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Giacomo Matteotti e il mondo del lavoro in occasione del 92esimo anniversario del suo assassinio

GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

Giacomo Matteotti è un riformista. Vigile. Calcolatore. Accorto. Apparentemente duttile ma irremovibile sui principi. Paziente. Tenace. Giovane, giovanissimo si impegna nel PSI. Ha appena vent’anni. Viene assassinato a soli 39 anni. Non è un isolato. Ci sono in quegli anni molti altri giovani (Sandro Pertini, Giovanni Amendola, Antonio Gramsci, Piero Gobetti) che si sono battuti con coraggio e con determinazione contro il fascismo. Matteotti, politico di eccezione in tempi eccezionali, è un amministratore di grandi capacità e di grande valore. Svolge le funzioni di sindaco in molti comuni del Polesine, di consigliere provinciale, di parlamentare, di giornalista, di sindacalista.
Appartiene ad una famiglia borghese e benestante. Si laurea a pieni voti. Scrive saggi e libri importanti. Si perfeziona in economia in Inghilterra. Ha dinanzi a sé la possibilità di una splendida carriera accademica. Non la coglie. Sente forte il richiamo del riscatto del mondo del lavoro. La miseria abissale dei contadini del Polesine lo spinge all’impegno civile e politico. È influenzato dall’opera di Nicola Badaloni. Rifugge dal socialismo massimalista, esibizionista e parolaio. Aspira a fare del proletariato misero e analfabeta una forza di cambiamento della società.
Come Bruno Buozzi, come Giuseppe Di Vittorio, Giacomo Matteotti ritiene fondamentale un’estesa alfabetizzazione per formare entro il proletariato una classe dirigente in grado di avere credibilità perché capace di trasformare la protesta in proposta di Governo. Gobetti scriveva al riguardo che l’attenzione era quella di formare tra i socialisti i nuclei della nuova società: il comune, la scuola, la cooperativa, la lega: «La vera rivoluzione è quella con la quale i lavoratori imparano a gestire la cosa pubblica, non per un decreto o per continue sommosse e ribellioni».
Matteotti sa, come Filippo Turati, che l’attuazione dei principi del socialismo richiede tempi lunghi che vanno scanditi con una paziente opera di costruzione di movimenti, opere e istituti, con le leghe di resistenza, con le cooperative di produzione e consumo, con l’associazionismo diffuso, con la conquista e la gestione dei Comuni.
Luciano Casali ha definito l’azione dei riformisti con l’ossimoro politico di «sovversivi e costruttori». Matteotti, esperto conoscitore di Marx, aveva chiara la necessità di conciliare la lotta di classe con il rispetto delle regole dello stato borghese di diritto. Matteotti, come Prampolini, si oppone con intransigenza alla prima Guerra mondiale (non ritiene sufficiente, anzi definisce ipocrita la linea dei socialisti del «né aderire, né sabotare»). Comprende che poi tutto cambierà. Moltiplica il proprio impegno, la propria attività, il proprio lavoro per affermare i valori del riformismo socialista. 
Le elezioni politiche del 1919, le prime con il proporzionale, rappresentano il momento più favorevole per i socialisti: ottengono 1.835 mila voti, pari al 32,3 per cento; i deputati eletti sono 156; i popolari, presenti per la prima volta, ottengono 1.167 mila voti, pari al 20,6 per cento, con 100 deputati; i gruppi democratico-liberali conservano solo 179 dei 310 seggi ottenuti nelle precedenti legislature. I fascisti non hanno presenze in Parlamento. Raccolgono appena 4 mila voti.
L’affermazione del PSI è schiacciante al Nord con il 46,5 per cento, e con risultati meno rilevanti nel Centro e nel Sud.
Matteotti è un esordiente ed ha un successo straordinario. Nel collegio di Ferrara-Rovigo è eletto con 99.609 mila  voti, secondo dopo Ademo Niccolai. Raccoglie i consensi più consistenti tra i lavoratori delle campagne. Pochi mesi dopo la stipula dell’accordo sull’imponibile di manodopera nelle elezioni amministrative il PSI conquista tutti i 63 comuni del Polesine e manda in Consiglio provinciale a Rovigo 38 su 40 consiglieri.
