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GIUSEPPE JOGNA: PERITI INDUSTRIALI, 81 ANNI DI RIFORME. DISCUTIBILI.

Giuseppe Jogn, presidente del Consiglio Nazionale dei Periti Industriali

Il primo riconoscimento giuridico della professione di perito industriale porta la stessa data dei Patti Lateranensi con i quali Benito Mussolini da parte italiana e il cardinale Pietro Gasparri per la Santa Sede ponevano fine alla «questione romana», il conflitto Stato-Chiesa sorto all’indomani della presa di Porta Pia. Il «Regolamento per la professione di perito industriale», introdotto con regio decreto n. 275 dell’11 febbraio 1929, riconosceva alla categoria la competenza a progettare, eseguire e dirigere nei limiti delle rispettive competenze, e, in generale le mansioni direttive nel funzionamento industriale delle aziende pertinenti le specialità stesse.
Dopo 80 anni molto è cambiato e l’esigenza di professionisti qualificati ha reso necessario adeguare i requisiti morali e scolastici per ottenere l’iscrizione all’Albo: non più il solo diploma di Istituto tecnico, ma il possesso di una laurea triennale in una delle classi indicate nel decreto presidenziale n. 328 del 2001 che ha modificato i requisiti per l’ammissione all’esame di Stato, le prove per l’esercizio di talune professioni e la disciplina dei relativi ordinamenti; provvedimento che è fonte, ancora oggi, di non pochi contrasti.
Al tema della formazione universitaria si legano anche la riforma della scuola tecnica, in vigore con il nuovo anno scolastico 2010-2011, e quella delle professioni, di cui si discute da decenni. «15 aprile 2010, appuntamento con il futuro», era il titolo dell’editoriale della Rivista dei Periti industriali, con riferimento all’incontro svoltosi a metà dello scorso aprile tra il guardasigilli Angelino Alfano e i rappresentanti degli Ordini professionali. Ne parla Giuseppe Jogna, presidente del CNPI, Consiglio nazionale dei periti industriali e dei periti industriali laureati.
Jogna si è iscrisse nell’albo del collegio di Udine nel 1958, subito dopo aver conseguito il diploma con specializzazione edilizia. Nel 1962, dopo il servizio militare in artiglieria alpina e un breve praticantato in uno studio tecnico di edilizia, avviò l’attività autonoma a Forgaria in Friuli, dove è nato e risiede. Nel 1992 ha costituito uno studio associato multidisciplinare a Spilimbergo, dove opera tuttora unitamente a colleghi architetti, ingegneri e periti industriali. Eletto nel Consiglio nazionale nel 1977, ne divenne presidente nel 1984. Nel 1997 ha assunto il ruolo di coordinatore del Comitato provvisorio dell’istituendo ente di previdenza della categoria, l’EPPI, che ha presieduto per tre mandati successivi.
Domanda. Lei è presidente del CNPI dal 2007 e coordinatore della commissione di studio per la riforma delle professioni, istruzione e formazione. Può illustrare i problemi sul tavolo?
Risposta. Le modifiche apportate negli 81 anni trascorsi hanno gradualmente alterato il sistema di formazione tecnica, con esiti tutt’altro che positivi. Oltre a ridurre le ore di studio, sono state eliminate la pratica esecutiva e quella di laboratorio, che dovrebbero invece costituire la struttura portante. Nel frattempo lo Stato ha legittimato l’esercizio della professione ingegneristica di primo livello e nel 1989, per esercitare una professione intellettuale, è stato introdotto l’obbligo di una formazione universitaria di almeno tre anni o di valore equipollente. Ma la nostra istruzione tecnica era specialistica e non generica, come è nel resto dell’Unione Europea; inoltre è più lunga e tanto diversa da consentire l’esercizio della professione intellettuale, che è caratterizzata dalla creatività intesa come capacità intellettuale di generare, di inventare qualcosa, sia pur minimale. Occorreva far emergere la differenza sostanziale rispetto alla professione che si esercita in Europa, che è prevalentemente esecutiva della creazione di un altro. Noi amiamo definirci professione intellettuale e come tali intendiamo continuare ad operare in questo Paese.
D. Quali in particolari i vostri obiettivi prioritari?
R. Nel settore ingegneristico c’è la necessità di delineare una grande professione di primo livello che raggruppi tutto l’esistente - geometri, periti agrari, industriali -, così da preparare la casa nuova per coloro che usciranno. Stiamo lavorando per i laureati triennali del settore ingegneristico, anche se da parte loro c’è il timore che venire nella nostra casa possa significare rinunciare al loro potere. Non è facile far capire che si può anche essere altruisti, ma questa è la verità. Siamo consapevoli che i nostri successori non possano più venire da una scuola come quella che abbiamo frequentato noi. Ed è un dato acquisito che per esercitare la libera professione occorra avere la laurea triennale o una formazione di valore riconosciuto equivalente.
D. Che occorre fare allora?
