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La nuova guerra e gli attacchi «qua e là», non carenza di strategia, ma strategia stessa

Generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa già Capo di Stato Maggiore  dell’Aeronautica

La nuova guerra, scatenatasi il 13 novembre scorso dopo i sette attentati compiuti a Parigi da affiliati al cosiddetto «Stato islamico», ha avuto una lunga incubazione che parte dal 1979, anno della costituzione della Repubblica islamica a Teheran. La fondazione di uno Stato islamico di confessione sciita, nella più strategica area regionale sotto il profilo economico ed energetico del Golfo Persico, riaccese la sanguinosa rivalità fra le due principali correnti religiose dell’Islam, sciiti e sunniti, entrata in fase di quiescenza nell’VIII secolo dopo l’eccidio di Karbala (nel 680) e dopo l’occultamento (nel 765) del VII Imam sciita a causa dell’esportazione della rivoluzione islamica iraniana verso i gruppi sciiti presenti nell’area. (Il decennio 1979-1988 è caratterizzato da un lato dalla propaganda iraniana finalizzata all’esportazione della rivoluzione, soprattutto in direzione dell’area afghana-pakistana e delle repubbliche sovietiche con consistente popolazione mussulmana e, dall’altra, dall’invasione sovietica dell’Afghanistan, che suscitò l’immediata reazione degli Afghani con la costituzione di una miriade di gruppi guerriglieri, i «mujaheddin», nonché degli Stati Uniti e dei suoi alleati - Arabia Saudita e Pakistan - per arginarne l’ulteriore espansione).
Mentre gli Stati Uniti erano prevalentemente proiettati ad alimentare una guerriglia in grande stile contro le truppe sovietiche in Afghanistan, l’Arabia Saudita e il Pakistan erano anche intenzionate a contrastare la penetrazione sciita sia nell’etnia Hazara dell’Afghanistan, sia quella presente in Pakistan e negli altri Paesi del Golfo (Iraq, Kuwait, Emirati, Yemen, ecc.), attivando le scuole coraniche (madrasa) per acculturare i giovani con le dottrine wahabita e salafita. Pertanto, a partire dalla seconda metà del 1984, il governo militare pakistano del generale Zia-ul-Haq, per timore di un’ulteriore escalation sovietica verso i suoi confini, decise di appoggiare la guerriglia afghana formando unità organizzate, denominate «reggimenti islamici», composte da giovani provvisti di un iniziale addestramento militare fornito loro nei campi pakistani.
In tale contesto il Pakistan divenne il «santuario» della guerriglia, dove furono radunati proseliti e rifornimenti per i guerriglieri, ponendoli fuori dall’area di operazioni dei sovietici. Infatti, il controllo materiale dei fondi e delle armi destinate alla guerriglia nonché le principali rotte di rifornimento usate per approvvigionare i mujaheddin partivano dal territorio pakistano. Il Paese non fornì solo armi ed equipaggiamenti militari ma anche un proprio contributo in termini di addestramento degli insorti e di distribuzione dell’assistenza finanziaria proveniente soprattutto da Arabia Saudita e Usa. Fin dal 1978 all’ISI, il servizio segreto pakistano, fu affidato in sostanza dalla CIA l’incarico di gestire di fatto l’addestramento dei guerriglieri e i rifornimenti di armi e denaro.
L’ISI, molto abile, svolse egregiamente tale incarico, e tra il 1983 e il 1992 addestrò, rinviandoli nel Paese natio, circa ottanta mila afghani, reclutati nei vari campi profughi pakistani. Inoltre favorì, nei rifornimenti e nei finanziamenti, i gruppi di mujaheddin più graditi al proprio Governo, come Hezb-e Islami Gulbuddin, ossia il Partito islamico di Gulbuddin (noto con l’acronimo di Hig), guidato da Gulbuddin Hekmatyar perché non interessato alle diatribe sui confini fra i due Paesi, penalizzando i movimenti ritenuti contrari agli interessi pakistani, come la Jamiat-i Islami, cioè la Società islamica (Jia) di Burhanuddin Rabbani in cui militava anche Ahmad Massud meglio conosciuto come leone del Panshir, ucciso in circostanze rimaste misteriose il 9 settembre del 2001.
