quale non conosce le masse, non ha mai vissuto con il popolo, ha imparato sui libri come muoverle, come eccitare gli istinti delle folle; la classe operaia è per Lenin ciò che il minerale è per il metallurgico». E cito ancora Vincenzo Cuoco che, a proposito del fallimento della rivoluzione napoletana del 1799, scrisse: «L’impresa di dar leggi a un popolo richiedesi prima di tutto di conoscerlo; tutto è perduto quando un legislatore misura l’infinita estensione della natura con le piccole dimensioni della propria testa, non conoscendo se non le sue idee».
D. Conclusione?
R. Chiunque voglia far bene non deve cristallizzarsi nella propria piccola testa. Un rivoluzionario russo, Aleksandr Herzen, scrisse una cosa molto seria e intelligente, ed era un rivoluzionario non un conservatore: «Consiglio di guardare con attenzione se veramente le masse vanno là dove noi pensiamo che vadano; io consiglio di abbandonare le opinioni libresche inoculateci fin dall’infanzia, e che ci hanno fatto immaginare gli uomini del tutto diversi da quello che sono».
D. Del socialismo che resta?
R. Il riformismo intelligente, l’idea che è essenziale migliorare le condizioni umane per quanto è possibile, senza strappi e scorciatoie, quello che diceva Filippo Turati nel senso che la vita sociale è complessa, non ci sono soluzioni semplici. Il socialismo fu soprattutto la cultura del diritto, del diritto delle donne, del lavoratore, dell’infanzia. Per il futuro, sarebbe fondamentale coniugare questa dei diritti con la rinnovata cultura dei doveri, che in Occidente e in particolare in Italia si è perduta. Questo è il vero dramma. I nostri operai degli anni 50, pur combattivi e autori di scioperi e proteste, sapevano che rivendicare i loro diritti dipendeva dal fatto che lavorassero bene, fossero orgogliosi del lavoro, non sciatti come oggi. La cultura dei diritti va coniugata con quella dei doveri, non deve più succedere che pochi incoscienti mettano a ferro e fuoco Porta Pia, Via Veneto, Via Nomentana, con richieste abnormi, come la casa. Come può venire alla mente l’idea che lo Stato ti deve regalare la casa? Si può chiedere il lavoro, non la casa o l’automobile. Nel 1978, scrissi un libro intitolato: «Dalla parte dei poliziotti»: non sopportavo più l’idea che il poliziotto fosse sempre colpevole di tutto. Chi gli mena, chi gli spara, diventano tutti eroi. Mi pare che non sia cambiato niente.   

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