Barreca & La Varra: la nostra architettura addomesticabile, verticale, verde, italiana
Quando un edificio è terminato, quando vai per l’ultima volta in cantiere e sai che la prossima volta sarà abitato, utilizzato, attraversato, ecco, quello è un inizio ma anche una fine. La fine del tuo lavoro e l’inizio del lavoro degli altri. Una nuova folla si avvicenda tra le stanze, gli uffici, gli spazi aperti. Non è più composta di architetti, avvocati, imprenditori, geologi, geometri, muratori, elettricisti, ma piuttosto di abitanti, passanti, consumatori, turisti. L’architettura è addomesticabile, quando è finita la costruzione materiale, ne inizia una seconda più imprevedibile e complessa. Con innumerevoli protagonisti e autori. Abbiamo seguito questo secondo processo attorno alle architetture e agli spazi che abbiamo progettato e realizzato con un interesse almeno pari a quello della costruzione materiale. Alla fine tutto si riduce nell’immaginare i comportamenti, nel consentire l’affezione, nel suggerire possibilità». Gianandrea Barreca (Genova, 1969) e Giovanni La Varra (Milano, 1967), dopo essere stati per quasi dieci anni soci di Stefano Boeri, con il quale hanno realizzato a Milano il Bosco Verticale premiato dal Council of Tall Buildings come «Grattacielo più bello del mondo», dal 2008 operano con una firma indipendente, Barreca & La Varra. E proprio negli ultimi anni hanno intensificato il lavoro all’estero mentre si consolidava il loro operato in Italia. Li abbiamo incontrati per conoscere come è avvenuto questo passaggio e cosa vuole dire esportare l’architettura italiana nel mondo.
Domanda. Attraverso quali canali si internazionalizza il lavoro di uno studio di architettura italiano?
Risposta. La nostra strategia di internazionalizzazione si è basata su due principi. Innanzitutto, ci siamo sempre affiancati ad importanti aziende o imprese di costruzioni italiane, così da presentarci in team e non da soli. La dimensione media di uno studio di architettura in Italia non permette grandi investimenti su nuovi mercati e tanto meno operazioni di marketing complesse. Pertanto andare all’estero per noi è spesso stato in virtù di una partnership con imprese o aziende che già operavano su quel mercato, o che avevano intenzione di farlo e, supportandole, abbiamo potuto mettere in gioco un capitale di esperienza che avevamo maturato in Italia ma che, in qualche modo, veniva richiesto e apprezzato in alcuni luoghi del mondo in forte crescita. In secondo luogo, abbiamo cercato di comprendere come articolare questo capitale di esperienza, che spesso viene visto come una risorsa ma anche facilmente frainteso: ad esempio, una tipica richiesta agli architetti italiani che lavorano all’estero è duplicare e riprodurre la qualità della città italiana in ambienti e scenari che sono, per la verità, spesso molto differenti dal paesaggio urbano nazionale. In Mongolia, in Cina, in Iran, il tema è spesso quello di un progetto che conservi ed «esporti» le caratteristiche della città e della nostra «vita in pubblico». Non sempre però si fanno i conti con il fatto che la qualità delle nostre città non è solo l’esito di una lunga consuetudine di relazioni sociali e con lo spazio, ma anche il frutto di una condizione climatica e ambientale particolarmente favorevole.
D. Quali sono le principali imprese con le quali vi siete presentati sui mercati esteri?
R. Si tratta di imprese molto diverse che spesso, a loro volta, sfruttano l’occasione dell’internazionalizzazione per ripensarsi e articolare l’offerta tecnica e commerciale. Abbiamo lavorato ad esempio con l’italiana Mandressi, che costruisce attrezzature per impianti oil&gas in Oman, oppure con un’impresa di impianti elettrici e meccanici tra le maggiori in Italia, la Termigas di Bergamo. Li abbiamo seguiti in Mongolia, dove hanno assunto un ruolo più complesso e articolato di quello che svolgono di solito in Italia: lavorando come general contractor a Ulan Bator, ci hanno coinvolto in una serie di progetti architettonici a scale molto diverse. O ancora, con la società Gala dell’ingegner Filippo Tortoriello, ormai tra le principali in Italia nel campo della fornitura di energia, e con le sue derivazioni tecniche - Gala Engineering, diretta da Luigi Colombo, e Gala China - abbiamo avviato un’operazione ambiziosa. Dal 2015, insieme anche ad altri studi professionali, abbiamo costituito un consorzio di imprese per agire nel mercato cinese. In tutti questi differenti casi, anche per le imprese alle quali ci siamo affiancati, andare all’estero è stata un’occasione per reinventarsi, precisare il loro «core business» e articolare la loro forma.
