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RICETTE PER LO SVILUPPO. LA SITUAZIONE ECONOMICA RISTAGNA: QUALI INIZIATIVE PER AVVIARE LA RIPRESA?

di GIORGIO BENVENUTO, presidente della fondazione Bruno Buozzi

No, non ci siamo. La situazione economica e sociale del Paese ristagna. Non si vedono concrete e realistiche proposte capaci di far riprendere lo sviluppo. L’Italia arranca. Negli ultimi tre anni tutto si è deteriorato e si è sfilacciato. L’Istat ha denunciato che un italiano su quattro è a rischio povertà; il numero dei disoccupati ha ripreso a crescere (in un anno si sono persi 500 mila posti di lavoro); l’inflazione è tornata a mordere; la pressione fiscale ha raggiunto livelli insostenibili; si è accentuata la delocalizzazione della nostra industria manifatturiera; è cresciuto il peso oppressivo e repressivo della burocrazia; si è riusciti a stento a controllare la spesa pubblica. Una situazione così sconfortante non è il frutto del «destino cinico e baro». È la conseguenza di una politica economica errata, dominata dalla sindrome del rinvio. «Ha da passa’ ‘a nuttata», direbbe Eduardo De Filippo.

Nel 2008 e nel 2009 il ministro dell’Economia e delle Finanze, che si era vantato di aver previsto in tempo la crisi mondiale della finanza, ha praticato una politica a dir poco schizofrenica. I primi provvedimenti hanno riguardato il sistema bancario e quello assicurativo. Novello Robin Hood, ha deciso di tassare le banche ed ha addirittura incaricato i prefetti di sorvegliare e di intervenire sulla concessione del credito. Quasi immediatamente c’è stato un ripensamento e sono stati previsti i «Tremonti bond» per consentire al nostro sistema creditizio di superare i problemi di liquidità e di patrimonializzazione.

In quegli anni si è teorizzato che l’Italia doveva rimanere ferma, attenta ai conti pubblici, in surplace, attendendo la ripresa della Germania per agganciarvisi. Così non è stato. La Germania ha attuato una politica economica espansiva. È cresciuta del 5 per cento. È irraggiungibile. Il ministro dell’Economia e il presidente del Consiglio hanno promesso riforme capaci di dare una frustata al cavallo dell’economia. Non c’è sinora nessuna traccia di questa intenzione. In un articolo apparso alla fine dello scorso gennaio sul Corriere della Sera, Silvio Berlusconi parlava di una svolta nell’economia per portare la crescita oltre il tre-quattro per cento in cinque anni. Insomma si proponeva la più incisiva riforma «che la storia italiana ricordi, e non un’azione antidebito da formichine». Così non è stato.

Il nuovo patto di stabilità negoziato con le autorità europee impone ai Paesi con un debito superiore al 60 per cento del prodotto interno lordo di rientrare tagliando cinque punti l’anno rispetto allo scostamento: l’Italia è al 120 per cento. Insomma la previsione è che, rebus sic stantibus, ci potranno essere a malapena risorse per ridurre il fardello debitorio, ma mancheranno quelle per forzare la crescita. Manca un fisco più leggero. È singolare che la politica fiscale non sia considerata parte della strategia economica del Governo. Francesco Forte, già ministro delle Finanze nella prima Repubblica, ha ricordato a questo proposito il colloquio che Luigi Einaudi ebbe con i rappresentanti dei contadini di Dogliani, il suo paese di nascita. «Che cosa chiedete allo Stato?», domandò il professore. Gli rispose il più anziano dei contadini: «Migliorateci la strada, riducete le imposte, al resto ci pensiamo noi».

La diminuzione delle tasse è scomparsa dal programma del Governo. Si parla di palingenetica riforma fiscale. Il federalismo fiscale ha prodotto e produce più spesa pubblica e più tasse; la liberalizzazione delle addizionali sull’Irpef e sull’Irap ha portato a un aggravio fiscale molto pesante sulle imprese più piccole e sui pensionati e le famiglie. Si moltiplicano i tavoli di discussione. Non si raccolgono le indicazioni che, in maniera propositiva, vengono a più riprese sostenute dalle organizzazioni sindacali.

Eppure le risorse da utilizzare per lo sviluppo ci sono. In questi giorni è stato celebrato il decennale della costituzione delle agenzie fiscali di Dogane, Entrate, Territorio e Demanio. Se ne aggiungerà a breve una nuova, quella sui Giochi. Il ministro Tremonti e il suo predecessore, Vincenzo Visco, si sono scambiati reciprocamente dei riconoscimenti. Tremonti ha ammesso di aver sbagliato quando dieci anni fa votò contro l’istituzione delle agenzie; Visco ha riconosciuto che i risultati dell’azione di contrasto all’evasione e all’elusione fiscale cominciano ad essere significativi.

