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Il marchese Antonio Gerini, rimpianto per una Roma dal fascino intramontabile

marchese Antonio Gerini

A pochi giorni dalla scomparsa dell’onnipresente, glamour, chiassosa, supersexy Anita Ekberg, avvenuta tristemente lo scorso mese di gennaio dopo i vari decenni di sua cittadinanza romana, ossia dopo aver abitato tanti anni in questa città e, negli ultimi, anche nei Castelli Romani - località che ha richiamato e ospitato tanti protagonisti di quella famosa epoca internazionale, anzi mondiale che fu la Dolce Vita, - «il Marchese della notte» Antonio Gerini è tornato visivamente a Roma accompagnato dall’alone di una «vita densa di lotte e sogni, successo, amori, onori». Questo indica, infatti, il sottotitolo che il fantasioso biografo del Marchese, cioè l’amico e architetto Giorgio De Romanis, ha dedicato al libro edito da Armando Editore, nel quale ha voluto raccontare e illustrare soprattutto il modo di vivere, il costume, le abitudini, gli anni d’oro trascorsi nel secondo dopoguerra da una certa, sicuramente più fortunata gioventù romana.
La Dolce Vita, ha scritto De Romanis, deve molto all’aristocrazia romana: «Soltanto un gruppo di giovani in possesso di nomi e cognomi lunghissimi, che solo a leggerli evocavano casate, dinastie, pontefici ed immense ricchezze, poteva dare la scossa ad una città che usciva devastata dalla guerra, e a cui sarebbe toccato in sorte un dopoguerra molto lungo. Pepito Pignatelli, i fratelli Dado e Sforza Ruspoli, Olghina De Robilant, Augusto Torlonia, Ludovico Lante della Rovere, Filippo e Raimondo Orsini, Alberto Riario Sforza, Franco Mancinelli Scotti; e molti altri nobili romani, eredi di stemmi, castelli, vestigia, ma di pochi quattrini perché già finiti grazie allo smodato tenore di vita di babbi e nonni, si incaricarono di tenere alto il prestigio internazionale di quegli anni dorati. Antonio, anzi, ‘il Marchese Antonio’, apparteneva per lignaggio a quel gruppo, ma il tratto, il garbo e l’innata signorilità l’hanno sempre collocato in un ambito diverso, speciale, anche se, nella sua rocambolesca vita, non sempre ha avuto a che fare con dei maestri di stile».
Spinto dai ricordi e dalla splendente immagine di un’epoca che non tornerà mai più, l’architetto racconta, ricordando Punta Ala, che: «il luminoso sole di luglio non perdonava agli occhi di ognuno di essere protetti dai nerissimi occhiali, anche se qualcuno cercava riparo sotto piccoli ombrelloni. Purtroppo invano, non c’era rimedio. Il riverbero del mare, della spiaggia bianchissima, teatro di assidue frequentazioni durate almeno due o tre decenni, era così intenso–scrive De Romanis–che alcuni, cercando un po’ d’ombra, si erano sistemati in modo da guardare il verde della pineta per avere un po’ di sollievo». Ma come si conoscevano i due, cioè l’architetto e il marchese? Lo racconta così l’autore della biografia: «Antonio Gerini ormai lo conoscevo, ci eravamo visti saltuariamente in qualche occasione o cocktail offerto dagli amici nel Circolo degli Scacchi. Subito simpatizzando, era nata una reciproca amicizia. Ora egli era di fronte a me, distrattamente lo guardavo, nella mia mente era rimasto il miraggio di una sera, l’idea dell’uomo di successo cui nulla era negato. «La spiaggia, le belle ragazze che ci passavano davanti nei succinti due pezzi colorati, il mare blu, il sole impietoso, appena mitigato dal leggero maestrale, ma debbo dire complici anche alcune bottiglie di vino che non si faceva in tempo a richiedere al cameriere, rendevano tutti gli amici smaniosi di essere, di parlare, di ridere, di bere, alzando ognuno sempre di più la voce per guadagnarsi un po’ di ascolto degli altri».
