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Una scommessa, non un gioco d’azzardo: occorre una strategia

Giorgio Benvenuto presidente Fondazione Buozzi

La legge di stabilità per il 2016 ha elementi di continuità e segnali interessanti di discontinuità. La continuità è rappresentata dalla procedura. Nulla è mutato rispetto al passato. Un’unica eccezione: prima si chiamava legge finanziaria ora si chiama legge di stabilità. L’iter è farraginoso.
Si comincia a discutere a giugno con il documento economico e finanziario; alla fine di ottobre il Consiglio dei ministri vota la «copertina» della legge; i visti della Ragioneria, l’articolato e la firma del presidente della Repubblica vengono fatti a novembre; si inizia la prima lettura, questa volta al Senato, naturalmente interlocutoria; poi si passa alla Camera in seconda lettura, quella decisiva; poi a ridosso di Natale c’è il voto finale di ratifica del Senato. Tutto avviene in un dibattito che si svolge in maniera impropria sui giornali e nei talk show. Una discussione superficiale, inutile, contraddittoria. Le consultazioni in Parlamento dei soggetti intermedi rappresentano una stucchevole passerella di attori che recitano per i sordi. Il Parlamento è espropriato. Non ha voce in capitolo. Anche i ministri sono dei modesti interlocutori. La loro preoccupazione è quella di sapere cosa pensa il presidente del Consiglio. Alla fine, come avviene ormai dal 2008, la legge di stabilità verrà approvata con il voto di fiducia su di un unico emendamento interamente sostitutivo dell’originario articolato della legge di stabilità. Alla fine ci si troverà di fronte ad una legge con un unico articolo composto da centinaia di commi eterogenei.
È una procedura vetusta, antiquata, inadeguata: è un assemblaggio di disposizioni diverse incapaci di dare una risposta efficace e tempestiva alle esigenze di risanamento e di sviluppo del Paese. La discontinuità è invece rappresentata da un atteggiamento finalmente intransigente nei confronti dell’Europa. Viene archiviato il comportamento succube, quasi servile, che ha caratterizzato i Governi degli ultimi anni. L’Italia fa valere nei confronti dell’Europa la propria opinione. Riesce insomma a rimettere in discussione la linea dell’austerità che si è rivelata un gigantesco boomerang per tutti.
La legge di stabilità apre un varco per favorire scelte che daranno una funzione dinamica all’economia in Italia ed in Europa. Certo, non mancano le critiche. Ma non si può sottovalutare la novità di misure finalizzate ad una politica espansiva. È una scommessa. Non è però un azzardo.
Bisogna fare in modo che le scelte fatte non siano tattiche. Occorre una strategia. Vanno affrontate con decisione la riqualificazione e la riduzione della spesa pubblica, in termini nuovi. Una prima decisione è ricostituire il Ministero delle Finanze. L’accompagnamento, anzi l’inglobamento, avvenuto nell’ex Ministero del Tesoro è stata un’esperienza negativa. Ha fatto prevalere le esigenze della spesa alle quali si è dovuta adeguare la politica delle entrate.
A ciò si deve aggiungere un atteggiamento diverso, intransigente, nei confronti delle autonomie locali. È stucchevole assistere ai piagnistei dei Comuni e delle Regioni che ricattano il Governo minacciando ogni anno, per neutralizzare le richieste di riduzione delle loro spese, di ricorrere ad aumenti dei ticket sanitari o delle imposte locali. Bisogna dire basta. Regioni e Comuni, ad eccezione di limitati casi, sono fonte di spreco, di corruzione, di clientelismo. Invece va modificata la politica nei confronti della Pubblica Amministrazione. Occorre valorizzare le competenze, i saperi, le professionalità. Va smantellato il clientelismo, il lassismo. Va affrontata la ristrutturazione: lo Stato non c’è dove dovrebbe essere, e c’è, ingombrante ed inutile, laddove non dovrebbe esservi.
