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PETROLIO: E QUANDO ARRIVERÀ A 200 DOLLARI AL BARILE?

Che succederà quando il prezzo del petrolio arriverà a 200 dollari al barile? L’interrogativo se lo sono posti all’inizio di giugno nei colloqui riservati gli analisti della Goldman Sachs, visto l’andamento delle quotazioni da due anni a questa parte che hanno di gran lunga superato le peggiori previsioni. Agli esperti sembrava una ipotesi accademica più che una possibilità effettiva. Nell’ottobre 2005 il quotidiano di Beirut Daily Star calcolava che con il prezzo ormai arrivato a 50 dollari al barile le sei monarchie della penisola arabica che aderivano al Gulf Cooperation Council avrebbero ricavato oltre 265 miliardi di dollari oltre il previsto. Poi 80 dollari. La soglia dei 100 dollari è stata toccata il 2 gennaio scorso aprendo un’imprevedibile epoca al rialzo ininterrotto che ha travolto i listini e l’agenda politica mondiale e ha cancellato il tema del cambiamento climatico, di cui si era tanto discusso fino a quel giorno, dal primo posto del dibattito quotidiano sostituendolo con la sicurezza delle fonti energetiche. Il 10 giugno la risposta è arrivata dal direttore generale del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strass-Khan: «È possibile che a 200 dollari si arrivi entro fine anno». Un ottimismo di facciata perché poco dopo Alexei Miller, numero uno della russa Gazprom, ha dato l’ultimo colpo al pessimismo del mondo occidentale, bersaglio della continua corsa al rialzo del barile: «Il prezzo del barile arriverà a livelli mai pensati. La prospettiva è di 250 dollari nell’immediato futuro», cioè, come ha poi specificato, entro il 2009.

D’improvviso è stata presa coscienza della presenza dei nuovi, importanti, protagonisti sul mercato del petrolio, decisi a conquistare forti posizioni di predominio nel mercato del petrolio per ragioni di politica interna e internazionale, sconvolgendo i già precari equilibri tra i 14 tradizionali Paesi dell’area araba, mediorientale, asiatica, africana e sudamericana associati nell’Opec, Organization of the Petroleum Exporting Countries, che insieme controllano il 78 per cento delle riserve mondiali accertate di petrolio e il 50 per cento di gas naturale, e forniscono circa il 42 per cento di petrolio e il 17 per cento di gas ricavandone un fiume di denaro destinato, in gran parte, ad acquistare armi, aerei e navi da combattimento oppure, come gli sceicchi, a fare incetta di banche, grandi negozi, alberghi di lusso, acciaierie e fabbriche con marchi storici soprattutto inglesi.

Il 45 per cento delle esportazioni Opec è destinato all’Oceania, il 21,8 per cento all’Europa occidentale e il 21,5 per cento al Nord America. Tra i Paesi importatori il più importante è il Giappone con il 26,1 per cento, seguito dagli Usa con il 19,2 e dall’Italia con il 5,4 per cento. Nel 1968 è nata l’OAPEC, Organization of Arab Petroleuom Exporting Countries, con l’obiettivo dichiarato di coordinare le politiche energetiche dei Paesi arabi teoricamente ai fini del loro sviluppo e in pratica per l’impiego delle esportazioni come arma di pressione. Sono soltanto sei i grandi Paesi produttori che non hanno aderito all’Opec: Canada, Messico, Usa, Oman in Medio Oriente, Russia in Asia e Norvegia in Europa.

Tra i nuovi protagonisti del mercato in grado di condizionare quantitativi e costi, sebbene deboli come produttori ma forti acquirenti con la capacità di sconvolgere le tradizionali regole del mercato, c’è la Cina anzitutto, diretto concorrente del mondo occidentale, sospinta dalla voglia di crescere e grandissimo consumatore; il Kazakhstan, che tende ad acquisire il ruolo di arbitro degli equilibri dell’Asia centrale nei rapporti con l’Europa con l’opposizione della Russia; la Turchia, al centro delle nuove rotte del gas russo verso i clienti europei.
Infine la Russia di Dmitry Medvedev, dedita al proseguimento della decisa politica di supremazia dettata da Vladimir Putin, contrastando l’Occidente non più con i missili ma con la nuova arma del gas e del petrolio: entro 8 anni l’inesauribile riserva di gas, soprattutto dei giganteschi campi dello Shtokman nella Siberia del Nord ancora non completamente esplorati, oltre a quelli dell’Artico ancora intatti, faranno della Gazprom la prima società al mondo per capitalizzazione, con la previsione di raddoppiare entro il 2020 la produzione di petrolio.