E che succede allora? «L’intonazione della voce così suadente, seducente, sorprende il cameriere come se gli avessero richiesto ‘foie gras’ ed ‘anatra all’arancia’ scambiandolo per il maitre della Tour d’Argent di Parigi, invece del piccolo ristorante sulla spiaggia. La richiesta ha un tale successo che anche gli altri cambiano subito la ‘caprese’ e gli ‘spaghetti alla puttanesca’, precedentemente ordinati, facendo capire di gradire una bella pizza napoletana al prosciutto, confondendo, fino a fare impazzire, il cameriere ormai grondante di sudore per il sole e per la stanchezza».
Finalmente Antonio, sempre in silenzio, comincia a parlare: «Tante soddisfazioni ho avuto con le amicizie, gli amori, la considerazione di chi ha partecipato e collaborato dedicandosi a me, avendo per questo ricevuto molto in cambio. Danari, tranquillità futura». «Scusate amici,–De Romanis interrompe–non siete stati comprensivi né gentili con Antonio, lui lo è stato con noi, non vedete che non ha mangiato nulla, la pizza al prosciutto ormai è fredda, propongo di ordinarne un’altra, che penso sia più buona, sicuramente più calda». Ne viene fuori un quadretto magistralmente riprodotto con poche e semplici parole oggi, a 40, 50 e forse 60 anni o più, da quei luminosi giorni, anzi mesi, anzi anni di conquiste, progressi, successi e soddisfazioni.
E, nonostante sia stato non solo un protagonista di quei giorni, l’architetto De Romanis ne è stato anche un creatore, un disegnatore, proprio un architetto, pur essendo trascorsi tanti anni al termine dei quali egli non esita a giudicarli, ma a ricostruirli, riferendosi alle vicende del «Marchese della notte», in una sola maniera, con un solo giudizio, esaltandolo: «Le tue storie non sono belle, sono bellissime! Pensavo che quello che dici o che potresti dire o che hai detto lo scriveremo su un libro, potremmo avere un grande successo, tutto ciò che dirai saranno episodi inediti, di un protagonista dei favolosi anni 1950-1980, ormai passati, ma considerati, da chi li ha vissuti, i più belli e creativi della nostra epoca».
Marco, un giovane avvocato, seduto vicino al tavolo, che non aveva perduto una parola del nostro entusiasmo, mi guardava sorpreso. «Marco! Oggi è un giorno fortunato! Se lo desideri, ti affidiamo la consulenza di tutte le questioni legali di questa iniziativa. Che ne dici Antonio? Non credere non sarà una passeggiata, qui ti farai le ossa, entrerai in un mondo intellettuale, di cultura, con personalità vive ed interessi vari che certamente impegnano».
È anche un profeta, questo architetto. Ora il libro l’ha scritto, e vi ha inserito dei brani di dialoghi scambiati via via nel tempo con il marchese: «Di prima mattina Antonio mi telefona: Ciao, come stai? Mi volevi dire qualcosa?». «No assolutamente, va tutto benissimo, ma, sono in imbarazzo. Non so come dirlo, però mi sembra importante, quando parli di me e dici Antonio…, no, volevo dire Antonio Gerini. Sarebbe più opportuno dire il Marchese Antonio Gerini. Nell’ambiente dello spettacolo tutti mi chiamavano il Marchese.