Certo le agenzie fiscali rappresentano oggi istituzioni eccellenti, organizzate ed efficienti. Sono dotate di strumenti che permettono agli ispettori, agli accertatori, alla Guardia di Finanza, di non essere inermi di fronte all’evasione fiscale. In questi giorni c’è stata un’ondata di proteste contro Equitalia. C’è molta esagerazione e c’è anche opportunismo politico nell’appoggiare senza riserve le agitazioni dei debitori colpiti, come prevede la legge, da provvedimenti fortemente dissuasivi.

È la stessa disinvoltura che l’on. Giulio Tremonti ha espresso quando, in un’audizione alla commissione Finanze della Camera, ha teorizzato che occorre tutelare le piccole imprese e le famiglie rispetto a un fisco sempre più vorace e a una burocrazia ottusa e repressiva. Viene da chiedersi: dove è stato Tremonti in questi anni? Al Governo. Non all’opposizione. Le proteste contro Equitalia, che si stanno diffondendo nel Paese, vanno collocate in un quadro generale nel quale è consolidata una forte asimmetria tra i comportamenti della Pubblica Amministrazione e i comportamenti del contribuente.

Il fisco non può essere inflessibile con i debitori, mentre lo Stato tarda nei rimborsi fiscali e rinvia alle calende greche il pagamento delle proprie commesse e l’erogazione dei contributi. Tutto ciò premesso va sottolineato con forza che occorre agire sul terreno fiscale. La lotta all’evasione ha portato nella cassa dello Stato ingenti risorse. Una parte deve essere assolutamente destinata a ridurre e a semplificare le tasse per le imprese. Prima che sia troppo tardi occorre diminuire le tasse per i redditi più bassi e per le famiglie.

Operazioni di questo genere, come dimostra la Germania, tonificano il mercato e incrementano la domanda interna, favorendo un’uscita più rapida dalla crisi. Ricordiamo, a chi soffre di amnesia, alcuni dati che non possono essere né giustificati né tollerati. Le entrate da Irpef nel 2010 sono state garantite per il 60,6 per cento dal lavoro dipendente, per il 30,4 per cento dai pensionati, per il 9,2 per cento dai lavoratori autonomi. La distribuzione della ricchezza delle famiglie è la seguente: il 10 per cento detiene il 44,7 per cento della ricchezza totale; il 5 detiene il 32,1; l’1 detiene il 14,8; il 50 per cento detiene incredibilmente solo il 9,8 per cento.

Ancora. La ricchezza media per famiglia è così strutturata: il 10 per cento delle famiglie ha una ricchezza media di 1,6 miliardi di euro; il 5 ha una ricchezza media di 2,3 miliardi di euro; l’1 detiene una ricchezza media di 5,3 miliardi; il 50 per cento delle famiglie detiene invece una ricchezza media di 69.670 euro. «Persecuzioni fiscali: alt. Parola di Tremonti», titolava il quotidiano Libero a tutta pagina. Che dire? È una beffa per i lavoratori dipendenti e per i pensionati che concorrono in modo grande, insopportabilmente troppo grande, al gettito fiscale italiano. Se non si agisce, se non si reagisce, non c’è futuro per il Paese.

Concludendo, se si mette a confronto l’Italia con l’Europa sui principali obiettivi da qui al 2020, il distacco è destinato a crescere. Nel 2020 il tasso di occupazione sarà in Italia del 67 per cento, in Europa del 75 per cento; la spesa per ricerca l’1,53, in Europa il 3; l’istruzione terziaria il 26, in Europa il 40; gli abbandoni scolastici il 15 per cento, in Europa il 10 per cento; l’efficienza energetica il 13,4, in Europa il 20; le energie rinnovabili il 17 per cento, in Europa il 20 per cento; le persone a rischio di povertà scenderanno da 15 a 13 milioni, in Europa da 120 a 100 milioni.

Non c’è alternativa. L’unica leva che non è stata azionata è quella fiscale. È stato ed è un errore che frena lo sviluppo e disarticola, frammentandola, la coesione del Paese. Non possiamo vivere aspettando il mitico Godot. Occorre accettare la sfida, non subirla. La politica della lesina è insopportabile. Affamare le imprese è sbagliato. Aumentare le tasse sui pensionati e sui lavoratori dipendenti è autolesionismo. La vera frustata all’economia è ridurre le tasse e attenuare il peso della burocrazia per riequilibrare il carico fiscale.

Tags: Giorgio Benvenuto Giugno 2011

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