E per accelerare la supremazia economica insieme a quella politica, Medvedev ha avviato l’acquisizione totale del consorzio anglo-russo Tnk-Bp, escludendo Bp. I 100 dollari al barile hanno segnato l’inizio di una guerra fino a quel momento imprevedibile dei mercati di produzione e di consumo, sostituendo il mondo unipolare delle storiche Sette Sorelle, grandi produttrici e dominatrici del mercato mondiale e monopolio di fatto sotto la tutela della bandiera americana, con un multipolarismo degli interessi nazionali dei nuovi produttori. Mentre l’Occidente comincia adesso a pagare le conseguenze dei troppi anni di quasi monopolio con benzina a basso costo, facile da estrarre e durante i quali non sono state fatte esplorazioni né investimenti, altri Paesi hanno acquisito tecnologie, esperienza e determinazione, come l’Arabia Saudita pronta ad investire 129 miliardi di dollari in progetti di sfruttamento di nuovi campi, o come il Brasile che ha annunciato la scoperta da parte della Petrobras nel bacino Santos di un giacimento a 7 mila metri di profondità con un potenziale di 33 miliardi di barili.

In Congo l’amministratore delegato dell’Eni ha firmato un accordo con il Governo per lo sfruttamento delle sabbie bituminose in un’area di 1.790 chilometri quadrati. La guerra del petrolio si comincia a combattere anche nella ricerca di nuove possibilità di approvvigionamento, a profondità maggiori, superando difficoltà finora trascurate per i prezzi troppo bassi. È la possibilità offerta dai rialzi del barile, spinta dalla maggiore richiesta da parte di nuovi acquirenti di grandi quantitativi, con la Cina in testa per la sua posizione di secondo consumatore di energia e tutore nello stesso tempo dei Paesi emergenti di Africa e Sud America.

Per mantenere questa posizione, secondo un rapporto del Pentagono, il Governo di Pechino avrebbe avviato la costruzione di cinque nuovi sottomarini nucleari intercontinentali dotati di missili balistici; mentre la Russia di Putin cerca di mantenerla, grazie alla propria disponibilità di gas e di petrolio, attuando una politica di penetrazione verso l’Europa ed avendo la Germania e l’Italia come partner privilegiati attraverso Basf, E.On ed Eni, interessate a collaborare nei progetti del Nord Stream e del South Stream per il trasporto del gas naturale russo. La Russia è uno dei nostri fornitori privilegiati, preferito in via particolare dall’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni. Disposto ad alleanze strategiche con i Paesi produttori, seguendo la tradizionale politica del creatore dell’Eni Enrico Mattei, Scaroni punta alla produzione di due milioni di barili di petrolio al giorno e ad assicurarsi almeno il 90 per cento delle riserve.

Un accordo con la Tullow Oil Limited per l’acquisizione in Gran Bretagna del 52 per cento dei giacimenti del Mare del Nord con il terminale off shore di Hewett Unit da usare per lo stoccaggio del gas, e tra breve la firma con il Governo del Kazakhstan per il giacimento di Kashagan conteso da tempo da Exxon, hanno accompagnato la conferma di Scaroni alla guida dell’Eni che, per il 2007 ha distribuito ai soci, e in prima linea allo Stato, 5,3 miliardi di euro, quasi l’intero cash-flow disponibile.
È stata anche avviata la produzione del giacimento off shore di Oguruk, nel nord dell’Alaska, che ha riserve recuperabili stimate in 90 milioni di barili e un picco di produzione giornaliera di 20 mila barili di olio. E pochi giorni prima era stata acquisita la belga Distrigas, che rafforza il primato europeo dell’Eni nel settore dandogli maggiore capacità contrattuale nei confronti della Gazprom, impegnata nella propria politica di accumulo di valuta. Una linea che ha fruttato a Mosca, dal 1999, riserve in oro e monete forti per 425 miliardi di dollari e la creazione di un fondo di stabilizzazione di 150 miliardi di dollari, oltre a decuplicare il budget federale rispetto al 1999.
«È un futuro di sfide eccezionali ma anche di opportunità per dimostrare le capacità di leadership» ha detto Klaus Schwab aprendo il 23 gennaio scorso a Davos l’annuale sessione del World Economic Forum dedicato ai rischi 2008. Mentre in quei giorni i Paesi produttori celebravano un’inattesa prosperità con il maggior introito di 77 miliardi di dollari nell’anno appena concluso, la produzione arrivava ai massimi livelli, portando la previsione dei consumi dagli 87 miliardi di barili l’anno ai 110 entro un decennio.