Lo scenario nel quale opera Giacomo Matteotti come sindacalista è il Polesine. Le grandi inondazioni del Po e dell’Adige nella seconda metà dell’Ottocento hanno determinato delle grandi agitazioni agrarie in tutta la Valle Padana. L’epicentro delle lotte è Rovigo. Nel giugno del 1884 scioperi imponenti coinvolgono decine di migliaia di braccianti. Al grido di «La boje! De boto la va fora» («bolle e subito esce fuori!») i mietitori di Polesella si astengono dal lavoro per trenta giorni. I militari intervengono in sostituzione degli scioperanti, mentre ai carabinieri è affidata la repressione. Sono arrestati 168 «eccitatori», poi prosciolti nel processo di Venezia. Il Resto del Carlino del primo aprile 1885 sostiene che le agitazioni sono provocate non da facinorosi ma dalla fame. Gli arresti - sottolinea il Resto del Carlino - eliminano gli individui ma non le cause della protesta.
Vengono così predisposti, con imponenti investimenti statali, lavori di bonifica per arginare i fiumi e i canali, per infrastrutture stradali e di comunicazione. In quattro decenni vengono bonificati 72 mila ettari nella sola provincia di Rovigo. Ma la situazione dell’occupazione rimane drammatica: accanto ad un milione di contadini fissi, poco meno di un altro milione è invece occupato nelle bonifiche e nei lavori dei poderi. Anzi c’è una profonda differenza tra le bonifiche lombarde (la cerealicoltura si associa alle foraggere, all’allevamento e alla connessa trasformazione casearia) e le bonifiche della Padania centro orientale (la cerealicoltura è ancorata solo al binomio mais-frumento). Ecco perché nel Polesine il lavoro dei braccianti, legato al ciclo stagionale delle piante, è solo avventizio con una tragica alternanza tra lavoro e disoccupazione.
In particolare a Rovigo e a Ferrara le bonifiche stentano a ridurre la salinità che corrode la canapa e isterilisce i prati artificiali. I terreni bonificati sono eccessivamente umidi e non sostengono a sufficienza il peso degli animali e delle macchine. È in questo contesto che Giacomo Matteotti, diventato segretario della Camera del lavoro della CGIL a Ferrara, predispone specifiche rivendicazioni per proseguire con le operazioni di bonifica, di manutenzione idraulica, di foraggere per realizzare una connessione tra la cerealicoltura e le trasformazioni industriali conseguenti.
Matteotti si rende conto che nel cuore della Valle Padana, come ebbe a dire un grande politico ed economista agrario, Giuseppe Medici, la bonifica concentra un esercito di braccianti avventizi e giornalieri stimolandone le capacità di auto organizzazione sul piano politico e sindacale.
Matteotti delinea una coraggiosa ed innovatrice strategia, indicando due obiettivi: l’ufficio di collocamento e l’imponibile di manodopera, entrambi gestiti dai sindacati dell’agricoltura. L’ufficio di collocamento viene recepito dal Parlamento legislativamente nel 1919, mentre l’imponibile di manodopera ha vicende alterne legate all’andamento dei rapporti di forza tra sindacato ed agrari.
Particolarmente importante è il Patto Matteotti-Parini, cioè l’accordo tra la CGIL e la Federterra con l’Agraria (l’associazione del grande padronato) raggiunto a Roma il 18 marzo 1920 con la mediazione del Sottosegretario all’Interno onorevole Giuseppe Grassi.
Gli aspetti più significativi sono la limitazione dell’orario di lavoro; un aumento sensibile delle paghe orarie; l’istituzione di una Commissione arbitrale atta a dirimere le controversie; l’utilizzo concordato delle macchine agricole.
I punti essenziali dell’accordo sono invece l’istituzione dell’ufficio di collocamento da parte delle leghe contadine e la definizione dell’imponibilità di manodopera con l’assunzione di un lavoratore ogni cinque/sette ettari di terreno a seconda delle lavorazioni, delle dimensioni della proprietà, della stagionalità. Le resistenze all’attuazione dell’accordo saranno immense. Nel 1921-22, grazie alle violenze del fascismo, gli accordi vengono smantellati, così come avviene per le conquiste ottenute con gli accordi realizzati dopo l’occupazione delle fabbriche.