Va messo in pratica l’unico cambiamento vero, l’unica rivoluzione che potrebbe cambiare il volto del Paese; rifare la Pubblica Amministrazione da capo a piedi, riducendone gli sprechi ed anche il perimetro. Ecco perché è sbagliato il blocco della contrattazione. Si sono moltiplicate le ingiustizie interne agli uffici. Il blocco dei contratti ha congelato la situazione al 2010, nel nome di «chi ha avuto, ha avuto». Ma c’è anche «chi non ha avuto» nulla perché assunto quando si erano bloccati i contratti e congelati i premi. Una burocrazia rinnovata si deve basare sui più giovani; occorre agire in fretta. Riforma e manovra devono procedere assieme.
Il disegno di legge di Stabilità non prevede interventi in materia di flessibilità di accesso al pensionamento. La parziale equiparazione della no tax area dei pensionati a quella dei lavoratori dipendenti è un segnale positivo. La portata di tale intervento è limitata. Decorrerà a partire solamente dal 2017. I nostri pensionati sono tra i più tassati d’Europa e su loro grava mediamente un’aliquota (21 per cento) quasi doppia rispetto a quella media dell’Ocse (12,4 per cento). Il Governo avrebbe dovuto invece estendere il bonus degli 80 euro anche ai pensionati.
È sconcertante la proroga operata dal Governo del blocco della perequazione delle pensioni. Questa misura contraddice quanto sancito dalla Corte costituzionale. Il ricorso alla proroga, oltre a rivelarsi iniquo, è controproducente, è posto come copertura per gli interventi in materia previdenziale. Il Governo, in pratica, fa pagare direttamente ai pensionati il costo degli interventi in ambito previdenziale.
Con la legge di stabilità viene varata la settima salvaguardia per gli esodati. È ancora incompleta. Si continuano ad escludere ancora molti dei lavoratori coinvolti dalla legge Fornero. Per questo intervento il Governo utilizzerà le risorse avanzate dalle precedenti salvaguardie.
Sull’«Opzione donna» il Governo, invece, ha scelto di non agire, limitandosi a chiarire la norma e a sancire che tutte le lavoratrici che matureranno i requisiti entro il 31 dicembre 2015 potranno accedere alla pensione anche a decorrere da data successiva al primo gennaio 2016. Sono incomprensibili le presunte stime di costo perché non si tiene conto che per il trattamento erogato la lavoratrice accetta il totale ricalcolo contributivo della propria posizione, con tagli che arrivano sino al 30 per cento.
Desta infine molte perplessità la scelta di provvedere alle coperture per gli interventi in materia previdenziale e per il rifinanziamento della Cig andando ad incidere sul Fondo per «i lavori usuranti». Dopo il pesante taglio apportato con la legge di stabilità 2015, circa 150 milioni di euro, il Governo, dimezzando di fatto la disponibilità annuale del Fondo, utilizza nuovamente in modo improprio le risorse stanziate per consentire un accesso agevolato al pensionamento ai lavoratori che svolgono funzioni particolarmente faticose e logoranti.
Il taglio alle imposte deciso dal Governo ammonta a 3 miliardi. La pressione fiscale scende di due decimali di punto. La spinta alla crescita è, in base alle stime della Confindustria, tre decimali di punto. La crescita è ancora bassa, i conti pubblici non vengono risanati. Nella legge di stabilità la variabile Sviluppo è un punto interrogativo. La manovra fiscale è modesta e consiste di fatto in un rinvio. Le clausole di salvaguardia decise nella precedente legge di stabilità, ossia l’aumento delle imposte indirette per 16,8 miliardi, non vengono cancellate, ma rinviate di un altro anno.