Ma con la produzione crescono in misura maggiore i consumi dei Paesi emergenti, Cina e India soprattutto, provocando nella prima settimana di giugno un aumento di oltre 10 dollari in poche ore, sfiorando i 140 grazie anche alla debolezza della moneta americana quotata 1,5738, con la possibilità di arrivare rapidamente a 150 dollari a barile. Un analista della Morgan Stanley si è spinto ad indicare il 4 luglio come data possibile per questo prezzo. Più dei listini, in questa fase della guerra del barile sono significativi i movimenti nelle piccole compagnie americane come la storica Hunt Petroleuom Corporation del Texas, ceduta per 2,6 miliardi di dollari in contanti.
O come le forti polemiche interne tra la famiglia Rockefeller e la ExxonMobil, la più grande impresa privata del mondo per capitalizzazione di borsa. Neva Rockefeller Goodwin, pronipote di colui che nel 1870 aveva fondato da Standard Oil poi divenuta Exxon in seguito al primo provvedimento antitrust, sebbene oggi sia solo un piccolo azionista ha affermato, dopo un trimestre sotto tono, di voler «impedire a un gigante di cadere facendolo tornare alla visione imprenditoriale e tesa al futuro del bisnonno» attraverso consistenti investimenti nelle fonti energetiche rinnovabili.

In che mondo vivremo con i livelli crescenti dei costi dei carburanti e dell’energia? Come cambieranno abitudini e consumi degli abitanti del mondo occidentale, i più esposti a questa autentica esplosione del costo del fondamentale ingrediente della vita moderna? I cambiamenti dovranno essere molti e profondi, come è già avvenuto durante l’ultima guerra, dall’illuminazione ai trasporti, dall’alimentazione ai viaggi, dal lavoro all’abbigliamento alle vacanze; e non è facile prevedere e capire come tutto ciò avverrà e con quali conseguenze per i Paesi occidentali, per le famiglie, per gli individui, poiché di guerra si tratta anche se incruenta e senza il rombo dei bombardieri e dei cannoni.
Negli Stati Uniti, precursori abituali delle misure attuate successivamente in Europa e poi in Italia, diminuiscono le vendite dei potenti suv, forti consumatori di carburante; la General Motor denuncia un terzo di vendite in meno nell’ultimo anno nel segmento degli autocarri light trucks mentre l’amministratore delegato Richard Wagoner ha tentato di tranquillizzare gli azionisti spiegando di essere pronto a recuperare il terreno perduto nelle auto «verdi» con motore alimentato da biocarburanti, e di poter mettere sul mercato l’auto elettrica Volt nel 2010; la Ford ha tolto dalla produzione la linea del pick up serie F, suo maggiore successo degli ultimi venti anni.
In un convegno alla Fed di Boston, Ben Bernanke ha aperto una seconda fase della lotta all’inflazione dopo il rialzo dei tassi per evitare un aumento dei prezzi delle materie prime, soprattutto degli alimentari, invitando tutti a un maggiore rigore nei riguardi dell’inflazione.