L’Arabia Saudita, principale finanziatore dei mujaheddin, fu anche coinvolta, con il proprio servizio segreto (Al-Mukhabarat al-’Amma) nell’indottrinamento al wahabismo e nell’addestramento di combattenti volontari - provenienti da tutto il mondo islamico e stimati intorno alle 20 mila unità - che inizialmente giocarono un ruolo marginale nel conflitto contro i sovietici perché ritenuti poco affidabili. Per il loro controllo fu costituita a Peshawar, nel 1984, sotto la direzione dell’ISI, la Maktab al-Khidamat - Ufficio Servizi (Mak) -, una struttura di copertura guidata dall’attivista palestinese Abd Allah al-Azzam e finanziata dal miliardario saudita Osama bin Laden, gestito dall’apparato di sicurezza saudita. L’organizzazione istituì campi d’addestramento in territorio pakistano, ebbe accesso ai fondi per la guerriglia tramite l’ISI e fu poi impiegata da Bin Laden per costituire, sul finire degli anni Ottanta, il proprio gruppo - al-Qa’ida - che innescò la propaganda dell’idea di califfato universale.
Secondo l’ideologia jihadista, il califfato universale deve essere ricostituito attraverso il jihad, iniziando con la realizzazione di califfati in varie aree regionali, di modo che diventino poli di attrazione per i Paesi confinanti: idea originata dall’ideologo di al Qaeda, Abdullah Azzam, e, dopo la sua morte, proseguita da Osama Bin Laden. Ritenere che l’ambizioso disegno califfale dell’attuale IS sia frutto dello spontaneismo ribelle di persone in stato di grave indigenza che combattono per la loro sopravvivenza sarebbe sciocco: nell’Intelligence nulla è come appare, atteso che, dopo la cacciata dei sovietici dall’Afghanistan, Al Qaeda ha costituito proprie diramazioni regionali in varie aree (Iraq, Maghreb e Yemen) e che l’Aqi, cioè l’Al Qaeda in Iraq, diretta dal sanguinario Abu Musab al Zarqawi, è la sua diretta genitrice. Basti pensare che il Califfato è stato proclamato il 29 giugno 2014, appena un mese e 10 giorni prima che la stampa rendesse ufficialmente di dominio pubblico che l’accordo raggiunto a Ginevra (nel novembre 2013) sul nucleare iraniano - valido fino al luglio 2014 - sarebbe stato esteso fino al successivo 24 novembre.
Le concatenazioni temporali inducono a ritenere che l’occupazione di territorio siro-irakeno da parte del Califfato sia stato tracciato da regie occulte che hanno inteso rivolgere, in direzione dell’atavico rivale iraniano, una tenaglia strategica per ridimensionarne le ambizioni. Circolano infatti in questi giorni notizie  su giornali e web secondo le quali l’ex ministro degli esteri saudita - il defunto principe Saud al Faisal - nell’estate del 2014 avrebbe detto al segretario di Stato Usa John Kerry: «Daesh è la nostra risposta sunnita al vostro appoggio in Iraq agli sciiti dopo la caduta di Saddam». Per questo l’IS, anche se non dispone di contiguità territoriale, impiega i propri proclami propagandistici e la costituzione di nuove vilaya per realizzare uno stretto legame di sottomissione con i nuovi affiliati, imponendo loro il giuramento, la cosiddetta «bay’a» che recita: «Nel nome di Dio clemente e misericordioso, giuriamo la nostra fedeltà all’Emiro dei Credenti e Califfo dei Mussulmani, Ibrahim Ibn Awad al Quraishy al Baghdadi».
