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EPPI. PREVIDENZA PRIVATA: MANCA UN INTERLOCUTORE ATTENTO

Il dibattito sulla previdenza dei liberi professionisti ha avuto un’accelerazione in quest’ultimo periodo. Il meccanismo è stato innescato dalla riforma Maroni che ha apportato alcuni provvedimenti decisivi a favore delle libere professioni. Il nocciolo di quella riforma spingeva le casse dei professionisti a mutare il loro volto: da enti di gestione dei conti previdenziali degli iscritti con il fine di preservare e rivalutare quei depositi per restituirli a fine carriera, a istituzioni con margine di manovra più ampio e in grado di offrire servizi per migliorare subito la sicurezza globale della vita dei propri iscritti.

L’ampiezza del margine di manovra lo si vede almeno in due opportunità a disposizione dal luglio 2004: le casse dei professionisti non solo possono migliorare il loro profilo fondendosi per formare corpi più importanti e stabili, ma possono modulare le aliquote contributive per invitare gli iscritti a versare di più oggi al fine di ricevere somme più congrue domani. Una maggiore presenza nella tutela globale, d’altro canto, la si vede dall’opportunità che le casse professionali hanno ottenuto per avviare sia forme di pensione complementare a quella obbligatoria sia forme integrative di assicurazione sanitaria a favore di tre soggetti: iscritti, familiari ed eventualmente dipendenti degli studi professionali. È un processo che considera la previdenza una delle opportunità di tutela assicurativa globale, una dimensione sempre attiva accanto al professionista: dalla pensione al fondo pensione, dall’assicurazione sanitaria privata all’assicurazione a tutela dei grandi rischi, tutte forme gestite dal proprio ente di previdenza privato.

Spesso c’è una grande confusione generata anche dai media, perché si ritiene che la previdenza dei professionisti sia assimilabile alla previdenza pubblica dell’Inps: un corpaccione omogeneo, lento, con evidenti problemi di tenuta a lungo termine. Invece no. Le casse dei professionisti rappresentano un mondo diversificato - sono 19 quelle riunite nell’AdEPP - ma virtuoso per efficienza e responsabilità, come emerge dalle anticipazioni sulla relazione della Commissione parlamentare di controllo presieduta dall’onorevole Francesco M. Amoruso.

Sarebbe, però, ingenuo nascondere problemi su cui tutti gli organi direttivi degli enti sono chiamati a confrontarsi. Una questione decisiva è il metodo di calcolo della prestazione. La previdenza dei professionisti è anche figlia del Paese che le ha fornito i natali, e la data del 1995 è una di quelle che hanno segnato un cambio di pagina. La riforma Dini, infatti, ha lanciato il metodo di calcolo «contributivo» della pensione, che determina la pensione obbligatoria in base a quanto versato nella vita contributiva di ogni iscritto. Questo metodo è stato imposto per legge a tutte le gestioni nate dopo il 1995, dunque alla gestione separata Inps e alle casse professionali di nuova generazione cui appartiene l’Eppi, la cassa a favore dei periti industriali.

Altri enti di previdenza, dal 1995 ad oggi, hanno apprezzato il metodo contributivo e hanno deciso di abbracciarlo in forme più o meno pure, dato che esso ha come punto di forza la blindatura dei bilanci: l’ente ha garanzia di stabilità perché le promesse che stipula con i contribuenti sono assicurate fin dal momento della loro firma. Il metodo contributivo è, d’altro canto, meno generoso e quest’aspetto salta di più agli occhi quando convivono fianco a fianco professionisti pensionati con due sistemi di calcolo opposti e con pensioni di importo profondamente diverso. Credo sia uno dei compiti propositivi del mondo delle professioni immaginare un sistema previdenziale che, pur non abbandonando il supersicuro contributivo, metta in condizione le casse che lo applicano di elevare la rata pensionistica finale. Per conto mio, tra quelli posti sul tavolo, voglio ragionare sue due temi.

Prima di tutto, i professionisti delle casse che applicano il contributivo devono sapere con grande chiarezza che contributi al 10 per cento del reddito non riescono a costituire un assegno pensionistico congruo. Bisogna portarli più in alto. La cassa dei periti industriali mette a disposizione quattro aliquote (12, 14, 16, 18) opzionali per versare importi più adeguati per il futuro. L’aliquota in media applicata dall’Inps per i lavoratori dipendenti ammonta al 33 per cento del reddito e per la gestione separata arriva intorno al 18. Davanti a questi indici, l’innalzamento è quanto mai opportuno per fare poi confronti. In secondo luogo, è necessario avvalersi di tutte le opportunità per accantonare nel proprio conto previdenziale maggiori importi.

L’Eppi ha messo a disposizione il sistema del riscatto per gli anni prima del 1996 non coperti da altra copertura assicurativa, ma occhio a due elementi. Il primo: occhio alla nuova possibilità di sommare spezzoni contributivi versati in più enti di previdenza (totalizzazione), molto importante per quei professionisti in vista della pensione che prima erano esclusi dal meccanismo di sommatoria. La nuova totalizzazione, mi piace sottolinearlo, è in parte opera del pressing che il mondo della previdenza privata ha svolto sulla politica.
Il secondo: è necessario portare il contributo integrativo dal 2 al 4 per cento con l’opportunità di indirizzare quella maggiorazione interamente sui conti degli iscritti. Quindi è necessario ragionare su un doppio provvedimento: quello che renda flessibile il tetto del contributo integrativo (interamente pagato dal committente in fattura) e quello che indirizzi la maggiorazione nel salvadanaio che costituirà la base della pensione.

Le casse che applicano il metodo contributivo hanno un compito arduo: «inventarsi» strada facendo un nuovo sistema previdenziale e convincere la politica e l’opinione pubblica della bontà delle proprie proposte. Chiedere di elevare il contributo integrativo significa chiedere una mano alla collettività: si tratta di un aumento, minimo, del costo della parcella a vantaggio della propria pensione. Il meccanismo è già presente nella previdenza pubblica, dove il lavoratore riceve un pesante aiuto da parte del datore di lavoro per raggiungere quel 33 per cento di cui abbiamo parlato. Per la previdenza privata si tratterebbe di un concorso modesto alla formazione della propria pensione ma anche di un passo in avanti di mentalità: è opportuno occuparsi della propria pensione fin da subito in modo schietto.

I periti industriali richiedono l’aumento del contributo integrativo a favore dei professionisti tecnici di oggi e del futuro, certi che anche altre categorie siano d’accordo. Solo che a volte alla previdenza privata manca un interlocutore politico attento, il giusto ascolto che capisca la portata delle richieste e possa attuarle in modo concreto.

di Giuseppe Jogna, presidente dell’ente di previdenza dei periti industriali

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