D. Iniziamo da quest’ultima vicenda. In Cina state partecipando a diverse competizioni di architettura insieme a Gala.
R. Il consorzio di imprese da oltre un anno avviato attorno a Gala ha raccolto alcuni studi di architettura e ingegneria che hanno storie ed esperienze diverse ma che, proprio per questo, costituiscono una varietà di approcci interessante che, ad ogni occasione, viene messa in gioco e articolata. Nel 2015 abbiamo vinto un importante concorso per l’estensione della città di Jinshan. Si trattava di una gara nutrita, con oltre 200 partecipanti, con alcuni studi internazionali di grande esperienza e fama. Gala Engineering e Gala China, insieme a SD Partners, hanno partecipato alla gara e, dopo aver superato diverse fasi, sono rimaste in una short list di solo 5 gruppi. Quest’ultima fase prevedeva di approfondire la proposta architettonica che, fino ad allora, era rimasta a livello di masterplan. Ed è in questa fase che Gala ha convocato alcuni studi di architettura italiani con l’idea di dare luogo a un «paesaggio urbano» che avesse le caratteristiche di varietà e molteplicità tipiche delle nostre città. Tra gli altri, sono stati coinvolti lo studio PAN per il disegno del paesaggio e degli spazi aperti, Systematica per la mobilità e, oltre a noi, gli studi Scacchetti, Beretta, ARW e Gnudi per gli approfondimenti architettonici. L’ampliamento richiesto prevedeva un’area di progetto di oltre 700 ettari, con una serie di nuovi quartieri destinati a orientare la città verso il mare, inaugurando una nuova fase di sviluppo di quella che è una delle tante città siderurgiche cinesi. La nuova Jinshan è destinata al turismo, all’intrattenimento, all’ospitalità e alla cultura. Con la stazione dell’alta velocità e una linea diretta da Shanghai, Jinshan intende sfruttare le nuove condizioni di alta accessibilità come un’opportunità per ripensare la propria identità futura. Il progetto proposto - per il quale abbiamo scelto un titolo evocativo, «La dolce vita» - basa la sua forza proprio su questo carattere molteplice, sulla varietà, garantita dalle diverse «firme», che evidentemente è stata percepita come un valore. Adesso, dopo l’aggiudicazione del concorso, stiamo partendo con alcuni studi di approfondimento. Si tratta di un processo lungo e, probabilmente, anche pieno di incertezze ma siamo fiduciosi di poter salvaguardare il carattere articolato della nostra proposta nelle fasi successive di sviluppo del disegno architettonico.
D. E per quanto riguarda l’Oman?
R. In Oman stiamo ultimando la costruzione di un edificio per uffici. The Office, questo il nome del progetto, è un immobile per uffici all’interno di un’area di sviluppo della capitale Muscat e misura circa 12 mila metri quadrati. È caratterizzato da una corte «all’ italiana» e da una facciata principale su strada che ha una forte caratterizzazione urbana. Quest’ultima è in pietra e si presenta con un linguaggio architettonico contemporaneo anche se nel colore riprende le caratteristiche cromatiche tradizionali di Muscat. La corte - oltre a richiamare la tradizione del «palazzo» italiano - ha anche una valenza ambientale; costituisce infatti un dispositivo di ombreggiatura che contribuisce al controllo climatico dell’intero edificio e, inoltre, essendo l’edificio destinato a ospitare una comunità di aziende differenti, crea uno spazio collettivo aperto a tutti. Abbiamo cercato in sostanza di portare un po’ del carattere «informale» dell’architettura italiana in un tipico edificio contemporaneo per uffici. Nel 2012, alla festa di inaugurazione del cantiere, abbiamo avuto una prova tangibile di un mercato molto più vivace di quello italiano. In tale occasione, infatti, sono stati siglati contratti di affitto per circa il 70 per cento dell’edificio: qualcosa del genere succedeva anche nel nostro Paese un tempo. La costruzione sarà ultimata fra circa un mese: si tratta di un edificio relativamente contenuto ma Muscat, diversamente dalle altre capitali del Golfo e della penisola arabica, ha dato luogo a una politica immobiliare prudente, caratterizzata da interventi di grana fine, non così spettacolari e «muscolari» come a Dubai. Per certi versi, potrebbe rivelarsi una strategia intelligente a lungo termine.