Gli editti propagandistici del cosiddetto Stato islamico e la sua propaganda attraverso le riviste ed il web sono in perfetta consonanza con il programma già enunciato nel settembre del 2013 da al Zawahiri, neo leader di Al Qaeda, che invitava i giovani a compiere attacchi «qua e là», prevalentemente interpretato come carenza di strategia di quella organizzazione, ormai alla fine. In verità le esortazioni del nuovo leader costituivano uno scaltro cambiamento strategico, che trasferiva la conflittualità terroristica all’interno dei Paesi occidentali, facendo leva sulla terza e quarta generazione degli immigrati mussulmani in Europa e negli Usa, specie se disoccupati, emarginati e frustrati, strategia ora abilmente sfruttata da Daesh.
Infatti i giovani mussulmani, nati e cresciuti nel mondo occidentale, di cui conoscono bene lingua e cultura - si sono posti alla ricerca delle proprie tradizioni religiose, finendo nella trappola jihadista, unitamente a quella gioventù occidentale che si trova nelle medesime condizioni di emarginazione e sottosviluppo, dando luogo al fenomeno dei «foreign fighter», cioè i combattenti stranieri. In pratica, sono diventati militanti europei (o occidentali) che combattono all’estero tra le fila di milizie che usano metodi terroristici in conflitti non convenzionali, come in Siria, mossi da un forte senso di rivalsa verso le istituzioni occidentali sulle quali riversano i loro sentimenti di insoddisfazione e di frustrazione per le condizioni sociali ed economiche in cui versano.
Ancora una volta, dopo gli attentati di Parigi, sono state riversate pesantissime critiche sull’Intelligence, addossandole responsabilità che non ha, perché ha individuato e tenuto sotto controllo i terroristi ma non poteva né può - in un regime democratico - compiere un processo alle intenzioni e spingere le Forze di Polizia a «privarli» della libertà personale. Per questo, la legge n. 801 del 1977, con la quale furono riformati i Servizi di sicurezza italiani, privò gli appartenenti alle forze dell’Ordine in essi operanti della qualifica di ufficiali o agenti di polizia giudiziaria che prima rivestivano. Inoltre l’imprevedibilità dell’azione terroristica e la moltitudine degli obiettivi che possono essere colpiti, sono i fattori di potenza su cui contano i jihadisti, difficilmente prevedibili dall’Intelligence, anche attraverso l’impiego dell’infiltrato, come avvenuto in Francia con il caso Merah (marzo 2012) e Charlie Hebdo (gennaio 2015), o ponendo forze dell’Ordine e militari a tutela di quelli ritenuti più importanti.
Infine, pensare di controllare il territorio e le comunicazioni con massiccio impiego di strumentazioni elettroniche, senza l’impiego di personale qualificato capace di impiegarli in funzione dei diversi ambienti culturali presenti nel territorio nazionale è utopistico. Occorre coniugare l’impiego dei mezzi elettronici con personale che conosca i principi della Humint (Human Intelligence) e della psicologia etnica (Wet Wear), in modo da percepire in anticipo la minaccia che i terroristi stanno programmando.
In sostanza, il contrasto al terrorismo jihadista - così come nel tempo è venuto a delinearsi nelle proprie caratteristiche di imprevedibilità, sfuggevolezza e difficile individuazione - richiede la preminenza del fattore umano (Humint) sostenuto, senza soluzione di continuità, dalla componente tecnologica, in particolare della Sigint, la Signals Intelligence, corrispondente spionaggio di segnali elettromagnetici. Alla luce dell’attuale evoluzione, assume notevole importanza soprattutto l’attività informativa, sostenuta da una cultura più approfondita dello specifico fenomeno. Questo richiede il coinvolgimento di altre figure, oltre agli operatori di polizia, che contribuiscano all’individuazione di tutti i possibili segnali del processo di radicalizzazione che, una volta completato, potrebbero evolversi in attività terroristiche.