Ma chi sono o sono stati i Gerini a Roma? Quale la storia di questa famiglia? Diligentemente l’architetto De Romanis la riassume. «Così va molto bene Giorgio, siamo sulla buona strada–approva Antonio–, però prima vorrei fornire qualche notizia sul Casato Gerini: dobbiamo andare un po’ indietro, solo due parole, facendo come i gamberi; ed arrivare all’anno Mille per incontrare Carlo Magno, il più grande condottiero della Cristianità. Un suo luogotenente, chiamato Gerino, che si era fatto notare per la capacità nell’amministrare le terre conquistate e le leggi innovative introdotte, era considerato da tutti il più saggio, meritandosi la conduzione dell’esercito. A suo merito è la liberazione di Rolando a Roncisvalle. Altre notizie si sono perse negli oscuri secoli del Medioevo. Il Casato Gerini si ritrova tra i banchieri francesi, chiamati dai Medici di Firenze, per finanziare le guerre d’espansione contro Pisa e Siena. Firenze, dominatrice del mondo delle arti, della finanza, con le casse purtroppo vuote, non potendo pagare i debiti ai banchieri, Gerini cedette loro alcune delle ville più belle, dette medicee». A metà dell’800, il Marchese Antonio Gerini, nato in una famiglia di origine fiorentina, sposa la principessa romana Anna Maria Borghese. La parentela con Roma si rafforza quando Cesare Gerini, loro figlio, nato nel 1871, uomo politico dei primi del 1900 fino a diventare senatore del Regno italiano nel 1920, sposa la principessa Teresa Torlonia. Dei suoi tre figli maschi Carlo, Alessandro, Filippo, e due femmine, Isabella e Maria Immacolata–racconta Antonio– iniziamo a parlare di Carlo, mio padre, per il carattere libero, spesso in dissenso con la famiglia, severo padre-padrone, e poi di Alessandro, mio zio, uomo d’affari, senatore della Democrazia Cristiana per le sue capacità imprenditoriali, per le proprietà terriere ed immobiliari ereditate in Roma.
Carlo sposa la contessa Maria Antonietta Bennicelli, mia madre. Nascono dalla coppia quattro figli: Anna Maria nata il 25 gennaio 1923 e futura moglie del marchese Cesare Cordero di Montezemolo; Giovanna, nata il 24 agosto 1926 e futura moglie del marchese Azzolino dei principi Carrega Bartolino; Gerino, nato il 10 agosto 1928 e futuro marito dell’attrice, cantante e soubrette Elena Giusti; e Antonio, nato l’8 agosto 1934, e che sposerà l’attrice teatrale Paola Quattrini.
Per rassicurare Antonio sulla sua richiesta che lui è un marchese, l’architetto De Romanis continua: «È tutto voluto, non è una dimenticanza, tutto ciò, in seguito mi darà l’occasione di parlare un po’ della tua famiglia, della tua discendenza, dell’importante Casato di cui hanno fatto parte politici, amministratori pubblici, benefattori coinvolti in una profonda fede religiosa, altri presi da stravaganze, piaceri mondani ed altri ancora, come nel tuo caso, dediti all’impegno nella serietà, all’affermazione delle proprie capacità con vantaggio per sé e per gli altri. Ora mi fai riflettere, forse è più appropriato, quando parlo di Antonio Gerini, paragonare il Marchese Antonio Gerini a Totò, che aveva ottenuto tutto dalla vita, ma gli mancava un Titolo, e diceva: ‘Principi si nasce, ed io modestamente lo nacqui’; anche tu Marchese lo nascesti! Certamente so della grande famiglia, ho conosciuto quel tuo parente detto il ‘Costruttore di Dio’, che tanto ha scatenato la mia immaginazione quando una volta, guardando una planimetria di Roma, notai che quasi tutti i terreni costruibili ad est e a sud della città erano del Marchese Alessandro Gerini. Mi ricordai di Trimalcione, grande mecenate, proprietario terriero della Roma imperiale, personaggio descritto da Petronio nel Satyricon».
Nei favolosi pranzi che duravano più giorni raccontava ai propri commensali per meravigliarli: «Da Roma, pe annà in Sicilia passo solo su la tera mia. Lo dico in romano moderno, non conoscendo il dialetto latino». Subito dopo Antonio riprende la parola: «La contessa Maria Antonietta Bennicelli, mia madre, donna molto bella, era più grande di mio padre. Il matrimonio non era gradito alla famiglia, in particolar modo alla madre principessa Torlonia, la quale, avendo un debole per il primogenito, cerca di dissuaderlo facendogli arrivare notizie che avrebbero fatto rinunciare qualsiasi uomo del tempo per i corteggiamenti assidui degli ammiratori, giustificati dalla sua bellezza». Ma tutto andò per il meglio, tranne il rapporto con lo zio Alessandro, che muore all’età di novanta anni, dopo una vita di grandi successi. «Il senatore democristiano Alessandro Gerini, uno degli uomini più ricchi d’Italia, lascia tutti i parenti con un palmo di naso quando il notaio, aperto il testamento davanti agli aventi diritto, dichiara che tutti i beni, valutati almeno 1.500 miliardi di vecchie lire, passano in proprietà alla Fondazione dell’Ordine dei Salesiani, Istituzione benefica che dal 1963 è impegnata in attività di assistenza ai bambini e giovani bisognosi e alla costruzione di nuove Chiese in Italia e all’estero».
