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Corsera Story. Gli esperti del Corriere della Sera non avevano previsto l’arrivo della grande crisi

L'opinione del Corrierista

Il grande momento, ovvero la resa dei conti è arrivata anche per il Corriere della Sera, il quotidiano che negli ultimi decenni era diventato l’espressione di una parte della popolazione italiana insieme alla quale ha fallito il proprio compito; una componente di élite, esclusiva, distinta da tutte le altre, operante all’interno di una società formata dalla massa, da tutti gli italiani appartenenti a qualunque ceto sociale. Di tale componente il Corriere si ergeva a guida e a modello. Parlo di quel mondo, esistente intorno ad esso e nel suo interno, costituito da quella che una volta teneva a farsi chiamare la «Milano Bene», a brillare nei salotti del potere, delle grandi famiglie industriali e finanziarie, delle grandi banche nazionali e dei loro celebrati protagonisti dell’epoca.
Un mondo caratterizzato da propri riti, convinzioni, slogan, presunzioni e soprattutto autoreferenzialità. Ricordiamo gli anni del dopoguerra, in particolare i decenni 50 e 60, le liturgie del potere economico, del grande capitale, i suoi personaggi ufficialmente al top anche della cultura italiana, le sue case editrici, i quotidiani e settimanali, tutto il mondo della comunicazione, dell’informazione e della pubblicità.
Pensiamo altresì ai mondi dell’auto, dei frigidaire, delle lavatrici, tutto ovviamente costruito nel Nord; a quelli delle manifestazioni sportive e mondane, del «miracolo» economico, della Fiera di Milano; alle signore impellicciate per le «prime» alla Scala e imbalsamate per gli appuntamenti di Cortina, al presunto primato di una cultura rappresentata e aggreppiata intorno al Corriere della Sera. Per contrasto ci balzano in mente, per un istante, eroiche figure del Meridione d’Italia, quelle di Rocco Scotellaro, Carlo Levi e tanti altri.
Un mondo, quello del Corriere della Sera, che con la forza del denaro ha trainato e guidato certamente lo sviluppo di un’economia nazionale povera, distrutta dalla guerra; ma si trattava in buona parte del denaro dello Stato, prodotto dal lavoro di tutto un popolo di contadini, operai, artigiani, commercianti, piccoli impiegati. Con la grande crisi economica degli anni 2000 che stiamo vivendo, e che nessuno ha ancora scritto dove finirà per sboccare, tutto quel mondo del «dané», ossia del denaro, è crollato, soprattutto nella sua presunta funzione di guida, di modello per tutti quanti gli italiani.
Con i gravi problemi sul tappeto il salotto buono culturale rappresentato dal Corriere della Sera e dintorni non solo ha subito un forte sbandamento finanziario e di immagine, come ha dimostrato il dissesto finanziario registrato nei bilanci degli ultimi esercizi che ha costretto i vertici del Gruppo ad adottare drastiche misure consistenti in tagli di spese e in ridimensionamenti di attività. Le proposte avanzate dall’amministratore delegato Pietro Scott Jovane hanno rivelato la drammaticità della situazione finanziaria.
Anche se sul reale andamento finanziario dei grandi Gruppi e società spesso le cifre fornite sono inintellegibili per gli inesperti, per i non iniziati nella materia e per chi non segue giornalmente tali vicende, sono stati però super eloquenti i rimedi proposti: tra i quali la vendita o chiusura immediata di ben 10 delle 11 testate periodiche, tra cui figurano anche riviste storiche, illustri, autorevoli come l’Europeo; il licenziamento di qualche centinaio di giornalisti della testata madre, il Corriere della Sera; la progettata vendita della famosa sede milanese di Via Solferino 28, il Pantheon del giornalismo italiano.
Certamente il dissesto finanziario del Gruppo RCS Corriere della Sera, ora chiamato RCS MediaGroup, non è argomento da impressionare gli italiani di oggi, abituati a ben altre disamministrazioni finanziarie nei settori sia privato sia pubblico, quest’ultimo in particolare diventato l’esempio della mala amministrazione totale. Preoccupata al massimo, ma fino ad un certo punto, sarà la stretta cerchia dei suoi azionisti proprio perché, costituendo appunto una ristretta cerchia, è stata chiamata a rifinanziare il Gruppo, comunque con capitali incassati e dividendi percepiti in precedenti esercizi positivi e in altre lucrose attività finanziarie, bancarie, industriali favorite proprio dal tipo di gestione e di politica perseguito dal Gruppo.
Ad ogni affezionato lettore del Corriere della Sera poco interessano i risultati finanziari e il tipo di proprietà e di gestione del grande Gruppo giornalistico, e soprattutto della sua punta di diamante nella quale ha sempre creduto, della quale ha seguito giornalmente le diagnosi compiute dai suoi articolisti, commentatori, opinion leader, cattedratici, ritenuti i più bravi, saggi, aggiornati del mondo. Diagnosi però spesso rivelatesi fallaci e infondate, e lo dimostra proprio la grande crisi economica che ha scompaginato anche i risultati finanziari del Gruppo.
Come mai, infatti, le «illustri» firme dell’economia ma anche della politica, chiamate a collaborare per interi lunghi decenni alle diagnosi economiche, politiche e sociali del Corriere non avevano previsto l’arrivo della grande crisi? Ma molto più ancora c’è da domandarsi: come mai non avevano previsto che la concorrenza dell’ex Terzo mondo e in particolare della Cina avrebbe ridotto piccole, medie e grandi imprese italiane o a trasferirsi all’estero, o a ridimensionare l’attività o a chiuderla? Hanno tanto scritto e parlato della globalizzazione dell’economia, ma quanto delle sue conseguenze su scala sia mondiale, sia semplicemente nazionale?
Come mai non avevano previsto che l’esplosione dell’immigrazione in Italia avrebbe comportato un numero di problemi sociali ed economici ancora sconosciuti? Né avevano previsto che l’euforia consumistica stimolata dalla pubblicità televisiva, favorendo certamente gli introiti della tv di Stato lottizzata e amministrata dai politici, e di quella privata in mano ad un paio di satrapi più che di imprenditori, avrebbe perennemente alimentato l’inflazione, ridotto il potere di acquisto di stipendi, salari e pensioni, distratto le folle dall’obbligatorietà di una sana gestione della finanza pubblica, e in particolare dall’indispensabilità del requisito per i pubblici amministratori di essere onesti, parsimoniosi, realmente interessati al funzionamento e all’onestà della Pubblica Amministrazione.
La conclusione è triste: dopo questa spiacevole vicenda da esso vissuta, non si può continuare a sostenere che tutti i Saggi del Corriere della Sera siano stati proprio una guida, un esempio, un modello per il Paese.
        Victor Ciuffa

Tags: Luglio Agosto 2013 Corsera story Victor Ciuffa Corriere della Sera Corrierista

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