«Nel Polesine–racconta Piero Gobetti –Giacomo Matteotti vide nascere il movimento fascista come schiavismo agrario, come medioevale crudeltà verso qualunque sforzo dei lavoratori volto a raggiungere la propria dignità e libertà. Matteotti sentiva che per combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorreva opporgli esempi di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere di intransigenza, di rigorismo. Si era così creata intorno a lui un’atmosfera di astio pauroso da parte degli agrari: mentre lo stimavano, capivano che lo avrebbero avuto nemico implacabile».
È particolarmente drammatico ciò che accade il 12 marzo 1921. Per evitare incidenti, in un contraddittorio tra lavoratori ed agrari Matteotti va nella sede dell’associazione padronale. Appena varcata la porta gli agrari lo minacciano e con le rivoltelle in mano vogliono che dichiari di lasciare il Polesine. Matteotti allora risponde: «Ho una dichiarazione sola da farvi: che non vi faccio dichiarazioni». Viene sequestrato, bastonato, insultato, minacciato di morte, spinto a viva forza su di un camion che lo abbandona in una via isolata di campagna.
Il 1919, il 1920 ed il 1921 vedono acuirsi il confronto nel PSI tra massimalisti e riformisti soprattutto in presenza di grandi lotte sociali. Il 15 gennaio del 1921 si apre a Livorno il XVII Congresso del PSI: le linee di divisione all’interno del partito sono nettamente e drammaticamente segnate. Alla votazione, su 172 mila voti 98 mila vanno ai massimalisti di Serrati, 59 mila ai massimalisti comunisti di Bordiga, 15 mila appena ai riformisti di Turati.
Si consuma la scissione tra i due massimalismi con la costituzione del PCdI, il Partito Comunista d’Italia. Inizia così la «Caporetto» socialista, sotto la spinta potente dell’offensiva sempre più violenta ed illegale del fascismo.
Le elezioni del 1921 vedono il PSI attestarsi al 24,7 per cento, con 1.631 mila voti; il PCdI raccoglie 300 mila voti, pari al 4,6 per cento; vengono eletti 122 deputati socialisti e 15 deputati comunisti; i popolari arrivano a 107 seggi; entrano alla Camera dei deputati appena 32 parlamentari fascisti. Il 10 ottobre del 1921 si tiene a Milano il XVIII Congresso del PSI. È un partito indebolito, dominato dalla contrapposizione al suo interno tra la transigenza e l’intransigenza.
Incisivo, in questa occasione, il discorso di Giacomo Matteotti, che sottolinea il dramma del suo Polesine, ove il terrore fascista sta dilagando, mettendo a repentaglio l’esistenza delle organizzazioni sindacali e politiche di sinistra. «Era indispensabile–dice Matteotti– uscire al più presto dall’equivoco inerte del massimalismo e concentrare le proprie energie sul problema vitale di come fronteggiare il fascismo senza precludersi l’uso di tutti i mezzi disponibili, da quelli legalitari e parlamentari sino a quelli volti a rispondere con la violenza alla violenza e alla illegalità.»
Ma non accadde nulla di nuovo, anzi il declino e la paralisi dei socialisti aumentano. Il XIX Congresso del PSI si apre a Roma il 1° ottobre del 1922, a pochi giorni dalla marcia su Roma. I massimalisti di Serrati prevalgono per pochi voti sui riformisti, 32 mila voti contro 29 mila. Si consuma così una nuova scissione, ed il 4 ottobre si costituisce il PSU, il Partito Socialista Unitario, con Segretario Giacomo Matteotti. Al nuovo partito aderiscono 63 deputati su 122; dei restanti 59 molti rimangono incerti e solo una trentina aderiscono al PSI.