Francesco Daveri su la Voce.info spiega che secondo le tabelle del Governo i contribuenti dovrebbero pagare 22,8 miliardi in meno tra disinnesco delle clausole di salvaguardia, cancellazione Imu e Tasi su prima casa, rifinanziamento di una decontribuzione più contenuta sui nuovi assunti a tempo indeterminato, super ammortamenti e altre voci più piccole. Ma parlando di impulso all’economia bisogna sottrarre le entrate aggiuntive contabilizzate. La prima riguarda il rientro di capitali dall’estero per 2 miliardi. Poi ci sono imposte temporanee e permanenti sui giochi per un miliardo. Tolti i 3 miliardi di queste voci, la riduzione di entrate nette scende a 19, 8 miliardi.
Ci sono però da distinguere gli effetti contabili da quelli veri, gli unici che valgono per i contribuenti. Il calo delle entrate è infatti calcolato rispetto alla legislazione vigente che include lo scatto delle clausole di salvaguardia, cioè degli aumenti di Iva (per due punti percentuali) e altre accise sui carburanti per un totale di 16,8 miliardi a partire dal primo gennaio 2016. I veri tagli delle tasse, allora, si riducono a 3 miliardi che sono pari ad un modestissimo 0,2 per cento del prodotto lordo, due decimali, dunque non due punti. Sarebbe stato corretto se qui 16,8 miliardi fossero stati tagliati di netto. Per farlo bisognava abbattere le spese di un ammontare equivalente e magari portare di nuovo il deficit al 3 per cento come l’anno scorso.
L’evasione fiscale è stimata in 180 miliardi di euro. Autorevoli enti internazionali parlano di una quota pari almeno ad un quarto del prodotto lordo, dunque addirittura 400 miliardi. In questo scenario stride quello che si intende fare con la legge di stabilità. L’obiettivo è recuperare 14 miliardi di euro, tanto quanto per lo scorso anno. Per questo vengono impiegate 40 mila persone nelle agenzie fiscali, alle quali bisogna aggiungere le 68 mila della Guardia di Finanza. I Ministeri costano un miliardo di euro al giorno, quello dell’Economia e Finanze 80 miliardi l’anno.
L’evasione fiscale non si riduce, viene appena intaccata con enormi sforzi e giganteschi costi: è come una lucertola cui la coda tagliata si riforma in quattro e quattr’otto. Un segnale inquietante sulla tenuta dei conti pubblici viene dai recenti dati comunicati in Parlamento da Equitalia relativi al 2015. Gli incassi da rateazione saranno la metà, il 48,7 per cento del totale degli incassi da ruolo; le dilazioni rateali concesse sono tre milioni per un controvalore di 33 miliardi di euro; i 7 decimi delle rateazioni riguardano debitori per meno di 5 mila euro; i 2 terzi delle rateazioni riguardano Lombardia, Lazio, Campania, Toscana, Puglia, Emilia Romagna. La lotta all’evasione fiscale,–non ci stancheremo mai di ripeterlo–, richiede un sapiente e intelligente uso delle banche dati in un ritrovato rapporto tra Amministrazione finanziaria e contribuente, rispettando lo Statuto del contribuente. È ridicolo ridurre il dibattito alla soglia dell’uso del contante. Occorre ragionare sui dati, rafforzare la collaborazione tra cittadino e Stato, finirla con i metodi inquisitori e vessatori. È ridicolo avere quella visione desueta del fisco che ritiene di sinistra fare più tasse, far piangere i ricchi. È una sinistra vecchia, espressione di un mondo che non vive ma sopravvive. Non è capace di suscitare ed ispirare etiche di combattimento per proposte moderne, eque, solidali.
Olof Palme ammoniva: «Con la politica fiscale non si fa la lotta alla ricchezza, si fa la povertà». Luigi Einaudi aggiungeva: «Occorre andare incontro alle esigenze di sicurezza della maggior parte degli uomini, a condizione che sia serbata in vita la minoranza di uomini disposti a vivere incertamente; a correre rischi, a ricevere onorari invece di salari, profitti invece di interessi».  

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