«Tutta la sua vita l’ha dedicata alla speculazione e valorizzazione delle proprietà ereditate dalla famiglia, non sappiamo se per compiacere la madre o per sua inclinazione naturale. Gestiva i propri affari a Villa Torlonia, ormai disadorna, fatiscente, dopo che nel momento del suo massimo splendore con il consenso di tutta la famiglia era stata ceduta per l’abitazione del  Duce con un canone simbolico, sembra di una lira dell’epoca, all’anno. A quel tempo, il Capo del Governo in varie manifestazioni pubbliche cui partecipavano entrambi i genitori di Antonio apprezzò la grazia e l’avvenenza di mia madre e in seguito, oltre alla stima che aveva per mio padre, si aggiunse una frequentazione con lei per avere consigli sulla vita delle giovani italiane. Ricevuta spesso a Palazzo Venezia, ebbe, per molto tempo, la possibilità di incidere con innovazioni e miglioramenti sulla condizione sociale delle donne. Un giorno, in occasione della mia nascita, Benito Mussolini, capo del Governo, inviò un telegramma di congratulazioni: «Plaudo nascita nuovo virgulto dell’era fascista, sicuro rinnoverà lo stesso, con la forza, l’intelligenza, la capacità della sua bellissima madre e di lei sarà vanto ed onore per tutta la rivoluzione. Firmato: Benito Mussolini. Anno XII dell’Era Fascista.
Dopo la prematura morte della moglie, mio padre, già colpito da ictus, vegetava in una vita senza interessi, finché ottenne dal fratello Alessandro la proprietà della «Villa Le Maschere» con mille ettari di terreno intorno, detta anche Villa Gerini, situata a Barberino di Mugello vicino Firenze, e che deve il nome alle 22 maschere scolpite. Vi trascorse gli ultimi anni di vita, con il piacere di aver realizzato quanto desiderato. «Ti capisco Antonio–scrive l’amico architetto–; forse non dovremmo parlare di questo, ma di ciò che ti ha emozionato e che accade spesso a molti fratelli, facendoti sentire responsabile degli altri per un’investitura genitoriale». Una pausa molto lunga, poi, come ripreso, Antonio continua: «Una sera mia sorella più grande, Giovanna, per aggirare il diniego del padre, mi chiese di uscire per andare a ballare con un suo corteggiatore, ci avrebbe accompagnato anche la sua amica Vivì. Nacque un grande amore. Per me, racconta Antonio, lasciò un importante industriale milanese, sfortunato in amore, in quanto il destino maligno si accanì contro di lui, tanto che l’attrice Elena Giusti l’aveva già lasciato per sposare mio fratello Gerino. Mi piace ricordare anche la zia Lilli Poli, cittadina americana che amava vivere lussuosamente nella villa di Cala Galera a Porto Santo Stefano, da lei comprata a caro prezzo. Andavo a trovarla un po’ per piacere e un po’ per interesse».