D. Cos’è che piace della città italiana all’estero?
R. La città italiana è ancora un modello per tutto il mondo. Lo spazio urbano vivace, le condizioni climatiche che facilitano un mix tra vita all’aperto e vita nell’interno, la qualità dello spazio pubblico come spazio di incontro e di relazione, la capacità di mediare con gli elementi del paesaggio. Tutto ciò costituisce un modello che alcune nuove culture urbane considerano attentamente. Non era mai successo che le città del mondo crescessero a un ritmo tanto vertiginoso senza avere modelli urbani di riferimento. La nostra cultura urbana colma un vuoto, quando riesce a imporsi e a far valere le proprie prerogative. Ma non è solo la città tradizionale a essere presa come modello. Il caso del Bosco Verticale milanese, ad esempio, è spesso osservato con attenzione. In tutto il mondo si sta provando a immaginare come integrare costruzioni e elementi naturali e questo è stato forse uno dei primi edifici che l’ha fatto sistematicamente e su grande scala, componendo in due grattacieli a torre 144 appartamenti e 800 alberi di circa 90 specie differenti.
D. E invece, il panorama della committenza in Italia come sta cambiando?
R. In Italia, negli ultimi anni, abbiamo visto una sorta di modificazione «antropologica» della committenza. Gli incarichi pubblici sono sostanzialmente scomparsi, anche se non sono mai stati centrali nel nostro lavoro, mentre sono i grandi gruppi assicurativi e finanziari a costituire una interessante domanda di trasformazione di immobili. Questi gruppi hanno grandi portafogli immobiliari da valorizzare. In molti casi si tratta di immobili degli anni 60-70, edifici pensati secondo logiche ormai incompatibili con le esigenze di oggi. Per cui al progetto di architettura si chiedono innanzitutto due cose: da un lato, un’opera di «svecchiamento» estetico che ha funzione di valorizzazione immobiliare e, dall’altro, un’opera di «adeguamento» che ha funzione di miglioramento delle prestazioni termiche tecnologiche dell’edificio. La nostra politica è comunque quella di tenere aperto sia il fronte nazionale che quello internazionale. Lavorare in Italia comporta delle difficoltà molto diverse di quelle che si incontrano all’estero.
D. A cosa state lavorando in Italia?
R. Attualmente in Italia abbiamo in cantiere il recupero di villa Brunati e del suo giardino sul mare a Punta Murena, ad Alassio. Si tratta di un complesso di inizio Novecento che viene ripensato come un moderno villaggio turistico. Stiamo inoltre lavorando in diverse realtà locali sul tema dell’housing sociale. Per quanto riguarda Milano, abbiamo da poco iniziato la costruzione della nuova sede di Siemens; a breve inoltre insieme a Stefano Boeri apriremo il cantiere del nuovo polo ospedaliero del Policlinico di Milano, un edificio di grandi dimensioni - 70 mila metri quadrati, il più grande costruito in centro negli ultimi 100 anni - che rinnoverà l’offerta della sanità milanese. Anche in questo caso abbiamo sperimentato, come nel Bosco Verticale, un’integrazione tra edificio e elementi naturali. La copertura del nuovo ospedale è un giardino pensile di 6 mila metri quadrati di spazi verdi. È grande come un campo di calcio di serie A ma a 200 metri dal Duomo.
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