In Italia non diminuisce la circolazione di auto di grande cilindrata ma cominciano le offerte di viaggi a risparmio energetico, senza il pieno di benzina o di diesel. Una settimana nell’alta Marsica abruzzese sarà la vacanza per gli italiani in vena di risparmi. La zona dominata dal Monte Velino è sconosciuta, malgrado la bellezza di boschi e radure, picchi di montagna, chiese romaniche e siti archeologici, con un antico mezzo di trasporto: gli asini dell’Appennino. Usato da appassionati turisti francesi in memoria del viaggio compiuto a dorso d’asino da Robert Louis Stevenson in gioventù nel Massiccio Centrale francese, oggi lo propone l’associazione Boscaglia creata da Luca Gianotti con itinerari in Emilia-Romagna, Toscana, Abruzzo e Calabria, e con un insperato successo. L’asino è robusto, mansueto, prudente e soprattutto si alimenta da sé, pascolando nelle soste, senza le quote di tasse per la guerra d’Abissinia o l’alluvione di Firenze sul carburante: per ciascuno degli attuali 1,56 euro per un litro di benzina o gasolio, si pagano ben nove diverse accise, come in termine tecnico si chiamano quei tributi indiretti che colpiscono la produzione o la vendita di determinati prodotti, come gli alcolici o lo zucchero, e in questo casi i carburanti, accollate al consumatore attraverso il prezzo di vendita.
La prima delle nove accise risale al 1935: erano 1,90 lire per finanziare la guerra d’Abissinia. Nel 1956 vennero aggiunte 14 lire per ammortizzare la crisi di Suez; 10 lire nel 1963 per finanziare la ricostruzione di Longarone, il paese distrutto nel disastro del Vajont; tre anni dopo altre 10 lire per l’alluvione di Firenze. Poi il terremoto del 1968 che distrusse il Belice, altre 10 lire; e 75 lire nel 1980 per i terremoti nel Friuli e in Irpinia. E ancora: 205 lire per finanziare la missione di pace in Libano nel 1983 e 22 lire nel 1996 per la missione in Bosnia.

Infine 0,020 euro per il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri nel 2004, con un totale di accise che ammonta a 0,564 euro, al quale va aggiunta l’Iva di 0,246 euro portando la tassazione al 60 per cento del prezzo per motivazioni ormai fuori del tempo, veri reperti di epoche e vicende lontane che anche alcuni sindaci di Comuni delle aree terremotate hanno contestato annunciando una lettera al presidente del Consiglio per chiedere di chiarire quale destinazione abbia oggi quel 38 per cento versato dagli automobilisti italiani.
In realtà oggi il Fisco fa riferimento negli atti a una unica accisa, composta dalla somma delle nove applicate nel tempo e mai abolite, neppure una volta cessato il loro scopo. Quando si verificherà la previsione del petrolio oltre i 200 euro al barile previsti da Goldman Sachs e annunciati da Miller, gli effetti sull’economia mondiale saranno più pesanti di oggi e più clamorose le proteste degli autotrasportatori spagnoli, francesi, portoghesi, inglesi, bulgari e italiani, o lo sciopero dei pescatori, costringendoci tutti a un profondo cambiamento di stile di vita.

Saranno lontani gli anni in cui negli Stati Uniti il carburante non aumentava di prezzo da 17 anni ed era considerato meno costoso dell’acqua. Ora che ha raggiunto i quattro dollari al gallone, pari a 3,8 litri, è un bene di pregio da offrire a chi prenota tre notti di albergo fuori stagione con un buono carburante del valore di 50 dollari. Nel Minnesota la TCF Bank lo propone a chi apre un nuovo conto corrente. Una carta carburanti del valore dai 500 ai 3.000 dollari è offerta ai donatori di sangue dalla Northern Ohio Blood Service Region. È dal tempo della seconda guerra mondiale che non si ricorda una simile crisi dei prezzi del combustibile, vicinissima al picco del 4,5 per cento del reddito raggiunto nel 1981, ma tornato al livello medio dell’1,9 rapidamente. A risentire della situazione non sono solo gli abitanti delle aree rurali meno collegate del sud degli Usa, dove il fuoristrada o il pick-up sono indispensabili mezzi di collegamento e trasporto. Wall Street è tornata a vivere giornate nere, oltre al crollo delle quotazioni, per altre notizie preoccupanti come quelle riguardante la richiesta di nuova capitalizzazione della Lehman Brothers per 2,8 miliardi di dollari, dovendo coprire le perdite del secondo trimestre del 2008; o l’autentica rivolta dei maggiori azionisti del gigante assicurativo AIG, ora sotto controllo della SEC, la Consob americana, per la perdita di 50 miliardi di dollari di capitalizzazione sul mercato.