Ricorda ancora il marchese Antonio: «Perché volevo una Cadillac bianca cabriolet, che solo intestandola ad un cittadino americano era possibile avere con targa straniera per risparmiare la dogana. Usavo spesso la Cadillac per il trasporto di prodotti proibiti come Cognac Fundador, Champagne e Whisky, non essendo l’auto controllata. Purtroppo tutto passa, tutto finisce, così la villa di Santo Stefano fu acquistata da Susanna Rattazzi Agnelli, sorella dell’Avvocato Gianni». Anna Maria, più grande di me, aveva sostituito come amorevole sorella, mia madre, ma era troppo impegnata nelle faccende di una famiglia numerosa, comprese quelle del padre, cui doveva provvedere, oltre alla gestione del personale di casa: «Ricordo con angoscia–dice Antonio–il giorno del compleanno di mio fratello maggiore, Gerino, tutti noi ed alcuni amici partecipavamo ai festeggiamenti per l’occasione. Nella nostra casa, la prima sala era dedicata esclusivamente a mio padre con la sua scrivania, la biblioteca con collezioni di libri antichi; la seconda sala, più grande si affacciava sulla Piazza, dalla grande vetrata si leggevano le ore scandite dall’orologio al centro della torretta. Quel giorno gli ospiti, in attesa del pranzo, gustavano, sorseggiando Champagne, tartine, canapé, offerte per stemperare l’appetito, seduti sulle comode poltroncine, o in piedi vicino al tavolo imbandito per gli aperitivi, aspettando il fatidico momento. Quando improvvisamente con un filo di voce Anna Maria dice: «Ho un corteggiatore, lo amo. Mi voglio sposare». Segue un lungo silenzio.
«Non sarà quel cascamorto che ogni tanto vedo per casa mia?–domandò mio padre–. Tu sei la marchesa Anna Maria Gerini, il tuo censo impone una vita di rappresentanza con una bella dimora, in una città importante, la compagnia di un uomo il cui Casato sia almeno pari al tuo!». Aveva paura di rimanere solo, gli sarebbe mancato l’appoggio, la compagnia di mia sorella che sempre aveva pensato a tutta la famiglia, forse anche per l’idea che, a breve, avrei scelto di andare via dalla casa di Piazza dell’Orologio; vedeva per sé un futuro di solitudine. Per la prima volta ho avuto il coraggio di parlare e dirgli che lo rispettavo e lo temevo, esprimendogli il mio pensiero: Padre, ho sempre avuto grande stima per Voi, comprendo l’affetto per Anna Maria e il piacere di vederla sposata, che ci accomuna. I Vostri principi, il modo in cui avete sempre vissuto vi nascondono che il mondo, i pensieri, i rapporti sociali tra le persone sono completamente cambiati. Vi scongiuro di non fare ciò di cui un giorno potreste amaramente pentirvi, avendo negato il vostro consenso al matrimonio, con l’angoscia che vi perseguiterà tutta la vita senza poterci mettere rimedio.
 Tutto andò per il meglio ed io, sicuro delle mie capacità, cominciai una vita di successi come imprenditore. Da piccolo, il mio carattere non era ancora formato, timido e poco socievole, forse perché all’età di due anni mi era mancata mia madre, raramente scendevo in strada per giocare a calcio o a «nizza» con i ragazzi della zona; quando si è giovani non si guarda alla ricchezza o al nome, eravamo tutti uguali. Altra mia passione era fare il boy scout, presso la Parrocchia della Cancelleria, vicino casa. Mio fratello Gerino, molto più grande di me, non era mai in casa, sempre impegnato nella collezione di auto antiche, sua vera passione e a partecipare a gare come la Mille Miglia, la Targa Florio, la Vernicino Rocca di Papa con discreto successo.
L’inverno del 1951-1952, come sentivo dire da mio padre, da mio fratello Gerino, dai giornali, sembrava fosse l’ultimo per le sofferenze di un’Italia che cominciava a risvegliarsi dopo aver molto patito durante la guerra. In quei pomeriggi, mentre traducevo il «De bello Gallico», o imparavo la «Divina Commedia» a memoria, la mente usciva dalla stanza, spaziava inseguendo sogni di gloria per il futuro. Nulla di quanto immaginato mi sembrava impossibile. Sognavo, mentre guardavo il ritratto di mia madre, ricordavo le ultime parole che disse a mia sorella mentre mi teneva in braccio: «Anna Maria, fammi abbracciare questo bambolotto che ogni giorno è più bello. Antonio, avrai successo ed onori con amici ed amori, con donne che lascerai, perché sai che nessuna ti potrà amare come me». Da queste parole voleva una conferma inconscia che lo spingeva a ricercare qualcosa che a stento immaginava, senza capire il significato: La libertà di decidere».