R. Si tratta di riorganizzare le professioni sulla base di una visione più moderna e più ampia. Per questo stiamo cercando di realizzare un accorpamento con i geometri, con i periti agrari e con i laureati triennali, tutti del settore ingegneristico. Perché non possiamo chiamarci fuori dall’Europa, ma non possiamo neanche permettere che si venga a operare nel nostro Paese magari con una formazione inferiore. Un meccanico specializzato tedesco che viene in Italia si qualifica come ingegnere, mentre da noi si continua a contestare e non si vuole concedere il titolo nemmeno ai laureati triennali. Manca un’organizzazione adeguata. Per lavorare in Italia un nostro iscritto di Alessandria, un elettrotecnico specializzato nell’illuminazione artistica, è costretto ad aggregarsi a una società di ingegneria francese, cioè a chi ha gli strumenti e l’organizzazione per competere nelle attività professionali. La riforma che desideriamo consiste nella possibilità di costituire anche in Italia società tra professionisti, di livello, con una certa organizzazione. Stiamo vivendo una stagione molto difficile, ma siamo fiduciosi che il ministro della Giustizia Angelino Alfano riesca nel compito. Se non si riesce ad andare oltre la riforma quadro e a far approvare i decreti attuativi, non si risolve nulla. Sono fiducioso, ma considero già un mezzo miracolo che si sia varata la riforma della scuola secondaria che entrerà in vigore nel prossimo autunno.
D. Qual è il vostro giudizio?
R. Occorreva semplificare il sistema e porre fine sia alle continue sperimentazioni sia alla frammentazione di indirizzi. La riforma Gelmini ha cercato di restituire agli istituti tecnici l’identità perduta a favore di una liceizzazione sempre più intensa, anche senza i principi originari, prima tra tutte la pratica professionale; e anche se non siamo stati capaci di allinearci agli altri Paesi. Il nostro rimane il corso più lungo in Europa, articolato in due bienni più un quinto anno finale che solo i più ottimisti sperano possa diventare propedeutico, o addirittura il primo anno dell’istruzione successiva, universitaria o meno. La riforma non soddisfa pienamente neanche la Confindustria, che pure l’aveva molto sollecitata e resta in attesa di capire se ci sarà uno spezzone di istruzione tecnica superiore. Il nuovo diploma di istruzione tecnica sarà valido ai fini della partecipazione ai concorsi della pubblica amministrazione e dell’inserimento nel mondo del lavoro, ma non dell’esercizio della libera professione, perché non si acquisisce più il titolo di perito. Solo chi si iscrive al terzo anno rimane ancorato al vecchio ordinamento per il diploma, per la pratica professionale e per l’esame di Stato.
D. La continua riduzione delle ore di insegnamento non contrasta con l’esigenza di una formazione più specialistica?
R. Il passaggio da 36 a 32 ore settimanali stabilito dall’ultima riforma è stato motivato dal computo di ore non più di 50, ma di 60 minuti. Io stavo a scuola 44 ore alla settimana, dalle 8 alle 12 e dalle 14 alle 18, escluso il sabato che si finiva alle 12. Ma, oltre alla teoria, erano obbligatorie varie ore di laboratorio, di officina, di pratica. In edilizia costruivo anche il muro. Ma la tecnologia si è evoluta a velocità astronomica e la scuola nella propria autonomia non poteva tenere il passo. Anche le scuole di eccellenza si sono trovate gradualmente a dismettere laboratori e officine, fino ad arrivare ai cosiddetti licei tecnologici. Questa riforma rappresenta un tentativo di ritorno, seppur limitato; c’è la voglia di rientrare in gioco per quanto riguarda la formazione tecnica. Un chimico non può limitarsi alla teoria senza far scoppiare mai qualcosa, un tessile deve poter toccare almeno un telaio. Nel complesso, però, il nostro giudizio è positivo e non ci impressiona il calo di iscritti dell’1,4 per cento registrato quest’anno. Un risultato molto migliore rispetto agli istituti professionali i cui iscritti sono diminuiti quasi del doppio. Della riforma non ci soddisfa la maggior durata ma ci piace ancor meno il «3+2», tre anni più due dell’università, in particolare nel settore dell’ingegneria che più ci interessa.
D. Per quale motivo se l’Italia si è allineata all’Europa?
R. Innanzitutto la scuola secondaria europea, che dura un anno di meno, da molto tempo è propedeutica a una formazione di livello superiore ma non necessariamente universitario. In Germania, in particolare, accanto alla formazione universitaria nel settore ingegneristico è nata anche una formazione extrauniversitaria, persino migliore, ma in Italia il percorso è stato totalmente diverso. Prima sono stati istituiti dei corsi speciali biennali, ai quali si poteva partecipare per accedere all’esame di Stato, poi i diplomi universitari e nel 2000 ha visto la luce la riforma universitaria articolata in tre anni più due. La vera calamità è stata però il decreto presidenziale 328 del 2001, con il quale i laureati triennali sono stati legittimati ad accedere alla professione ma potendo scegliere un settore diverso rispetto alla formazione specifica. Un colpo di mano di fine legislatura, attuato con ministro della Giustizia Piero Fassino. In un caso limite l’opzione è addirittura per 6 titoli professionali diversi. Con la stessa formazione si può venire da noi, che già facevamo professione ingegneristica di primo livello, con il titolo di perito industriale laureato; si può entrare come ingegnere junior in una sezione B degli ingegneri, o in quella degli architetti, sempre come junior; o iscriversi come perito agrario laureato o geometra laureato. Una follia cui va posto rimedio

Tags: professionisti formazione ingegneria professioni industria udine università Giugno 2010 Giuseppe Jogna

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