Sinteticamente, tra le strutture e le figure maggiormente idonee vi potrebbero essere le seguenti: la polizia locale, quale recettore di segnali potenzialmente provenienti dalle fonti più disparate e che possono costituire indicatori di fenomeni di radicalizzazione e di attività preparatorie di attentati terroristici; i soggetti che quotidianamente entrano in contatto con le comunità islamiche: medici di base, docenti, addetti ad uffici che si occupano di erogazione di servizi agli immigrati, ecc. In questa prospettiva, diventa centrale l’aspetto di reclutamento del personale di intelligence, in relazione soprattutto a bacini e procedure di selezione, qualità relazionali e psicologiche, abilità, competenze e conoscenze.
In definitiva, per combattere questa nuova guerra sono necessari il rafforzamento e la difesa dei pilastri dettati dal Logos (la Ragione), cioè la nostra cultura occidentale alla quale non si deve affatto abdicare ma che occorre saper coniugare con altre istanze culturali, rispondendo anche con operazioni psicologiche alla cultura della morte dei terroristi (nel 2004 individuata con la seguente scritta sui muri nell’attentato nella metropolitana di Madrid: «Voi amate la vita, noi amiamo la morte»). Occorre combatterla con le uniche armi che ha la democrazia indicate dal sottosegretario con delega ai Servizi Segreti Marco Minniti, che ha attribuito a tutti i cittadini l’importante ruolo di «difesa democratica» del Paese. L’esponente politico ha sostenuto che qualunque cittadino italiano - credente o non credente, cristiano o mussulmano - che si accorga di qualcosa di anomalo a scuola, all’università o nel proprio condominio è bene che lo segnali alle Autorità.
Segnalazioni apparentemente inconsistenti ma che potrebbero risultare utilissime: in democrazia la «vigilanza attiva, attenta e continua» è l’unica arma che aiuta a prevenire la sorpresa e l’imprevedibilità degli obiettivi su cui conta il terrorismo. Non si tratta di instaurare un «regime da Stasi» ma di difendere la libertà e la sicurezza che ciascuno di noi ha costruito con grandi sacrifici. Nel quadro della Sicurezza Nazionale, quanto sopra delineato si integra pienamente nell’attività di prevenzione che si sviluppa nell’ambito del Comitato di analisi strategica antiterrorismo (Casa), il tavolo permanente presieduto dal direttore centrale della Polizia di Prevenzione  nel cui ambito vengono condivise e valutate le informazioni sulla minaccia terroristica interna e internazionale. Vi prendono parte le forze di polizia (Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri),  Agenzie di intelligence Aise ed Aisi, Guardia di Finanza e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, convocati all’occorrenza.
La duttilità e la snellezza dei metodi di lavoro e la costante attività di consultazione e raccordo tra le varie componenti consentono al Comitato un’approfondita e tempestiva valutazione delle notizie, diretta ad attivare le necessarie misure di prevenzione e contrasto. Tale Comitato, originato dall’idea del prefetto Carlo De Stefano, allora capo dell’Ucigos ed attuale vicepresidente della Fondazione ICSA, tenne la prima riunione all’indomani della strage di Nassiriya del 12 novembre 2003, con costituzione e composizione formalizzata il 6 maggio 2004.
L’attività ha registrato un crescendo che ha consentito di individuare e prevenire varie situazioni a rischio tanto da proporne l’adozione in sede comunitaria. E ciò fa ben sperare. Nel mondo sciita nell’anno 765, dopo la morte dell’Imam Jafar al-Sadiq, vi fu una scissione a causa della morte del figlio-erede designato Ismail e della successiva designazione di suo fratello Musa al Kazim. Una parte dei seguaci di Ismail - per questo chiamati Ismailiti - affermò tuttavia che egli non era morto ma che era entrato in «occultamento» per tornare alla fine dei tempi come Mahdi e restaurare il puro Islam delle origini, dichiarando esaurita la successione degli Imam al settimo (Ismail Bin Jafar al-Sadiq) e per questo furono anche chiamati «settimani».    

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