Così iniziai quella salita verso l’Olimpo che sentivo mi avrebbe portato al successo come imprenditore. I nostri figli del popolo - Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Rossano Brazzi e il futuro osannato Marcello Mastroianni, divo della «Dolce Vita»,- venendo dal nulla, si facevano strada nell’immagine di noi giovani. Quella sera, trasportato da una potente calamita, mi dirigevo verso Via Veneto, fermandomi per un po’ ad ammirare la Piazza Navona per apprezzare il ricordo infantile del «Tartufo gelato» del Bar Ciampini; unico premio della mia vita quando facevo qualcosa di buono. Tutto ciò risvegliava in me potenti ed ansiose emozioni. Uscendo dalla Piazza lo sguardo vaga a destra, a sinistra, scorge la mole maestosa del Palazzo Madama, sede del Senato, che attrae con la sua imponenza.
Proseguo il cammino, attraverso Via del Corso, salgo la lunga strada che ho di fronte, mi fermo in Piazza Barberini. Il Tritone, con l’autorità di un Dio degli abissi, troneggia sulla conchiglia della fontana del Bernini con in mano la buccina. A destra la Via Leonida Bissolati, nuova strada aperta nel 1929, dominio esclusivo di compagnie aeree di tutto il mondo, illuminate da insegne al neon colorate. Continuando, sempre più affaticato, volgo lo sguardo a sinistra, imponente mi appare la sagoma dell’Hotel Excelsior con la cupola illuminata a giorno. «Finalmente Roma ha un albergo degno del suo nome», disse il sindaco Ernesto Nathan nel 1900, quando fece realizzare il maestoso edificio su suggerimento del ministro Antonio Di Rudinì, prendendo come esempio il Savoy di Londra, desideroso di dare accoglienza nella capitale alla buona società europea. Dai grandi archi della Porta Pinciana entravano, come una sfilata di moda, automobili lucenti, Cadillac, Studebaker, Buick, Rolls Royce, Alfa Romeo, Lancia, Ferrari. In extremis, De Romanis ci ricorda anche che, nel momento della tappa finale della vita di Anita Ekberg, su indicazione del «patron» Ezio Radaelli, fu proprio Antonio Gerini il compagno dell’affascinante diva svedese per uno degli ultimi «Rally del Cinema» vincendo insieme, quella insolita coppia, il primo premio.
Ma chi è l’autore di questa singolare biografia del marchese della notte? Giorgio De Romanis. Descrive personaggi della scintillante Roma del dopoguerra, della quale però anche egli ha fatto parte con ruoli non soltanto di attento osservatore. Nato a Roma nel 1937 e laureatosi in Architettura a Valle Giulia, con il suo studio professionale ha curato la progettazione e la realizzazione di numerose opere di grande rilievo scientifico, economico, artistico e soprattutto culturale, suggerendo, nel suo libro «Piazza Sallustio», la conservazione di quel gioiello architettonico subentrato, dopo la presa di Roma ad opera del Regno d’Italia, per il Giardino Ludovisi-Boncompagni, e più in particolare per il piccolo ma prezioso quartierino, a ridosso di Via Veneto, caratterizzato da villini ed edifici pubblici e privati di spiccato stile liberty. Per poi lavorare, negli anni recenti, all’ideazione e alla fattibilità del grande Ponte sull’Adriatico, progettato per unire via mare Ancona con Zara, confermando la sua vocazione per l’acqua, avendo progettato, negli anni ‘70, il ponte che collega la terraferma al porto di Olbia, importante opera già realizzata, oltreché scrivere una serie di opere. La presenza anche strettamente professionale di De Romanis può individuarsi, oltreché nella frequentazione della buona società romana del secondo dopoguerra, nella salvaguardia, nella conservazione e nella valorizzazione dell’intera area anticamente conosciuta come gli «Horti Sallustiani».

(Il libro «Il Marchese della notte Antonio Gerini» di Giorgio De Romanis è acquistabile nelle librerie o direttamente presso Armando Editore, Viale Trastevere n. 236 tel. 06.5817245; o, via email, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.)  

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