Entrano nel PSU tra gli altri Filippo Turati, Claudio Treves, Bruno Buozzi, Argentina Altobelli, Giuseppe Modigliani, Camillo Prampolini, Emilio Caldara. La scissione del PSI non è accompagnata da asprezze polemiche. Massimo Serrati replicando al commosso commiato di Filippo Turati dice: «Ognuno al proprio lavoro: voi alla collaborazione, noi nella nostra critica assidua. Tutti per il proletariato, tutti per la rivoluzione socialista».
Matteotti inizia infaticabilmente a documentare e a denunciare le violenze ed i soprusi di cui è vittima la democrazia. L’avvento di Mussolini rafforza in lui la consapevolezza di una antitesi insanabile - di carattere morale prima ancora che politico - tra socialismo e fascismo, quella visione politica, insomma, che Gaetano Arfè ha ben definito come «etica dell’antifascismo».
La rigorosa ed intransigente opposizione al fascismo è per Matteotti l’unico mezzo per valorizzare l’autonomia politica ed il carattere riformista del socialismo, evitando così il rischio di essere assimilati alla democrazia borghese come era capitato a Bissolati. Il PSU, in definitiva, diviene così il vero ed autentico continuatore della tradizione socialista, riempiendo lo spazio abbandonato dai massimalisti e dai comunisti, per proporsi come il fulcro di una coalizione democratica e riformista aperta a tutte le forze progressiste.
Sono interessanti le battaglie fatte da Matteotti nel 1923 per la riscossa socialista e per fronteggiare le insidie della nuova legge elettorale maggioritaria voluta da Mussolini per consolidare il proprio potere alla testa di un nuovo blocco sociale.
L’11 e il 12 novembre 1923, a Milano, Matteotti afferma che «il problema è quello di staccare dalle classi capitalistiche e plutocratiche quegli elementi che si son dati al fascismo soltanto per paura dei nostri veri o immaginari eccessi, ma i cui interessi sono in antitesi con quelli del fascismo. Il PSU deve fare appello a tutti i lavoratori che credono nella democrazia come condizione irrinunciabile dell’azione socialista. Qualcuno dubita che vi sia un interesse diverso dall’organizzazione economica. La verità è che in una dittatura non esiste più né il comune, né la cooperativa, né l’organizzazione sindacale e che ciò viene elargito dall’alto può essere ritolto in ogni momento».
Nonostante gli appelli e gli sforzi unitari di Matteotti i tre partiti della sinistra - PSU, PSI, PCdI (Partito comunista d’Italia) - vanno alle elezioni del 1924 in ordine sparso e senza alcun collegamento organico con le altre opposizioni. I risultati elettorali del 6 aprile 1924 risentono fortemente delle violenze, delle intimidazioni, delle irregolarità, dei brogli più o meno palesi. Su 7.600 mila votanti, il Fascio Littorio ottiene 4.300 mila voti; altri 350 mila vanno ad un’altra lista fascista: in tutto Mussolini ottiene il 66,9 per cento dei voti e 375 deputati. Tra i partiti dell’opposizione i popolari ottengono 637 mila voti con 39 deputati; il PSU 415 mila voti con 24 eletti; il PSI 342 mila voti con 22 deputati; il PCdI 268 mila con 19 eletti.
Giacomo Matteotti nella seduta inaugurale della nuova legislatura alla Camera reagisce con forza, con coraggio: parla tra clamori, contumelie, minacce ed interruzioni. Il suo discorso è una requisitoria intransigente che documenta le violenze, i brogli, le corruzioni che avevano caratterizzato la campagna elettorale: è una contestazione appassionata e ferma della validità delle stesse elezioni.
Straordinario è il saggio di Giacomo Matteotti sui guasti di un anno di governo fascista. Viene svolta una analisi documentata sulla situazione economica e finanziaria del Paese: è indicato con dovizia di dati come sono peggiorati i conti pubblici; in particolare per quanto si riferisce alla bilancia commerciale, alla situazione di bilancio e di cassa (vengono analizzati i dati sul debito pubblico, sul disavanzo, sulle entrate tributarie, sulle imposte locali). Vengono forniti dati sulla circolazione bancaria, sui depositi, sull’andamento dei prezzi, sulla evoluzione dei profitti e dei salari, sull’andamento dell’occupazione, della emigrazione e sulla conflittualità.