Sono solo alcune delle turbolenze nel mondo finanziario ed economico americano causate o aggravate dal caro petrolio, e che si ripercuotono pesantemente sulla quotidianità di famiglie e piccole imprese. Le prime a risentire della situazione sono le compagnie aeree minori, dedicate al trasporto locale, per le quali il carburante incide in percentuale maggiore sui costi totali al punto che venti di esse negli ultimi mesi hanno sospeso i voli. Ma le difficoltà sono generali nel campo del trasporto aereo.
Secondo una stima dell’Air Transport Association, a 130 dollari al barile la perdita annua del trasporto aereo a livello mondiale potrà raggiungere i 6 miliardi di dollari, con un sensibile ridimensionamento del settore. «È un segnale coerente del rallentamento della crescita economica», ha detto Gorge W. Bush, ormai vicino alla scadenza del mandato presidenziale e attento ad evitare di pronunciare la parola recessione, commentando i dati sul tasso di disoccupazione arrivato al 5,5 per cento, con l’aumento più significativo dal febbraio 1986 e un saldo negativo tra assunzioni e licenziamenti per 49 mila unità, che ha portato al sacrificio complessivo di 324 mila posti di lavoro.

Venerdì 6 giugno scorso le notizie da Wall Street, a fine seduta, sono state tutt’altro che confortanti, con un calo del 3,27 per cento mentre il Nasdaq registrava una perdita del 2,96, con il conseguente indebolimento del dollaro. Dati che hanno influito sulla perdita di valore delle Borse europee di 150 miliardi di euro in termini di capitalizzazione, con ribassi tra l’1,5 e il 2,5 a livello di indici generali e una maggiore penalizzazione dei titoli direttamente interessati come i bancari, i petroliferi e gli automobilistici. Non pochi analisti americani, di fronte alla situazione attuale dell’economia del mondo occidentale, ora ricordano gli anni 70 con crescita stagnante e alta inflazione, ma la crisi attuale è dovuta a un complesso di cause in parte sottovalutate e con effetti portati ad aggravarle, complicando una situazione già difficile da analizzare.

Un quadro di cui, inoltre, non sono note tutte le componenti, alcune abilmente occultate e altre solo intuite, ma rivelate da piccoli indizi concreti nel comportamento delle famiglie costrette a modificare le abitudini, abbandonando i supermercati di fascia media per il discount Wal Mart nei cui scaffali sono offerti prodotti a basso costo che provengono dalla Cina, uno dei Paesi che provocano l’aumento del barile per lo sviluppo incontrollato dei consumi e dello spreco energetico.
Con i proventi delle accresciute esportazioni, inoltre, la Cina ha acquistato in grande quantità titoli di Stato americani, arrivando a custodire nelle casseforti della banca centrale oltre mille miliardi di dollari, una parte significativa del debito pubblico americano. E qui si apre un circuito perverso impossibile da spezzare, con imprevedibili risvolti economici e politici. Un fenomeno analogo si sviluppa in India e negli altri Paesi emergenti che cominciano anch’essi ad accumulare dollari. Finché non vorranno preferire l’euro, moneta diffusa oltre l’area del continente e priva del sapore «imperialista», incrinando alla base il potere finanziario e politico degli Stati Uniti, ferendone l’orgoglio della supremazia mondiale.

Ha cominciato nelle scorse settimane il Venezuela, quando il ministro dell’Energia Rafael Ramirez ha annunciato che chiederà il pagamento in euro per i contratti di fornitura greggio. Potrà essere il primo segnale di un nuovo attacco al nemico americano minando il dollaro già indebolito dalla inconsueta perdita di valore nei confronti della moneta europea. È di un paio d’anni fa il messaggio di Bin Laden che preannunciava una quotazione di 100 dollari al barile come nuovo fronte nella guerra agli Stati Uniti. Perché escludere una qualche influenza dell’artefice della strage dell’11 settembre nel risiko della finanza mondiale?

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