È un affresco importante della geografia economica e sociale italiana all’indomani della prima guerra mondiale; è indicata ed è sottolineata con lucidità e con l’attento messaggio delle cifre, l’iniquità sociale dei provvedimenti economici del fascismo, tutti tesi a privilegiare i settori forti dell’economia. Dati che confermano la profonda ingiustizia sociale, ma anche la grande incompetenza del fascismo che avrebbe poi portato l’Italia nello sperpero delle avventure coloniali e nel dramma della seconda guerra mondiale.
Ma ancora più interessante è la valutazione precisa e puntuale degli atti del governo fascista: il ricorso alla decretazione d’urgenza largamente usato ed abusato da Benito Mussolini è evidenziato dal fatto che i decreti legge sono addirittura 517 in 12 mesi, e di questi addirittura 500 registrati con riserva dalla Corte dei Conti. Degno di attenzione è anche l’elenco documentato sullo scioglimento degli organi rappresentativi nelle autonomie locali e sull’utilizzo della propaganda.
Il dossier economico e politico presentato da Giacomo Matteotti alla Camera è completato dalla pubblicazione delle «parole dei capi» e le cronache dei fatti che documentano come capillarmente la violenza e l’intimidazione fascista, con il bavaglio alla stampa, hanno spento la democrazia creando le premesse per la dittatura nel nostro Paese.
L’opuscolo è tradotto in inglese e diffuso in tutta Europa. Quando si svolgerà il processo farsa di Chieti agli assassini di Matteotti, il loro avvocato difensore, Roberto Farinacci, lo porterà a testimonianza della «denigrazione» che il deputato socialista aveva svolto ai danni dell’Italia. Otterrà addirittura le attenuanti per gli assassini perché avevano voluto difendere l’onore della patria macchiato dalle denunce di Matteotti.
Matteotti non cadde mai nella trappola della pacificazione. Ostacolò l’ala collaborazionista nel PSU e nella CGIL; impedì, dopo la marcia su Roma dell’ottobre del 1922, che nel Governo di Mussolini entrassero con incarichi ministeriali esponenti socialisti, per partecipare, come invece imprudentemente fecero i popolari, al processo di normalizzazione con la legalizzazione dello squadrismo fascista.
Matteotti ricerca l’unità; rifiuta l’ipocrisia di coloro che si nascondono dietro il pretesto formale che tutti i governi sono uguali: «il nemico - dice – è uno solo: il fascismo. Complice involontario del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall’uno diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura dell’altro».
Gramsci in modo avventato, ingeneroso e ideologico scrisse: «Pellegrino del nulla appare a noi Giacomo Matteotti quando consideriamo la sua vita (...) Partiva da un desiderio generoso di redenzione totale, e si esauriva miseramente nel nulla di un’azione senza vie di uscita, di una politica senza prospettiva (...) Solo per i militanti comunisti la classe operaia cesserà di essere pellegrina del nulla (...). Solo per essi la classe operaia diventa libera e padrona dei propri destini».
Giacomo Matteotti non era un «pellegrino del nulla», né un perdente. Si batteva per far cadere il Governo Mussolini mettendo in crisi la sua maggioranza, denunciando il dilagare nel paese della violenza che contraddiceva clamorosamente l’impegno a realizzare la pacificazione e a ripristinare la legalità e l’ordine. Il tentativo di Matteotti era disperato. Ne era consapevole lui stesso. Ma non si rassegnava. Poteva essere sconfitto, ma non si sarebbe mai rassegnato ad essere un vinto.
Il fascismo prima con l’accordo di Palazzo Chigi nel 1923 e poi dopo l’assassinio di Matteotti, con l’accordo di palazzo Vidoni, mette in disparte il sindacato e i lavoratori. La lunga notte del fascismo finisce con una lenta agonia tra il 1943 e il 1945. Si ricomincerà dai lavoratori con la Resistenza e con la ricostituzione della CGIL unitaria. Giacomo Matteotti e gli altri martiri del fascismo riemergeranno vindici e costruttori della Repubblica fondata sul lavoro.   

Tags: Giugno 2016 Giorgio Benvenuto

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